Girolamo Belloni
Banchiere, uomo di Stato ed economista di fama internazionale, Belloni fu uno dei più celebri finanzieri del Settecento. Il suo trattato Del commercio fu uno dei maggiori contributi italiani nel campo dell’economia politica. Rappresentante emblematico di una corrente tradizionale dell’economia politica europea, in piena linea con le politiche attuate dalle grandi potenze dell’epoca per incoraggiare le rispettive industrie nazionali, Belloni fu uno dei primi importanti teorici settecenteschi della nobiltà del commercio. Venne inoltre coinvolto in una celebre polemica con René-Louis de Voyer de Paulmy, marchese d’Argenson, il primo dibattito pubblico sui meriti del laissez-faire nella storia del pensiero economico.
Girolamo Belloni nacque il 1° aprile 1688 a Codogno, nella bassa Lodigiana, da una famiglia di mercanti e banchieri originari di quella cittadina ma successivamente trasferitisi a Bologna e a Roma alla ricerca di nuove opportunità commerciali. La collaborazione con lo zio Giovannangelo diede al giovane e colto Girolamo la possibilità di partecipare con successo a Roma a varie avventure speculative, dagli appalti apostolici del tabacco e dell’acquavite alla Tesoreria della Marca, dalle attività bancarie (tra cui quelle per conto degli esuli giacobiti della casa inglese degli Stuart) a vari progetti immobiliari. Alla morte di Giovannangelo, i suoi beni furono divisi fra i membri della famiglia, e Girolamo ereditò la casa bancaria di Roma, con crediti aperti non solo in varie piazze europee, ma persino nelle Americhe e in India.
Con l’ascesa di Clemente XII alla cathedra Petri il 12 luglio 1730, le sorti di Belloni migliorarono ulteriormente. Grazie all’appoggio della casa Orsini Belloni, ebbe incarichi consultivi e operativi presso la Camera apostolica, mentre lo Stato pontificio gli offrì di dirigere le dogane, un incarico che Belloni accettò non solo a fini di lucro, ma anche con intenti riformistici che lo portarono a suggerire cambiamenti istituzionali per snellire l’apparato doganale dello Stato. Nel decennio successivo Belloni entrò a far parte di varie società finanziarie e preparò inoltre una serie di memorie di tema economico che fecero di lui uno dei principali economisti papali del Settecento, iniziatore di una tradizione che, nei decenni successivi, avrebbe incluso teorici importanti come Claudio Todeschi (Saggi di agricoltura, manifatture, e commercio, coll’applicazione di essi al vantaggio del dominio pontificio, 1770) e Paolo Vergani (Della importanza e dei pregi del nuovo sistema di finanza dello Stato Pontificio, 1794).
Belloni continuò la sua ascesa durante il papato di Benedetto XIV, quando acquistò il titolo di marchese e il feudo di Prassedi, nel 1746, per scambiarlo solo quattro anni dopo con il feudo di Oliveto e la signoria di Posta in Sabina, che gli diedero giurisdizione su mezzo migliaio di ‘vassalli’. Così, con fierezza, passò, per usare il linguaggio settecentesco, dalla mercatura alla nobiltà (Caracciolo 1982, pp. 101-02). Il nuovo status non era puramente onorifico, ma apriva nuove opportunità politiche ed economiche in Italia come in Inghilterra e nella penisola iberica.
Queste esperienze indussero Belloni a passare dalla pratica alla teoria dell’economia, ossia a formulare dei principi sulla base dell’esperienza accumulata praticando le diverse forme di attività economica del suo tempo, dalle dogane al commercio alla finanza internazionale, in Italia e nel resto dell’Europa. Questi principi vennero da lui esposti nel trattato Del commercio, un libro che, nel suo ultimo decennio di vita, aggiunse una fama scientifica e letteraria a quella economica e sociopolitica di cui egli già godeva. Belloni morì a Roma il 5 luglio 1760.
