MANNETTI, Giovenale
Nacque presumibilmente a Roma alla fine del XII secolo.
Nel Duecento il M. fu l'esponente di maggior spicco della sua famiglia. I Mannetti, famiglia romana tanto importante quanto poco nota, costruirono la loro fortuna all'interno del processo di profondo rinnovamento dell'élite cittadina, in atto dalla metà del secolo XII e protrattosi nei primi decenni del Duecento, che vide il fiorire di numerosi nuovi casati aristocratici la cui prosperità si basò spesso sul commercio del denaro su scala internazionale.
Non è possibile stabilire un sicuro collegamento genealogico tra il M. e Nicolaus Mannettus, senatore di Roma nel 1157, circostanza che avrebbe potuto contribuire a meglio comprendere l'ascesa sociale della famiglia. In una lettera pontificia del 1227 il M. è ricordato come "filius Mandicti", il che fa ipotizzare che lui e i suoi fratelli fossero figli di un altrimenti ignoto Mannettus/Mandictus, dal quale trasse il nome la famiglia. In questo senso essi potrebbero essere identificati con i "filii Mainecti" che nel 1213 appaiono quali creditori del Comune di Perugia.
Le testimonianze documentarie permettono di stabilire, anche se con qualche dubbio, che il M. ebbe almeno tre fratelli, Pietro, Ottone e Stefano; sembra quindi da rifiutare l'ipotesi che Pietro e Stefano fossero suoi figli, come è stato supposto da Thumser.
Il M. fu padre di non meno di quattro figli, Giovanni, Stefano, Francesco e Giovenale. Giovanni, quasi certamente il primogenito, nel 1229 era maggiorenne o in procinto di diventarlo, mentre Giovenale nel settembre 1269 è ricordato come ancora minorenne (tuttavia come "iam adultus" è menzionato in un documento scritto sei mesi dopo). Madre di Giovenale fu Maria, della quale si ignora la famiglia di origine, ma è possibile supporre che ella non fosse stata la sola moglie del M., piuttosto la seconda, basandosi soprattutto sulla grande differenza d'età che intercorreva tra Giovanni e l'ultimo nato, Giovenale. La circostanza che a partire dal 1269 compaiano come eredi del defunto M. solamente i figli Francesco e Giovenale potrebbe far pensare che gli altri due fossero a quella data anch'essi morti.
L'elevata posizione sociale raggiunta dal M. è ben evidenziata anche dal titolo di nobilis vir che gli viene talvolta attribuito dalle fonti coeve. Analogamente sono indicati in qualche lettera papale come nobiles viri pure i fratelli Pietro e Ottone; quest'ultimo poteva fregiarsi, inoltre, del titolo di miles, il che evidenziava la sua attitudine al combattimento a cavallo nelle schiere della militia cittadina romana e, forse, indica che era stato investito cavaliere con il rito della consegna delle armi. Allo stesso Ottone fu attribuito anche il titolo di Romanorum consul, che nel primo Duecento, secondo una recente interpretazione, indicava ancor più fortemente l'appartenenza all'élite politica romana.
La prima testimonianza diretta relativa al M., che risale al settembre 1225, lo ricorda come creditore dell'arcivescovo di Colonia Engelberto di Berg, che da lui aveva ottenuto un mutuo di oltre 400 marche di sterline.
