CAPODIVACCA (Capivaccio, Capivacceus), Girolamo
Nacque a Padova nei primi decenni del XVI sec. da antica e nobile famiglia.
Il C., compiuti gli studi di medicina allo Studio di Padova, intraprese la carriera dell'insegnamento, ottenendo nel 1553 la cattedra di medicina pratica straordinaria in terzo loco; passò nel 1561 a quella di medicina teorica straordinaria in secondo loco, che nel 1564 lasciò per diventare collega di Antonio Fracanziano alla cattedra di medicina pratica ordinaria, ricoperta poi per 35 anni. Morto il Fracanziano, il C. fu collega di Gerolamo Mercuriali (prima in secondo loco, poi pareggiato al primo loco) assieme al quale nel 1576 si recò a Venezia, dove infuriava una gravissima epidemia giunta da Trento che doveva sterminare cinquantamila persone.
La conclusione cui giunsero i due medici padovani, esaminando gli effetti del male, fu che non si trattava di una pestilenza, né aveva alcun carattere di contagiosità; tale parere non garbò ai Veneziani, che avevano accolto trionfalmente i due famosi medici, e che li espulsero dalla città in modo non molto onorevole.
Questo incidente non scosse la reputazione di cui il C. godeva da lungo tempo a Padova, sia in medicina generale, sia nella cura delle febbri o della lue; tale reputazione era dovuta anche al fatto che il C. si era sempre tenuto al di fuori delle dispute e polemiche, tradizionalmente aspre dell'Ateneo patavino.
Una lettera ducale dell'11 ott. 1575 lo definisce "soldato emerito nella milizia letteraria", e in effetti il C. all'esercizio della medicina aveva sempre accoppiato la passione letteraria: esperto intenditore della letteratura d'Italia e delle altre nazioni, conosceva diverse lingue, ma non pubblicò mai nulla che non avesse carattere strettamente medico.Dal 1577 prese a tenere lezioni pomeridiane sul suo metodo di cura delle malattie, in seguito a un decreto dei riformatori dello Studio con cui si stabiliva che uno solo dei professori di pratica, il più anziano, continuasse a insegnare al mattino. Quando nel 1587 al Mercuriali successe Alessandro Massaria il C. rimase profondamente indignato e deluso, tanto che avrebbe voluto ritirarsi dall'insegnamento; ma non lo fece, per le insistenze degli allievi della nazione tedesca presso i riformatori. Proprio in quell'anno fu invitato da Francesco de' Medici, granduca di Toscana, a trasferirsi a Pisa per insegnare medicina pratica in quella università con un compenso assai vantaggioso: 1500 scudi all'anno, 500 di trasferta e 2000 a mo' di premio. Ma egli, pago della ricchezza accumulata, particolarmente con la cura delle affezioni veneree (pare 18.000 scudi, somma ragguardevole per quel tempo), preferì restare a Padova, e trascorrere qui gli ultimi operosi anni della sua vita, anche se il suo stipendio era alquanto inferiore: 830 fiorini, come dichiara un avviso di pagamento del 1587.
Riguardo la sifilide, nella cura della quale era diventato un richiesto specialista, si era diffusa la voce ch'egli possedesse un segreto che gli permetteva di risolvere anche i casi più complicati; in realtà non ne aveva alcuno: si racconta infatti che rispondesse a un discepolo che chiedeva spiegazioni su quel suo presunto segreto: "Lege methodum meam, et habebis mea secreta".
Spirito positivo e quadrato, il C. non volle tener conto della predizione di un astrologo che gli aveva preannunciato morte immediata se in vecchiaia avesse intrapreso qualche viaggio. Quando il duca di Mantova, ammalato, lo mandò a chiamare, egli si recò a visitarlo, ma il caso diede ragione all'astrologo: fu infatti colto, in procinto di ritornare, da una febbre così violenta che, aggiunta ai malanni che già prima lo tormentavano (come dimostrò la dissezione del suo cadavere), lo portò a morte il 4 marzo 1589 a Mantova. Fu sepolto in un primo tempo nella vecchia chiesa dei gesuiti, e traslato nel 1680 nella nuova, intitolata a S. Maria Maddalena. All'università gli successe Annibale Bimbiolo, suo nipote.