Composto quando Belloni era all’apice della carriera e gli Stati papali stavano perdendo la gara per la supremazia economica in Europa (Caracciolo 1982, pp. 87, 113), Del commercio venne pubblicato per la prima volta nel 1750 e dedicato al papa regnante Benedetto XIV. Diventò un fenomeno editoriale: fra il 1750 e il 1788 ebbe diciassette edizioni in sette lingue – cinque italiane (1750, 1751, 1752 e due nel 1757), una latina (1750), sei francesi (1751, 1755, 1756, 1757, 1765, 1787), due tedesche (1752, 1782), una inglese (1752), una russa (1771) e una spagnola (1788; cfr. Carpenter 1975; Reinert 2011). I contemporanei ricondussero il successo con il quale l’opera venne accolta in Italia e all’estero alla grande esperienza pratica in materia di commercio che Belloni aveva accumulato nel corso del tempo, un’esperienza che gli avrebbe dato – si scrisse – «una comprensione perfetta delle cause più recondite dei vari effetti del commercio», per citare l’anonimo traduttore della prima edizione inglese del trattato (A dissertation on commerce, 1752, p. VI).
Nel corso del suo trattato, Belloni affrontava tre questioni fondamentali: la natura e il potere del commercio, la natura della moneta e il cambio, la proporzione fra l’oro e l’argento. Da poche massime egli derivava infinite ricette di crescita industriale, una peculiarità di impostazione, questa, che non sfuggì al traduttore inglese, il quale dichiarò che Belloni aveva «gettato tanta luce sulla conoscenza del denaro e del commercio, quanto gli esperimenti avevano gettato sulla scienza della filosofia naturale» (A dissertation, cit., pp. IX-X).
Come molti economisti politici italiani della sua stessa epoca (Reinert 2010), anche Belloni era consapevole del fatto che gli Stati assurgevano a posizioni di predominio economico con la stessa facilità con la quale soccombevano alla competizione commerciale globale, e aveva studiato a lungo le forme e i modi di questo processo. Non a caso il suo lavoro venne presentato come motivato dal desiderio di portare alla luce le vere cause di tutti i vantaggi e tutte le perdite ai quali molti regni erano andati incontro per questioni monetarie e di commercio (A dissertation, cit., 1752, p. X).
Per quanto fosse un banchiere, interessato alle azioni di attori economici individuali più che ai grandi processi istituzionali, Belloni pose al centro del suo trattato l’«importante scienza della grande Economia degli Stati» (p. XLI), e ricondusse questa scelta al fatto che allora la «scienza del Commercio» (p. IV) non era più «soltanto praticha», ma «realmente scientifica» (p. V). Scopo della «scienza di commercio», scriveva Belloni attingendo a un’antica fraseologia dell’economia politica italiana, era la «pubblica felicità» (p. XI) e il «bene economico delli Stati» (p. XXIV), e persino la loro «grandezza» (p. 4), intesa, quest’ultima, nel senso postmachiavelliano di espansione geopolitica non realizzata attraverso strumenti militari (Reinert 2011, p. 204).
Belloni si riferiva proprio all’intersezione di teoria e pratica, nel tentativo di evitare un semplice appiattimento dell’economia a esperienze particolari, ma anche una «generale e sterile riflessione» sui processi economici (p. 47).
Era importante per Belloni sottolineare che la «grandezza» economica non implicava corruzione o assenza di virtù. Attigendo dalla vita di Solone nelle Vite parallele di Plutarco, Belloni sottolineava quanto il commercio avesse una nobiltà intrinseca (e in tal senso era un anticipatore delle opere di Jean-Claude-Marie-Vincent de Gournay, di Georges-Marie Butel-Dumont e dell’abate Gabriel François Coyer); inoltre insisteva sul fatto che la vita di affari dovesse essere giustificata non solo in termini utilitaristici ma anche morali, cosa che avrebbe ribadito con forza alla fine del trattato. La dicotomia tra il profilo utilitario e quello morale dell’economia, secondo Belloni, si manifestava nel doppio significato di «industria», intesa da un lato come operosità personale e dall’altro come attività economica, «radice del commercio e perciò della felicita, ed avanzamento degli Stati» (p. 45).
