SCALVINI, Giovita
– Secondo di due figli, nacque il 16 marzo 1791 a Botticino (Brescia), da Alessandro, liberale, che aveva combattuto nell’esercito francese per l’indipendenza americana nel 1779-81, e da Faustina Da Ponte.
Ancora adolescente, scrisse le prime poesie, conoscendo a Brescia Ugo Foscolo nel 1807 e Vincenzo Monti l’anno successivo. In quel biennio fu alunno esterno del seminario, poi nel 1809-10 studente al liceo, eccellendo nello studio dei classici latini e greci (per cui ottenne l’iscrizione all’Accademia dei Pantomofroni nel 1809) e distinguendosi come autore di testi satirici. Nel 1812 fu mandato dal padre a Bologna per seguire i corsi alla facoltà di legge. Tuttavia, nutrendo avversione per il diritto, si interessò di belle arti. Dopo aver progettato di trasferirsi a Roma per studiare pittura, accettò di continuare gli studi di legge a Pavia, dove preferì seguire lezioni di scienze naturali, rivedendo Foscolo alla fine del 1810. Abbandonata l’Università, rientrò a Brescia, richiamato dal padre, e si trasferì nella casa di campagna dei genitori a Botticino, dedicandosi agli studi letterari e alla composizione di versi satirici.
Strinse amicizia con il conte mantovano, futuro studioso di economia, Giovanni Arrivabene, che conobbe durante il soggiorno che questi fece a Brescia nel 1813-14, in casa del comune amico Camillo Ugoni.
Alla morte del padre nel 1816, vedendosi in ristrettezze finanziarie, scrisse a Ugoni, che si trovava a Milano, affinché gli procurasse un impiego. Questi lo presentò a Giuseppe Acerbi, direttore della Biblioteca italiana, che lo invitò a collaborare al giornale. Trasferitosi a Milano, Scalvini rientrò solo per un breve periodo a Brescia, nell’aprile 1817, per la morte di suo fratello, che si era fatto prete. Divenuto segretario della Biblioteca italiana, vi pubblicò in tutto sette articoli letterari non firmati, fra cui uno sul manzoniano Conte di Carmagnola, di cui metteva in risalto la superfluità di certe parti e difetti nella delineazione del protagonista. Al giornale era destinato anche il saggio (non pubblicato) sull’Ortis, in cui, a dispetto dell’amicizia con Foscolo, definiva il romanzo «una [...] narrazione di pietose avventure, [...] un accozzamento d’affetti mestissimi, di patetiche meditazioni» (Scalvini, 1948, p. 62), condannando la celebrazione del suicidio in epoca moderna.
Alla lunga infastidito dall’atteggiamento accomodante del giornale nei confronti dell’Austria e dai tagli censori fatti ai suoi articoli, decise di interrompere la collaborazione. Fece quindi domanda come cancelliere presso il liceo di Brescia, di cui era divenuto direttore Ugoni, ma fu assunto, per intercessione di Acerbi, con cui manteneva comunque buoni rapporti, come aio nella casa milanese del conte Gaetano Melzi dalla fine del 1818 al 1820. Nel corso del periodo milanese entrò in contatto con Alessandro Manzoni ed ebbe la possibilità di collaborare al Conciliatore; possibilità che non si concretizzò per la prematura soppressione del giornale.
Compì un breve viaggio in Toscana, dove conobbe Gino Capponi. Di simpatie carbonare, tornando a Brescia nel 1820 seguì con ansia i recenti fatti politici, che portarono all’arresto degli amici Silvio Pellico e Arrivabene. La scoperta, durante una perquisizione nella casa mantovana di quest’ultimo, di una lettera del 17 giugno 1819 in cui Scalvini ironizzava che «sotto i torchi» fosse l’inno montiano all’imperatore austriaco (in corso di stampa in quel periodo) e non l’imperatore stesso, condusse al suo arresto in quanto sospetto cospiratore. Arrestato il 29 maggio 1821 e tratto a fine luglio nel carcere di Santa Margherita a Milano, vide aggravarsi il già cagionevole stato di salute.
