BIRAGO, Girolamo
Nacque a Milano il 1º nov. 1691 da Giambattista e da Paola Sirtori. Ricevuta la prima educazione in famiglia, frequentò le scuole dei gesuiti di Brera, quindi fu posto a studiare diritto e a far pratica presso il famoso avvocato Gaetano Lampugnani, esperto di quella materia fidecommissaria che doveva poi essere bersaglio suo e del giovane Parini. Nel 1712 conseguì la laurea in legge nell'ateneo pavese e il 14 sett. 1713 entrò a far parte del Collegio dei giudici di Milano. Poiché era usanza che tra gli iscritti a quel Collegio venissero scelti i professori di logica e di morale nelle pubbliche scuole dette "canobiane", egli tenne per sei anni il primo e per altri sei anni il secondo dei suddetti corsi. Intanto la sua partecipazione alla vita pubblica non andava oltre l'ufficio di vicario del podestà e, per tre volte, di giudice pretorio, magistratura che tenne con onore (come testimonia Gabriele Verri, nella prefazione alle Constitutiones dominii Mediolanensis, Milano 1747, p. XXII), e della quale ancora era investito nel 1760.
Abitava a Milano nella parrocchia di S. Andrea, e si era sposato, non si sa quando, con la nobildonna Anna Maria Federici di Treviglio, dalla quale ebbe tre figli, uno dei quali fu pure dottore collegiato e professore di materie legali nelle scuole braidensi, mentre gli altri due si segnalarono nella milizia, alla quale si volsero anche per la scarsità del patrimonio ereditato. Alternando la sua esistenza fra la città e la poca campagna di Cologno Monzese, così affettuosamente presente nei suoi versi specie durante le saltuarie assenze, pago di un'aurea mediocrità, il B. trascorse serenamente la sua vita. Morì il 13 dic. 1773.
Il B. non rimase ignoto ai concittadini di maggior spicco nel campo delle lettere, né a sua volta mostra di averne ignorata l'attiva presenza. A parte le poesie da lui dirette al Balestrieri, al Pozzobonelli, al Giulini, c'è la testimonianza del Mazzuchelli, che avverte di dovere al Tanzi le notizie dell'articolo che gli riserva negli Scrittori d'Italia, e quella dei Parini, che nella prima Brandana, che è del 1760 (Prose, a cura di E. Bellorini, I, Bari 1913, pp. 72-73), lo ricorda lodando l'arguta moralità dei suoi poemetti. Bisogna osservare piuttosto che l'animo schivo e l'abitudine al raccoglimento hanno conferito alla sua poesia in dialetto una sostanza più nativa e personale, del tutto aliena da quegli atteggiamenti scontati e da quelle infiltrazioni frivole che le circostanze conviviali e accademiche quasi inevitabilmente finiscono per comportare.
Chi legge infatti le sue cose più note, che sono la commedia in tre atti e un prologo Donna Perla (Milano 1724, più volte ristampata in sillogi dialettali con le altre sue poesie che circolavano manoscritte), il poemetto in ottave Meneghin a la Senavra e l'altro in quartine Testament de Meneghin, è portato a due ordini di considerazioni, che alla fine si integrano in un giudizio: c'è da una parte, agevolmente definibile, l'adozione di personaggi e di situazioni tipiche del Maggi (più volte esplicitamente ricordato), dall'altra l'esigenza spontanea di una parlata più dimessa, pronunciata coi toni più quotidiani, eppure con un'intima persuasione che proprio la non insistenza riesce a rendere più efficace.
In Donna Perla l'intreccio è folto d'intrighi e sotterfugi ben congegnati. Ma, pur governata da una gentilezza che s'oppone per istinto all'aperta risata, la trama non è certo l'elemento di maggior rilievo in questa commedia tra il borghese e il popolaresco, che si offrirebbe bene a essere trasferita in teatro. L'attenzione va invece rivolta soprattutto all'esatta individuazione linguistica dei vari personaggi (ed è qui che la lezione del Maggi - chiamato direttamente in causa nel prologo - è stata messa a frutto), che varia dal dialetto integrale e franco degli umili a quello misto di eloquio colto, secondo l'uso della buona borghesia, alla lingua rude e spiccia, per finire al madrigaleggiare di intonazione arcadica, talora sconfinante ironicamente nel concettismo barocco, dei due pretendenti. Oltre a ciò, talune scene che s'aprono sugli interni poveri della vecchia Milano, quel frequente e arguto sentenziare, poco aggressivo perché filtrato da una saggezza che nei più indifesi s'è fatta rassegnazione, e dovunque un che di domestico e di abitudinario per cui la favola acquista una piacevole gravitazione reale, sono tutte manifestazioni di un'arte conscia dei propri limiti e indubbiamente meditata.
Nel poemetto in ottave Meneghin a la Senavra, diviso in tre canti, le qualità singolari del B., il suo tono smorzato e la limpidità della sua anima, raggiungono in certi momenti la piena felicità della lirica. È il racconto, proiettato nel passato ma sentito come durevole esperienza, di un corso di esercizi spirituali fatto in tempo di carnevale presso quel convento di gesuiti a Porta Tosa. Il tumulto della città si spegne nel raccoglimento del chiostro, e la letizia è perfetta nella nuda stanza dove giunge solo il mormorio d'un ruscello: "Gh'è pareggiaa / el sò bel camarin, dove se sent / a mormorà l'acqua che passa in straa, / e la dis, mormorand e nott e dì, / passen tucc a sto mond come foo mì" (canto I, 5).
Quello su cui batte più insistente l'accento, il senso dell'universale e personale labilità, fa ben capire inoltre come, dietro le apparenze quiete e soddisfatte, la poesia del B. getti talora lo scandaglio più in profondo che altri rimatori milanesi di lui più brillanti ma meno intimamente religiosi. È questo il caso del monologo in quartine Meneghin pien de pocondria ch'el parla lu de per lu, componimento trascurato dagli antologisti ma che contiene alcuni tratti di struggente elegia, come quello in cui l'autore contempla le piante morte della sua campagna e si duole che quel triste spettacolo, richiamandolo alla sorte comune, gli abbia tolto forse per sempre il gusto stesso dello scrivere. È questo, dunque, da considerarsi il nucleo più genuino della sua ispirazione, per cui il B. con innata semplicità e bonomia (di cui ultimo esempio e "bellissimo" - secondo il Parini - è il Testament de Meneghin) può sollevarsi al di sopra della consueta rimeria d'intrattenimento per acquistare una voce ben sua e in grado di parlare a tutti.
Bibl.: G. M. Mazzuchelli,Gli Scrittori d'Italia, II, 2, Brescia 1760, pp. 1258-59; [F. Cherubini],Collez. delle migliori opere scritte in dialetto milanese, IV, Milano 1816 (la più completa raccolta dei versi del B., con presentazione); V. Ottolini,Principali poeti vernacoli milanesi, Milano 1881, pp. 46-50; F. Fontana,Antologia meneghina, I, Milano 1915, pp. 142-144; G. B.,Donna Perla e poesie dialettali, a cura di A. Ottolini, Milano 1925; L. Medici,Letteratura milanese dagli albori ai nostri giorni, Milano 1947, pp. 174-77; G. Natali,Il Settecento, Milano 1955, 1, pp. 612-13, 642; F. Giannessi,La poesia dialettale, in Storia di Milano, XII, Milano 1959, pp. 643 ss., e specialmente pp. 649-50.