L’intero pensiero di Belloni era costruito sulla base di dicotomie: accanto a quella tra i propositi utilitaristici e morali dell’industria, e tra industria e indolenza, vi erano quelle tra esportazione e importazione, «commercio attivo» e «commercio passivo» (p. 5), che derivavano entrambe da un’antica teoria economica dell’equilibrio del commercio. Secondo questa teoria, codificata da economisti come Bernando de Ulloa, ma in uso tra i mercanti almeno a partire dal Cinquecento (e da non confondere con il semplice ‘bullionismo’), il commercio internazionale ‘attivo’ consisteva nell’esportazione di merci nazionali, mentre il commercio internazionale ‘passivo’ consisteva nell’importazione di merci straniere. La quantità di oro e argento in un regno – sosteneva Belloni, apparentemente riprendendo il Breve trattato di Antonio Serra del 1613, o ancora più probabilmente il Testamento politico di Leone Pascoli del 1733 (N. La Marca, Tentativi di riforme economiche nel Settecento romano, 1969, pp. 57-65; Caracciolo 1982, p. 82) – dipendeva soprattutto dalla natura del suo commercio. L’esperienza in campo finanziario suggeriva a Belloni che la giusta «proporzione tra i metalli» era «quindici once d’argento per un’oncia d’oro» (Del commercio, cit., pp. 32-33); una volta fissata questa proporzione in modo appropriato, la ricchezza delle nazioni avrebbe finito per dipendere dalle politiche di competitività industriale e commercio internazionale promosse dai rispettivi governi. La moneta, in effetti, era soltanto una «misura comune» di merci (pp. 5-7), la quale «non per altra cagione forma ricchezze, che per esser misura delle cose, che scambievolmente si comunicano» (p. 44). La scarsità di moneta in uno Stato era in sé semplicemente sintomo di uno «sbilancio» commerciale, per curare il quale era necessario agire nel campo della produzione anziché in quello della finanza (pp. 28-29).
Belloni esplorava vari scenari del commercio internazionale (p. 19), in modo analogo a Jean-François Melon che, nel suo Essai politique sur le commerce (1734), aveva inventato Paesi immaginari, ciascuno specializzato nella produzione di un certo bene, e aveva sondato le varie forme possibili di interazione di lungo periodo.
Per quanto privo di esempi concreti e mancante di profondità analitica rispetto ai lavori quasi contemporanei di un Richard Cantillon oppure di un Ferdinando Galiani, il Del commercio è decisamente leggibile e, proprio grazie alla sua accessibilità (che fu anche causa del suo successo internazionale), contribuì a diffondere il nucleo delle teorie e delle pratiche economiche del tempo in gran parte del mondo intellettuale e mercantile europeo, come pure nelle sue élites amministrative. Belloni confidava, infatti, nella capacità di intervento della classe amministratrice, nella sua possibilità di incoraggiare lo sviluppo di certe industrie, stabilire tasse e tariffe appropriate, e quindi sorvegliare la vita economica di uno Stato, come avrebbe fatto un generale con il proprio esercito:
vediamo sì nella politica che nella militare sfera [si deve] dare a chiascheduna cosa un proporzionato regolamento, lo stesso appunto far si dovrebbe in una Repubblica ben condotta per la direzione del Commercio e delle manifatture (p. 63).
Jean-Baptiste Colbert e i regnanti inglesi erano per lui modelli riusciti di approccio militare al commercio (p. 30), anche se egli aveva assai presente il rischio dell’estensione eccessiva dell’apparato governativo che avrebbe potuto risultare da politiche neocolbertiste. Per questo, attingendo alle proprie esperienze nell’amministrazione economica dello Stato pontificio, sosteneva la necessità di riformare il sistema fiscale (pp. 58-59), incoraggiare la trasparenza governativa riducendo il numero di eccezioni e privilegi, e semplificare il sistema economico in generale (p. 61).