Svariate sono le testimonianze di mutui concessi dal M., come da molti altri mercatores romani, ad arcivescovi, vescovi e altri ecclesiastici che si erano recati a Roma e avevano necessità di denaro liquido per il loro soggiorno e per far fronte al cosiddetto "sistema dei doni", che prevedeva l'elargizione di regali e somme di denaro al papa, ai cardinali e agli esponenti della Curia per risolvere le loro molte e varie questioni pendenti presso la Curia pontificia. Le testimonianze sull'attività creditizia dei mercatores romani tra la fine del XII e la prima metà del XIII secolo appaiono limitate, tanto numericamente, quanto tipologicamente. Le notizie superstiti sono per lo più relative alle vicende che crearono loro problemi, ossia a quei crediti dei quali non riuscivano a ottenere soddisfazione, imponendosi per questo il ricorso alle autorità superiori e in particolare ai pontefici, i quali, soprattutto Innocenzo III, Onorio III e Gregorio IX, ma anche Innocenzo IV e Alessandro IV, accordarono loro sostegno e protezione. Si tratta dunque di un numero limitato di testimonianze e dal carattere eccezionale, rispetto a quella che doveva essere la dimensione di documentazione prodotta in relazione all'effettivo giro d'affari.
Una lettera di Onorio III del 18 genn. 1227 sollecitava, minacciando pesanti sanzioni, il vescovo di Metz alla restituzione della somma di denaro che il M. aveva concesso in mutuo al suo predecessore, Corrado di Scharfeneck.
Circa il credito che il M. vantava nei confronti della Chiesa di Colonia, lo stesso giorno il papa scriveva all'arcivescovo Enrico di Müllenark, tornando a sollecitarne la soluzione. La vicenda tuttavia si protrasse per lungo tempo. Nel giugno 1228 il debito non era ancora stato saldato e si giunse a un accordo tra le parti, in base al quale un rappresentante dell'arcivescovo si impegnò a corrispondere al M. una somma di 1000 marche; il creditore fu soddisfatto contestualmente per 320 e si stabilì che le residue 680 sarebbero state pagate da lì a tre anni, gravate, ovviamente, da interessi. Si ha notizia di un ulteriore prestito di oltre 1150 marche concesso dal M., in società con un altro mercator romano, all'arcivescovo di Colonia, credito che nel 1239 risultava, almeno in parte, ancora insoluto. Ancora a proposito dei debiti della Chiesa di Colonia nei confronti del M., nel 1236 anche Gregorio IX intervenne rivolgendosi all'arcivescovo di Magonza affinché provvedesse a raccogliere coattivamente i proventi della mensa arcivescovile di Colonia e con essi saldasse i debiti del defunto metropolita di Colonia.
Anche la vicenda dei debiti del vescovato di Metz nei confronti del M. si protrasse a lungo. I vescovi di Metz Corrado di Scharfeneck (1213-24) e Giovanni d'Aspremont (1224-38) avevano fortemente esposto il loro vescovato nei confronti di svariati mercanti-banchieri senesi e romani, oltre che verso cittadini della stessa Metz. Secondo alcune stime, nel 1237 il debito complessivo ammontava a quasi 9200 marche e di queste 2300 erano dovute al solo Mannetti. Dopo l'intervento diretto a favore del M. da parte di Onorio III del gennaio 1227, la pendenza si protrasse per anni. Gregorio IX, al quale i creditori romani del vescovato lorenese si erano rivolti, aveva affidato la soluzione della questione al cardinale Sinibaldo Fieschi, il futuro pontefice Innocenzo IV, che era riuscito a mediare un accordo, che però non fu rispettato dai debitori. Così il M. e gli altri creditori continuarono la loro azione di rivalsa presso il papa, che prese nuovi provvedimenti, dimostratisi però infruttuosi. Il nuovo vescovo di Metz, Giacomo di Lorena (1239) fu addirittura scomunicato nel 1240; passarono oltre tre anni prima che il presule fosse liberato dalla suprema censura ecclesiastica e per questo si dovette impegnare a saldare una parte dei debiti. Rimaneva però da corrispondere ai creditori la maggior parte delle somme pendenti. Intorno al 1256 si ebbe un intervento del pontefice Alessandro IV (che non esitava a definire il M. "Ecclesie romane devotus": Les registres d'Alexandre IV, n. 1475), a seguito del quale si giunse a determinare che la somma dovuta ai soli creditori romani, tra i quali il M., ammontava a ben 13.000 marche, che il vescovo di Metz si impegnava a restituire in rate annue di 1000 marche; cosa che fece per tre anni. Dopo la sua morte (24 ott. 1260) i versamenti furono nuovamente interrotti per quattro anni. Si giunse a una nuova sentenza, emanata a Perugia nel marzo 1264 dal cardinale Guglielmo de Bray (scritta da Stefano, figlio del M., giudice e notaio di S. Romana Chiesa), ma anche questa non dette i frutti sperati dai creditori. Nel frattempo il M. era morto (come molti altri mercatores romani coinvolti nella vicenda) e la questione tra un intervento pontificio e l'altro si trascinò irrisolta ancora per un trentennio. Uno dei figli del M., Francesco, nel maggio 1295 riuscì a raggiungere un nuovo accordo con il vescovo di Metz, che si trovava a Roma; un nuovo provvedimento papale e altri accordi che a esso seguirono sembra portarono a una definitiva chiusura della questione iniziata circa ottant'anni prima.