Uscito senza subire condanne, il 25 febbraio 1822, rincasò a Brescia dalla madre; tuttavia, ritenendosi ancora in pericolo dopo gli arresti di alcuni patrioti fra cui Giacinto Mompiani, fuggì in esilio spontaneo il 9 aprile con Arrivabene (che era stato rilasciato il 10 dicembre 1821) e con Ugoni, che si unì a loro a Concesio, presso Brescia. A Ginevra, dove giunsero, incontrarono Pellegrino Rossi, all’epoca deputato del Consiglio del Cantone, il filosofo Charles Victor de Bonstetten e lo storico ed economista Jean-Charles Simonde de Sismondi, su interessamento del quale alloggiarono sull’Isola di San Pietro, nel lago di Bienne in Svizzera.
Separatisi da Ugoni, che si recò a Zurigo, Scalvini e Arrivabene ottennero i passaporti per la Francia e raggiunsero Parigi il 10 agosto 1822. Sentendosi però insicuri anche qui, ed essendo Arrivabene raggiunto dalla notizia d’esser stato accusato d’alto tradimento, i due si spostarono in Inghilterra, nazione più ospitale per gli emigrati politici. Sbarcati a Dover il 2 dicembre, raggiunsero Londra dove furono accolti da Filippo Ugoni, fratello di Camillo, e dove, fra i profughi, incontrarono Giovanni Berchet, l’avvocato Antonio Panizzi e l’economista Giuseppe Pecchio. Il soggiorno londinese fu l’occasione per rivedere Foscolo, che ospitò Scalvini, Arrivabene e Filippo Ugoni nel suo Green cottage.
Insofferente al clima britannico, Scalvini soggiornò sull’Isola di Wight nel 1824, sempre in compagnia di Arrivabene, per poi tornare a Londra in autunno. Qui fu coinvolto da un gruppo di profughi italiani, fra i quali Giovanni Berchet, il patriota Santorre di Santarosa, il fisico Ottaviano Fabrizio Mossotti e il giurista Ferdinando Dal Pozzo, nel progetto di un giornale politico-letterario, che però non vide la luce per la partenza di Santarosa alla volta della Grecia, ove morì combattendo per la guerra di liberazione. Fu in suo ricordo, ma ispirandosi alla propria vicenda biografica, che Scalvini compose nel 1825 il poemetto L’esule (poi intitolato Il fuoruscito nella redazione definitiva: v. ed. critica dall’autografo, a cura di R.O.J. Van Nuffel, Bologna 1961).
Nel settembre di quell’anno, essendo il governo francese divenuto più tollerante verso i profughi italiani, Scalvini riparò a Parigi con Arrivabene, dove ritrovò Camillo Ugoni, di ritorno da Zurigo. Lì strinse amicizia con i coniugi Giuseppe e Costanza Arconati Visconti, anch’essi esuli, restando in corrispondenza con Berchet, di cui curò la pubblicazione delle Fantasie nel 1829. In casa degli Arconati conobbe il filosofo Victor Cousin, di cui seguiva le lezioni alla Sorbona assieme a un altro filosofo, Giovanni Battista Passerini, incontrato nel 1828. Conobbe anche lo storico Charles Fauriel.
Essendosi procurato i Promessi sposi nell’edizione Baudry, vergò nel 1829 delle note sul romanzo, alcune tra le quali confluirono in un saggio che, inizialmente destinato alla Rivista italiana di Pellegrino Rossi (che non uscì mai), apparve per i tipi di Ruggia: Dei «Promessi sposi» di Alessandro Manzoni (Lugano 1831). Scalvini, che sottolineava il valore morale e l’ispirazione religiosa del romanzo manzoniano, firmò il suo saggio con le iniziali «A. H. J.», per via di certi accenni, virtualmente pericolosi, alle condizioni che rendevano «vile» l’Italia.
Sempre nel 1829, cominciò a tradurre in italiano la prima parte del Faust di Johann Wolfgang von Goethe. Nel 1830, vide la luce l’Antologia straniera dell’editore torinese Giuseppe Pomba, per cui Scalvini aveva tradotto alcuni testi dal francese. Stimolato dalla frequentazione di Cousin, che faceva da tramite allo studio dell’idealismo tedesco, scrisse alcuni saggi filosofici.