Al centro della riflessione di Belloni vi era il problema di stabilire «qual metodo dovesse tenersi a promuovere la detta industria, ed eccitare le arti, ed amplificare il Commercio» (p. 48). Secondo lui, l’industria nazionale avrebbe dovuto essere incoraggiata liberando l’esportazione delle manifatture e l’importazione di materie prime da ogni tassa (p. 52): «Niuna cosa», scriveva, «può darsi più perniciosa per un Regno, che il non avere tutta l’attenzione sopra l’introduzione delle manifatture forestiere si per uso della regia Corte, che de’ sudditi» (p. 54).
Il successo di questa politica industriale, tuttavia, dipendeva a sua volta dall’attuazione di una politica culturale volta ad assicurare che il commercio «si nobiltasse maggiormente» (p. 64). Facendo nuovamente ricorso a un’analogia militare, comparando il mondo del commercio a quello delle forze armate, Belloni sperava nell’affermazione di un ordine sociale meritocratico nel quale le attività economiche potessero essere apprezzate per la loro capacità di contribuire alla felicità pubblica. In opposizione alla tesi dell’incompatibilità tra spirito nobiliare e spirito commerciale, Belloni formulò uno dei primi e più succinti argomenti a favore di quella che sarebbe presto diventata nota in tutta Europa come «nobiltà commerciale» (pp. 64-68). Il nome di Belloni avrebbe finito per essere associato così strettamente all’idea della nobiltà delle società commerciali che, in seguito alla comparsa del suo trattato, illustri italiani in esilio (come il critico letterario Giuseppe Baretti) sarebbero tornati nel tardo Settecento in Italia, per difendere il loro Paese in declino dalle accuse di arretratezza culturale ed economica (G. Baretti, An account of the manners and customs of Italy, 1° vol., 1768, p. 307).
Belloni divenne ancora più noto per il suo ruolo nel dibattito pubblico sugli effetti e le virtù del laissez-faire. La prima edizione francese di Del commercio, apparsa nel 1751, si guadagnò nel «Journal économique» prima una recensione favorevole, e subito dopo una stroncatura spietata da parte di René-Louis de Voyer de Paulmy, marchese d’Argenson, ministro degli Esteri dal 1744 al 1747 e membro dell’esclusivo Club de l’Entresol, che vedeva nel libro di Belloni l’epitome del male economico che stava divorando l’Europa intera.
L’economia, secondo d’Argenson, era troppo complicata per essere compresa a fondo e usata per mettere in pratica riforme positive. A parte alcuni sforzi di base per assicurare «buoni giudici», scoraggiare monopoli e garantire «protezione eguale a tutti i sudditi», ogni legislatore illuminato si sarebbe dovuto limitare a usare il laissez-faire come principio guida. I danni indotti da politiche come quella caldeggiata da Belloni, persino in tempi di «pace piena», erano paragonabili a quelli prodotti da una «guerra universale»: il commercio era diventato conquista con altri mezzi (Lettre au sujet de la dissertation sur le commerce du marquis de Belloni, «Journal économique», avril 1751, pp. 107-17).
La tanto decantata «scienza di commercio» era agli occhi di d’Argenson un’atrocità storica, che aveva fatto deviare l’Europa dal suo corso naturale di sviluppo, inducendola a distogliere fondi ed energie dall’agricoltura per concentrarli nei lussi superflui. Quest’idea lasciò un segno profondo su Adam Smith che venticinque anni dopo ne avrebbe fatto la chiave di volta della trattazione dell’«ordine innaturale e retrogrado» europeo nella sua An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776).
Le critiche di d’Argenson non piacquero invece all’editore del «Journal économique», Antoine Le Camus, il quale intervenne sullo stesso giornale per difendere Belloni. Ma il suo intervento non bastò certo a far tacere i critici di Belloni, né tanto meno a chiudere il dibattito, i cui echi sono ancora udibili nella discussione socialista sul problema del calcolo economico e nella rielaborazione contemporanea del dogma economico stimolata dalla crisi globale recente. La lunga durata del dibattito innescato dal trattato di Belloni giustifica da sola il protrarsi dell’interesse per le sue idee, tra le più stimolanti dell’economia politica settecentesca.