Non meno problematico fu per il M. il tentativo di recuperare le somme concesse in prestito al vescovo di Verdun Rodolfo di Thourotte poco dopo il suo insediamento avvenuto nel 1224.
Di fronte all'insolvenza del presule, il M. ricorse una prima volta al pontefice Gregorio IX: il suo intervento nel dicembre 1228 ebbe come conseguenza il raggiungimento di un accordo tra le parti (aprile 1229); il vescovo si riconosceva debitore nei confronti del M. per 1720 marche che si impegnava a restituire in cinque rate annuali, che sarebbero state corrisposte nel corso della fiera champenoise di Bar-sur-Aube allo stesso M. o a suo figlio Giovanni o a un loro procuratore. Il vescovo non onorò l'impegno preso e per tale motivo fu scomunicato; per far revocare tale durissimo provvedimento si recò presso la Curia papale, offrì garanzie fideiussorie e ottenne dal pontefice la revoca della scomunica. A questo non seguì alcuna soluzione positiva; il vescovo Rodolfo si trovava in una situazione economica pesantissima e fu addirittura fatto arrestare dai suoi creditori di Metz. Per quanto riguarda il credito vantato dal M., nonostante i provvedimenti pontifici, nel 1256 la questione rimaneva ancora irrisolta. Morto il M., suo figlio Francesco, che operava anche a nome del fratello Giovenale, allora minorenne, giunse a un accordo con il vescovo di Verdun che prevedeva la restituzione in varie rate, cosa che a quanto pare non avvenne mai.
Anche il vescovo di Cahors figura tra i debitori del M. e dei suoi soci. Nel marzo 1230 il presule della città francese ottenne dal Comune di Cahors il prestito di 200 marche d'argento che gli occorrevano "ad utilitatem nostram et Caturcensis ecclesie, et specialiter ad expediendum debitum quo tenebamur Lumbardi, scilicet Iuvenali et eius societati" (Dufur).
Un prestito concesso al vescovo di Durham in Inghilterra Riccardo di Marsh aveva anch'esso creato problemi al M. e a un suo socio romano, Angelo Manialardi.
Sollecitato dai due mercatores, Gregorio IX aveva incaricato l'abate del monastero parigino di Ste Geneviève di occuparsi della questione e di far sì che il successore del vescovo, Riccardo le Poor, restituisse la somma mutuata al suo predecessore, ma egli si era rifiutato ostentando il privilegio goduto dagli Inglesi di non essere convocati in giudizio dalla Sede apostolica per cause di tipo pecuniario. Nel gennaio 1231 il papa interveniva nuovamente affermando di non riconoscere la validità di tale privilegio in quello specifico caso di palese inadempienza e imponeva al vescovo di saldare la somma dovuta, aggravata di danni e spese, calcolati con onesta moderazione.