Considerato tra i più convinti assertori della scuola araba (che si contrapponeva alla scuola greca, a cui apparteneva il suo collega Mercuriali, e alla scuola sperimentale), il C. si discostò alquanto dai suoi maestri, cercando di formarsi un metodo curativo proprio, che ebbe un certo successo, nonostante la discutibile scelta di certi medicamenti. Le sue cognizioni anatomiche si rifanno quasi completamente a Galeno. Qualcuno ha visto nelle sue opere, in parte con ragione, una derivazione da quelle di Giovanni Argenterio di cui era stato discepolo. Le numerose pubblicazioni del C. peccano di prolissità a causa del metodo scolastico adottato, consistente nell'offrire, di ogni fatto morboso, la definizione, la causa efficiente, i segni o sintomi, le varie specie di ogni male, le indicazioni e le cure, secondo uno schema ancora evidenziato da richiami in margine.
La sua prima opera, Opusculum de doctrinarum differentiis,seu de Methodis,philosophis,theologis,jurisconsultis et medicis necessarium, Patavii 1562 e Francofurti 1594, costituisce un trattato di logica medica, propedeutico ad ogni terapia.
Egli distingue la dottrina metodica - in base alla quale, muovendo da una dimostrazione aprioristica fondata sugli assiomi della ragione, si ha cognizione teorica delle affezioni morbose - dalla dottrina sperimentale, che con l'ausilio dei sensi e dell'esperienza offre dei mali la peritia, cioè la conoscenza pratica. Il concetto di esperimento del C. è ancora lontano dal metodo positivo e dalla "sensata esperienza" di Galilei, e consiste soltanto in un processo induttivo: da tutta una serie di sensazioni uniformi si possono trarre i principi universali per mezzo dell'intelletto, e ciò comporta sia la scoperta sia l'uso delle arti, cioè, nel caso specifico, la pratica medica. La dimostrazione, operata dalla ragione, si distingue dall'esperienza, che si vale dei sensi.
Con lo scritto Acroases de virulentia gallica,seu de lue venerea, Spirae 1590 e Francofurti 1594, il C. si pose nella numerosa schiera di coloro che trattarono di malattie veneree; la sua esperienza di specialista in questo settore lo aveva convinto dell'utilità dell'uso dei decotti di guaiaco o del mercurio per suffumigi nei casi più gravi, mentre l'antimonio rimaneva per lui un rimedio poco efficace.
La più estesa opera del C. è Methodus practicae medicinae omnium corporis umani adfectuum,causas,signa et curationes exibens, Venetiis 1591, riedita ivi 1594, 1597, e con altre opere 1591, 1594, 1601; inoltre fu edita anche a Francoforte nel 1594 e a Lione nel 1597. Essa tratta partitamente tutte le malattie delle varie parti del corpo, dalla capigliatura alle affezioni degli organi dei sensi. La trattazione si sofferma particolarmente sull'artrite, la lue e le febbri, che erano state per il C. oggetto di studi specialistici, con sensate osservazioni, dettate dalla pratica, e indicazioni medicinali, dietetiche e chirurgiche. L'ultimo libro, il settimo, riprende le osservazioni già espresse in un altro opuscolo, il Tractatus de venenis, esponendo quali siano le varie specie di veleni, in qual modo il corpo reagisca ad essi e suggerendo i relativi rimedi. Il Tractatus de urinis, Servestae 1595, muove dalla utilità di una dottrina sulle urine per una retta diagnostica, secondo l'autorità di Ippocrate e di Galeno; ad essi e ad Aristotele si appoggia per sostenere che l'urina è una secrezione del fegato, attratta dai reni, dissentendo da J. F. Fernel.
Tra le altre numerose pubblicazioni, uscite talvolta in varie miscellanee mediche, citiamo: Nova methodus medendi lectionibus publicis explicata, Francofurti 1605; Epistolae aliquae pariter cum L. Scholzii collectione excusae,Tractatus de pulsibus,Expositio in l. I Aphorismorum Hippocratis,De arte collegiandi et de modo interrogandi aegros, tutte uscite a Venezia nel 1601. E ancora: De compositione medicamentorum institutio brevis,Libellus de ratione componendi medicamenta,Tractatus de febribus,De morbis particularibus partes duae,De recta cauteriorum administratione epistolae, scritti raccolti in Opera Omnia, Venetiis 1597 e 1601, e Francofurti 1603, 1606, 1617, 1652 e 1693. Più interessanti sono, forse, il trattato, più di morale aristotelica che di medicina, Chamaleon sive homo sapiens dissertatio, Patavii 1615, gli scritti Methodus anatomica de arte secondi, Venetiis 1593, e Medendi methodus universalis ad cognoscendos et curandos omnes corporis humani affectus, Francofurti 1616, dove si ribadiscono concetti già enunciati in altre opere sul metodo; in essi peraltro traspare non soloun'intenzione chiarificatrice, ma anche una precisa volontà conciliativa tra le posizioni delle scuole greca e araba.
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