Anche se Belloni fu spesso criticato, nessuno dubitò mai della sua fama. Fu definito «celebratissimo Banchiere Romano» dal domenicano conservatore Daniele Concina (Esposizione del dogma che la chiesa romana propone a credersi intorno l’usura, colla confutazione del libro intitolato Dell’impiego del danaro, 1746, p. 44) e «il capo» dei mercanti dello Stato pontificio dall’ambasciatore veneziano Marco Foscarini (Caracciolo 1982, p. 92). Senza contare il fatto che le sue teorie furono discusse da Anders Nordencrantz in Svezia, alla periferia estrema della società civile europea (Bekymmerlösa stunders menlösa och owälduga tankar, [Pensieri innocenti e imparziali di momenti senza preoccupazioni] 6 voll., 1767-1770), e da Sir James Steuart in Scozia (An inquiry into the principles of political oeconomy, 1° vol., 1767, pp. 430, 435-36).
La storiografia dell’economia politica, tuttavia, non registrò il successo settecentesco di Belloni. Sulle pagine della famosa nona edizione dell’Encyclopedia Britannica, la cosiddetta edizione per studiosi, nella voce Political economy l’economista irlandese John Kells Ingram asseriva che la dissertazione di Belloni «sembra aver avuto un successo e una reputazione assai superiori ai suoi meriti» e che in essa «le tendenze mercantilistiche erano decisamente preponderanti» (19° vol., 1885, p. 362), mentre Luigi Einaudi lo considerò semplicemente «un povero diavolo» (Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, 1953, p. XI).
Ciononostante, o forse proprio a causa di tutto ciò, ha senso oggi considerare Belloni uno degli economisti più rappresentativi dell’Illuminismo, nelle cui teorie è possibile trovare (come in poche altre) un riflesso delle politiche economiche del tempo e delle pratiche responsabili dell’eccezionalismo europeo.
De commercio dissertatio, Romae 1750.
Del commercio, Livorno 1751, Venezia 1757.
Scritture inedite e dissertazione “Del commercio”, a cura di A. Caracciolo, Roma 1965.
Vari manoscritti di Belloni sono stati ripubblicati in:
L. del Pane, Lo Stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano 1959, pp. 651-60.
A. Caracciolo, Alcune fonti archivistiche inglesi per la storia del Banco Belloni nel Settecento, in Scritti in memoria di Leopoldo Cassese, 1° vol., Napoli 1971, pp. 253-70.
La letteratura italiana. Storia e testi, sotto la direzione di R. Mattioli, 44° vol., Dal Muratori al Cesarotti, t. 5, Politici ed economisti del primo Settecento, a cura di R. Ajello, M. Berengo, A. Caracciolo et al., Milano-Napoli 1978, pp. 653-94.
F. Marconcini, Momento mercantilista settecentesco: la “Dissertazione sopra il commercio” di Girolamo Belloni, banchiere romano, «Rivista internazionale di scienze sociali», s. III, 1931, 2, pp. 104-80, 393-416.
L. Einaudi, Una disputa a torto dimenticata fra autarcisti e liberisti, «Rivista di storia economica», 1938, 2, pp. 132-63.
L. del Pane, Lo stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano 1959, pp. 159-62, 258-62.
C. Belloni, Un banchiere romano del Settecento: Girolamo Belloni, «L’Urbe», 1963, 3, pp. 3-12.
F. Venturi, Elementi e tentativi di riforme nello Stato Pontificio del Settecento, «Rivista storica italiana», 1963, 3, pp. 778-817.
A. Caracciolo, Belloni Girolamo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 7° vol., Roma 1965, ad vocem.
K.E. Carpenter, The economic bestsellers before 1850, Catalogue of an exhibition prepared for the History of economics society, Boston 1975, p. 14.
A. Caracciolo, L’albero dei Belloni: una dinastia di mercanti del Settecento, Bologna 1982.
S.A. Reinert, Lessons on the rise and fall of great powers: conquest, commerce, and decline in enlightenment Italy, «American historical review», 2010, 5, pp. 1395-1425.
S.A. Reinert, Translating empire: emulation and the origins of political economy, Cambridge (Mass.) 2011, p. 22 e passim.