Per la restituzione di una somma concessa in prestito al priorato benedettino di Salonnes nella diocesi di Metz, il M. dovette richiedere l'intervento dei pontefici Innocenzo IV e Alessandro IV. Il primo nel 1251 si rivolse al decano della Chiesa di Châlon e al canonico Pandolfo affinché ponessero sotto sequestro le rendite del priorato e le impiegassero per saldare il debito contratto dal priore con il Mannetti. Il secondo, non avendo avuto esito favorevole l'intervento del suo predecessore, cinque anni dopo ritornò sulla questione delegando la soluzione al vescovo di Metz e al suo cancelliere.
Alcune lettere pontificie, del 3 e 4 febbr. 1234 e del 31 genn. 1235, riportano direttamente agli interessi e alla presenza del M. e dei suoi fratelli in Francia e in particolare nei centri fieristici della Champagne.
Con la prima il pontefice invitava il vescovo di Troyes, il re di Francia e il conte di Champagne, Tibaldo, a tutelare gli interessi di Ottone e Stefano Mannetti, i quali accusavano il loro concittadino e socio Tinioso di aver dato fondo ai capitali messi in comune dopo aver stretto con loro e con il fiorentino Teobaldo una società commerciale, contraendo debiti non solo a Roma, ma anche in Francia e in Inghilterra. Pressati dalle richieste dei creditori di tale società, i due fratelli si erano visti costretti a recarsi personalmente in quei luoghi per soddisfare tali debiti. Nel frattempo Tinioso si rifiutava di rifondere i due fratelli e minacciava che, se costretto in giudizio, si sarebbe fatto crociato e avrebbe fatto pia donazione di tutti i suoi beni. Per questo il papa puntualizzava che Tinioso, date le motivazioni fraudolente che lo spingevano a entrare nelle file dei crociati, non poteva godere dei privilegi e delle immunità concessi a questi ultimi. La seconda lettera testimonia ancora meglio l'esistenza di una rappresentanza stabile del M. nella città champenoise di Troyes. Con essa Gregorio IX chiedeva al conte di Tibaldo l'estradizione del nipote del M., Iuvenetto, il quale, come rappresentante in Francia dello zio, aveva abusato della fiducia accordatagli e aveva sottratto importanti titoli contenuti in una cassetta conservata nel monastero di St-Loup di Troyes ("claves scrinii, quod posuerat in monasterio Sancti Lupi Trecensis cum instrumentis et litteris super debitorum solutione confectis"; Parigi, Bibliothèque nationale, Fonds lat., 5993/A, cc. 41v-42r).
Le informazioni sui prestiti concessi da mercatores romani ad altri che non fossero grandi dignitari ecclesiastici ed enti religiosi europei mancano quasi del tutto, proprio per il vincolo tipologico delle testimonianze superstiti cui si è fatto cenno sopra. Si è già detto del prestito concesso dai "filii Mainecti" al Comune di Perugia nel 1213; per Pietro, Stefano e il figlio di quest'ultimo, Ottone, si ha notizia, per la fine degli anni Trenta, di un loro legame, sia pure indefinibile, con gli interessi finanziari del Comune di Orvieto e, nello stesso tempo, con il potente Pietro Annibaldi, allora podestà della città umbra.
La ricchezza e il prestigio sociale del M. e dei suoi fratelli risultano evidentissimi dalle testimonianze, per quanto frammentarie, relative alle loro residenze romane.
