CALAGRANO, Girolamo
Nacque a Ceva in data imprecisata verso la metà del sec. XV. Abbracciò lo stato ecclesiastico e riuscì a entrare al servizio del cardinale genovese Giovanni Battista Cybo. Ne divenne uno dei più fidati collaboratori e fece la sua fortuna: conclavista del Cybo nel conclave aperto nell'agosto 1484 dopo la morte di Sisto IV, l'elevazione del suo patrono al pontificato il 29 agosto segnò il suo ingresso ufficiale nella Curia romana. Il 12 settembre, pochi giorni dopo la sua elezione, il nuovo papa, Innocenzo VIII, lo nominò suo cubiculario segreto, cosicché in tale veste poté partecipare alla solenne cerimonia dell'incoronazione. L'anno successivo, il 18 apr. 1485, fu nominato "subdiaconus partecipans" e alcuni mesi dopo, il 20 ottobre, scrittore apostolico. Mantenne questa carica fino al 1490, quando vi rinunziò in coincidenza con la nomina a vescovo di Mondovì avvenuta il 5 novembre. Poco prima della morte del papa fu nominato, il 25 genn. 1492, abbreviatore del parco minore.
Alla corte di Innocenzo VIII il C. assunse subito e conservò poi sempre per tutto il corso del pontificato un posto di grande influenza e di notorio prestigio. Sempre presente alle cerimonie di corte, nella sua qualità di alto dignitario pontificio soleva presenziare anche agli atti più solenni del governo di Innocenzo VIII: così nel 1486 quando sottoscrisse come testimone i capitoli della pace conclusa dalla Sede apostolica con Ferrante d'Aragona re di Napoli. Il 23 marzo dello stesso anno lesse in pubblico la bolla delle scomuniche, mentre nel corso della cerimonia del Natale precedente recitò l'epistola latina che l'occasione richiedeva. La sua partecipazione alla vita della corte romana non restò però confinata a questo piano di semplice ed esterna ufficialità. La quotidiana consuetudine con il papa che riponeva in lui la massima fiducia gli assegnò compiti di segreteria assai vasti proprio perché non ben definiti.
In effetti è noto dalla corrispondenza diplomatica del nunzio a Milano Giacomo Gherardi, vescovo di Volterra, che a lui erano spesso indirizzati i dispacci dei nunzi come le richieste di tutti coloro che desideravano usufruire della grazia del papa o comunque trattare questioni di interesse politico e diplomatico. In un dispaccio a Innocenzo VIII del 12 genn. 1488 il Gherardi si preoccupò di sottolineare non senza piaggeria come "ille cubicularius est magnus apud Pontificem" e in una lettera all'arcivescovo di Milano Guido Antonio Arcimboldi del 9 genn. 1490. raccomandandogli a nome del C. le monache di Arona, volle precisare che egli "non solet esse immemor benefitiorum quae ipsius contemplatione conferuntur". Questa del Gherardi non era millanteria, come sapeva Giovanni Borromeo conte di Arona che, avendo accondisceso, dopo non poche resistenze, alla concessione dell'abbazia di Arona al C., non ebbe poi a pentirsi. Per sua intercessione infatti Innocenzo VIII favorì il figlio del conte, Ludovico Borromeo, in una lite con il notaio Sigismondo Simonetta per il possesso del convento di S. Bartolomeo in Pavia. La delicata operazione diplomatica per l'acquisizione al C. di questa opulenta abbazia fu condotta con tutto il necessario zelo dal Gherardi, che dell'amicizia dell'influente cubiculario di Innocenzo VIII ebbe occasione di fare tesoro più di una volta. Le resistenze, oltre che dal conte Borromeo che aveva il patronato dell'abbazia, erano venute anche da Ludovico il Moro che, pur mostrando la massima considerazione per il C., si lasciò pregare per qualche tempo e solo dopo varie dilazioni si decise a dare il suo assenso. L'11 febbr. 1488 il Gherardi poté comunicare così, trionfante, allo stesso pontefice che tanto vivamente aveva caldeggiato l'impresa, di avere preso possesso personalmente a nome del C. della tanto agognata abbazia.
Essa non doveva essere la sola conferita dal generoso pontefice al suo fido cubiculario. Uno spoglio accurato dei registri vaticani per gli anni del suo pontificato rivelerebbe sicuramente che sulle spalle fortunate ma non innocenti del C. cadde la solita pioggia benedetta di pingui benefici ecclesiastici. Un rapido sondaggio eseguito dal Picotti per un nipote del C., Guglielmo Calagrano, che dallo zio era stato destinato paternamente a perpetuare le fortune prelatizie della famiglia, accertò la nomina ad arcidiacono d'Asti (8 marzo 1488), canonico e prevosto di S. Giovanni di Utrecht (18 ott. 1488), canonico di Alba e protonotario apostolico (2 giugno 1492). Dalla doviziosa sistemazione del giovane nipote si può desumere senza sforzo eccessivo di fantasia che la dotazione beneficiaria del più anziano zio non doveva limitarsi certo alla sola abbazia di Arona, per quanto ricca ed ambita possa essere stata. Che egli godesse di una condizione patrimoniale assai agiata è attestato del resto anche dall'acquisto effettuato nel 1492 di due case di proprietà del capitolo vaticano per 400 ducati la prima e per 300 la seconda, fornita di pozzo e di torre.