Dopo aver seguito le sorti della rivoluzione del 1830 e aver conosciuto Niccolò Tommaseo, anch’egli esule a Parigi, cui fu legato d’amicizia forse anche attratto dalle sue posizioni cattolico-liberali, si recò nel 1833 a Gaasbeek, in Belgio, su invito degli Arconati. Nel castello che apparteneva agli amici coniugi ritrovò Arrivabene (che era già in Belgio), Ugoni, Berchet, Fauriel, Pellegrino Rossi e Vincenzo Gioberti, che aveva già incontrato a Parigi. Di questi anni è anche l’amicizia con l’astronomo belga Adolphe Quetelet.
In Belgio, abbozzò L’ultimo carme, poema in endecasillabi, dai toni meditativi, in cui riandava all’esperienza dell’esilio e, nel 1835, pubblicò il Fausto presso i tipi milanesi dell’editore Silvestri. Introdotta da Cenni su la vita e su le opere di Volfango Goethe (articolo di un altro autore apparso nella Foreign Review e tradotto dall’inglese), la traduzione del capolavoro goethiano ottenne riscontri positivi. Ciò nonostante, Scalvini non smise di intervenire sulla sua copia personale, annotando varianti e correggendo i ‘tedeschismi’ che l’amico Ugoni gli faceva notare. Ma la progettata seconda edizione, cui Scalvini voleva premettere il suo saggio Della poesia e del Faust di Goethe, non fu mai realizzata.
Malato di tisi, trascorse alcuni giorni ai bagni di Ems e poi a Bruxelles. Tuttavia, alla notizia dell’indulto concesso dall’imperatore austriaco Ferdinando I, rientrò a Brescia nell’aprile del 1839. L’anno dopo, mentre si trovava a Seniga, ospite del conte Alessandro Cigola, dettò il suo testamento, lasciando i suoi manoscritti a Tommaseo o, in alternativa, a Camillo Ugoni. Spinto da necessità economiche, tentò invano nel 1841 di ottenere il posto di direttore della Biblioteca Queriniana di Brescia. Nello stesso anno, patendo l’aggravarsi della malattia polmonare, accettò tremila lire dagli Arconati per fare un viaggio verso i climi più miti del Meridione. Non riuscì tuttavia a muoversi per le condizioni di salute e in una lettera dell’estate del 1842, sentendo prossima la fine, si congedò dall’amico di sempre Arrivabene.
Morì a Brescia il 12 gennaio 1843.
Postuma uscì un’antologia di Scritti, a cura e con proemio di Tommaseo (Firenze 1860), che aveva accettato di occuparsi degli autografi scalviniani.
Fonti e Bibl.: Manoscritti sono conservati presso la Biblioteca Queriniana di Brescia, la Fondazione Ugo da Como di Lonato, l’Archivio Valenti Gonzaga di Venezia e la Biblioteca nazionale di Firenze (cfr. Pecoraro, 1986, p. 121). Si vedano: N. Tommaseo, Degli studi e degli scritti di G. S., in Scritti di G. S., a cura di N. Tommaseo, Firenze 1860, pp. I-XVI; G. Arrivabene, Memorie della mia vita, Firenze 1879, pp. 20 s., 58-60, 82 ss.; E. Clerici, G. S., Milano 1912; F. Castellani, Gli scritti filosofici di G. S., in Giornale critico della filosofia italiana, XV (1934), luglio-settembre, pp. 345-354; G. Scalvini, Foscolo Manzoni Goethe, a cura di M. Marcazzan, Torino 1948; M. Marcazzan, Vita e poesia di G. S., in Id., Nostro Ottocento, Brescia 1955, pp. 85-146; R.O.J. Van Nuffel, Introduzione a G. Scalvini, Il fuoruscito, cit., pp. IX-XXXVI; C. Arconati-Visconti, Lettere a G. S. durante l’esilio, Brescia 1965; G. Colombini, Storia di un uomo, Botticino 1969; F. Danelon, “Note” di G. S. su I Promessi Sposi, Firenze 1986; M. Pecoraro, G. S., in Dizionario critico della letteratura italiana, IV, Torino 1986, pp. 118-123; G. S. un bresciano d’Europa. Atti del Convegno... 1991, a cura di B. Martinelli, Brescia 1993 (in partic. B. Scaglia, G. S. ed i moti del ’21, pp. 53-64; R. Turchi, G. S.: l’ambiente milanese, la “Biblioteca italiana”, pp. 173-210; G. Cerri, G. S., fuoruscito in Europa (da Botticino a Gaesbeck, e ritorno), pp. 335-368).