A partire da un rogito notarile che sanciva alcuni acquisti effettuati nel 1232 dal M., con suo figlio Giovanni, e dai fratelli Ottone e Pietro, per integrare il loro già vasto patrimonio immobiliare urbano situato nei pressi dell'attuale piazza Cairoli, passando per transazioni compiute da alcuni dei loro figli negli anni 1270, 1276 e 1294, si delinea la loro proprietà di uno di quei vasti e articolati complessi edilizi che denotavano allora con grande evidenza anche simbolica le residenze urbane della nobiltà. Torri (tra le quali la turris Pertundata), palazzi, accasamenta, case più o meno ampie, spazi liberi, comuni e non, annessi vari (stalle, forno, cucine), botteghe e fondaci (la cui presenza rinvia direttamente alla forte vocazione verso i traffici commerciali dei vari membri della famiglia), il tutto, infine, almeno in parte circondato da un muro di cinta merlato, che determinava una netta cesura tra il complesso residenziale della famiglia e il resto del tessuto urbano.
Questo vasto e compatto insieme di edifici, che tanto bene doveva connotare la famiglia e la sua preminenza sociale nel panorama urbanistico romano, nell'ultimo quarto del Duecento iniziò a disgregarsi, per essere acquisito in più fasi dalla famiglia Orsini. Si tratta del segno forse più tangibile di un deciso ripiegamento del prestigio economico e sociale della famiglia Mannetti, dopo la scomparsa del M. e dei suoi fratelli.
Come tante altre famiglie di mercanti-banchieri romani che nella prima metà del secolo XIII avevano toccato l'apice delle loro fortune economiche, anche quella dei Mannetti per una pluralità di fattori non riuscì a mantenere la sua elevata posizione economico-sociale, tanto in città, quanto sulla scena dei traffici economici internazionali; anche le sofferenze finanziarie causate dalla insolvenza di svariati creditori alla lunga dovettero pesare considerevolmente sulla flessione.
Non si dispone di testimonianze sulle proprietà fondiarie del M., ma non è difficile supporre che egli non dovette prescindere dall'investire i suoi ingenti capitali nell'acquisto anche di ampi possedimenti fondiari extraurbani, secondo un atteggiamento tipico di quella che allora costituiva l'élite cittadina romana. Al 1271 risale una laconica e generica menzione di possedimenti fondiari dei "filii Mannetti" nella Campagna romana, tra la città e i colli Albani, là dove esponenti dell'élite cittadina avevano dato vita a importanti aziende agricole dalla fine del XII secolo, dopo la distruzione della città di Tuscolo (1191).
Interessante e molto più esplicito, invece, è il ricordo in un atto del 1269 del possesso da parte di Pietro di Ottone Mannetti, quasi certamente un nipote del M., di un casale, ossia di un'azienda agricola, con torri, edifici vari e terre, situata in prossimità della riva destra del Tevere, tra ponte Milvio e Tor di Quinto. Ciò che rende ancor più importante questa testimonianza è che all'interno di questa azienda agricola, già da tempo strutturata, era stato realizzato, probabilmente dallo stesso Pietro, un impianto per la follatura dei tessuti di lana; questo dato non può non essere messo in relazione con il fatto che il proprietario apparteneva a una famiglia, come quella dei Mannetti, attiva da svariati decenni sui principali mercati internazionali, dove il commercio delle stoffe era di grande rilevanza; dunque, è ipotizzabile che Pietro avesse investito parte dei suoi guadagni nella realizzazione di un'attività manifatturiera destinata alla produzione di panni.
Non si hanno notizie sulla partecipazione del M. alla vita pubblica romana; dei suoi fratelli sappiamo invece che Pietro ricoprì l'incarico di magister edificiorum Urbis nel 1227 e che Ottone nel 1242 fu tra i membri del Consiglio comunale capitolino. Il peso politico della famiglia nei primi decenni del Duecento è ben evidenziato tra l'altro dall'incarico di podestà di Narni ricoperto nel 1238 da Ottone.
Nel 1256 il M. è ricordato ancora in vita; la menzione risalente al marzo del 1264 di uno dei suoi figli come "Stephanus Iuvenalis Mannetti" sembrerebbe indicarlo come ancora vivente, ma è solo una labile ipotesi; in ogni caso, in un rogito notarile del settembre 1269 è dichiarato esplicitamente come defunto.
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