Di questa condizione privilegiata e tanto più invidiabile per un prelato di provincia dagli oscuri natali, il C. non seppe accontentarsi. Nella imminenza della morte di Innocenzo VIII, preannunciata dalla grave malattia contratta nell'estate del 1492, egli, che insieme con il nipote lo assistette sul letto di morte, pensò bene di mettere le mani sui denari e i preziosi, celando anche, a quel che pare, per qualche giorno la morte del papa avvenuta la notte del 25-26 luglio. La malversazione non sfuggì però all'affannosa avidità del successore di Innocenzo VIII, che era stremato dallo sforzo finanziario impostogli dalla sua elevazione al pontificato. Subito dopo la sua elezione avvenuta l'11 di agosto, Alessandro VI lo fece arrestare assieme al nipote, come riferì il 22 agosto l'agente estense a Roma Manfredo de Manfredi alla duchessa di Ferrara Eleonora d'Aragona: "è stato preso ad instantia del papa uno messer Ieronimo Calegrano che era camarero primo del pontefice passato, et uno altro pur camarero. Dicese per essergli imputato che hanno tolto et trafagato gioglie et denari de somma de 100 mila ducati de quelli che havea paa Innocentio" (Cappelli, p. 323). Stando alle notizie raccolte dal Promis, il C. riuscì a disimpegnarsi brillantemente assicurando alle esauste finanze borgiane la cospicua somma di 20.000 ducati. Secondo la stessa fonte, dopo essersi accomodato con il papa si allontanò da Roma, trafugando la refurtiva nell'abbazia di S. Dalmazzo, presso Cuneo, dipendente dalla sua diocesi. Da Roma avrebbe portato anche una carovana di schiavi di entrambi i sessi: una delle schiave, battezzata da Alessandro VI che le diede il proprio nome, divenne la sua concubina e gli dette una figlia, Maria. Alla legittimazione della figlia il C. provvide con autentica paterna sollecitudine, accasando la madre con tal Giacomo Maranese.
Della sua attività pastorale nella diocesi di Mondovì resta una discreta documentazione che prospetta un profilo assai convincente di abile amministratore, niente affatto alieno dalla cura delle anime dei suoi fedeli. Nel 1491, subito dopo la nomina al vescovato, convocò infatti un sinodo diocesano al quale probabilmente non presenziò, dato che per allora governava la diocesi il suo vicario generale Matteo de Balmal. Gli atti del sinodo, che richiamavano come di solito il clero della diocesi all'osservanza più rigorosa delle prescrizioni canoniche, furono dati alle stampe per iniziativa del C. nel 1495per le cure del tipografo Ludovico Vivalda. Al sinodo seguì, dopo il suo insediamento nella diocesi, la visita pastorale per verificare, secondo un modulo che avrà la suprema consacrazione nei deliberati del concilio di Trento, l'esecuzione dei decreti sinodali. Nel corso dei suoi pochi anni di governo, il C. dimostrò grande solerzia nella difesa dei diritti vescovili, sia sul terreno dell'organizzazione ecclesiastica che su quello patrimoniale. Li rivendicò infatti contro privati cittadini in una questione relativa all'uso di certe acque e all'affitto di taluni edifici e nella controversia con i Cuneensi che pretendevano autonomia di governo ecclesiastico con un vicario generale distaccato appositamente a Cuneo. I rapporti con Alessandro VI, dopo la soddisfacente transazione del 1492, restarono buoni: il 27 febbr. 1493 gli concesse una bolla di conferma della permuta di certi beni della mensa vescovile e il 4 marzo dello stesso anno un'altra bolla in suo favore. Particolare impegno pose infine il C. nell'opera di pacificazione dei suoi fedeli, soliti azzuffarsi nel gioco crudele delle fazioni locali. Curò anche il restauro della cattedrale di Mondovì e la costruzione di una cappella nella quale trovò l'ultimo meritato riposo. Fece coniare una medaglia con la sua effigie che attirò nel secolo scorso l'attenzione del Promis.
Morì a Mondovì nel pieno esercizio delle sue funzioni pastorali il 31 ag. 1497.
Fonti e Bibl.: Codice aragonese, a cura di F. Trinchera, II, 1, Napoli 1868, p. 48; Iohannis Burchardi Liber notarum, in Rerum Italic. Scriptores, 2 ediz., XXXII, 1, a cura di E. Celani, ad Indicem; Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi nunzio pontificio a Firenze e Milano (11 sett 1487-10 ott. 1490), a cura di E. Carusi, Roma 1909, ad Indicem;G.Grassi, Mem. istor. della chiesa vescovile di Monteregale in Piemonte…, Torino 1789, I, pp. 41-44; II, pp. 306 ss.; A. Cappelli, Fra Girolamo Savonarola e notizie intorno il suo tempo, in Atti e mem. delle RR. Deputaz. di storia patria per le prov. modenesi e parmensi, IV(1868), p. 323; D. Promis, Monete e medaglie italiane, in Misc. di storia ital., XIII(1871), pp. 713-715; W. von Hofmann, Forschungen zur Geschichte der kurialen Behörden vom Schisma bis zur Reformation, II, Rom1914, pp. 182, 192; C. Eubel, Hierarchia catholica…, II, Monasterii 1914, p. 196; G.B. Picotti, in Arch. della soc. romana di storia patria, XXXVIII(1915), p. 382 (recens. al Liber notarum del Burckardt); A. Michelotti, Storia di Mondovì, Mondovì 1920, pp. 164 ss.