CORNER, Girolamo
Nacque il 20 ott. 1562 da Giorgio di Girolamo e da Elena Contarini di Giustiniano; ebbe un fratello, Marco (1565-1583), ed una sorella, che fu badessa nel monastero di S. Martino a Murano. La precoce morte di Marco lasciò al C. la responsabilità di garantire la discendenza del prestigioso ramo di S. Cassiano dei Corner "della Regina": il padre, infatti, dopo una vita interamente dedicata al servizio in armata, era scomparso a Lepanto, mentre l'unico zio, Andrea, non aveva preso moglie. Sposatosi il 7 ott. 1584 con Pisana Priuli di Federico, ne ebbe cinque figli, tutti destinati ad importanti carriere pubbliche: senatori e membri del Consiglio dei dieci, Giorgio e Federico; ambasciatore in Savoia e in Spagna, Francesco; capo del Consiglio dei dieci, provveditore generale in Terraferma e a Candia, Andrea.
Il C. non va confuso con l'omonimo figlio di Giovanni di Marco (1558-1619), più volte governatore di galera e provveditor d'Armata, protagonista nel 1613di fortunate azioni contro i corsari.
Fin dal suo esordio nella vita politica, il C. fu chiamato a incarichi di non lieve responsabilità, quali le podesterie di Vicenza e di Bergamo, che sostenne rispettivamente dall'agosto 1593 all'ottobre '94 e dall'aprile '98 al settembre '99: due reggimenti tutt'altro che tranquilli, specie per le condizioni dell'Ordine pubblico, gravemente turbato dagli scontri tra le fazioni e dalle faide tra gruppi nobiliari non meno che da una criminalità ovunque in fase di acuta recrudescenza.
A Vicenza, la tregua ottenuta con la riforma del Consiglio Maggiore all'inizio del '93, dopo un periodo di gravissime tensioni, rischiò in dicembre di essere irrimediabilmente compromessa da un violentissimo scontro tra i Cavalcabò e i Cordellina, presto estesosi, per le aderenze dell'una e dell'altra parte, a tutta la città. Fattosi delegare poteri straordinari dal Consiglio dei dieci, il C. riuscì ad evitare che la situazione degenerasse, procedendo nella punizione dei colpevoli con tale energia e determinazione da suscitare le proteste dello stesso capitano, che si riteneva leso nelle proprie competenze.
Se nel Bergamasco meno accesa era la lotta delle fazioni - l'episodio più grave fu la faida che oppose i veneti Secco Soardo e Martinengo ai Visconti di Brignano, politicamente di scarso rilievo benché causa anch'essa di violenze e atrocità ai danni della popolazione - assai più preoccupante era invece la situazione della criminalità comune. Per le sue condizioni naturali e per la vicinanza del confine, i numerosi e folti gruppi di banditi che ne infestavano il territorio potevano difatti agire praticamente indisturbati, né valevano a farvi fronte - come riconosceva lo stesso C. - i replicati bandi di espulsione di bravi e vagabondi e il costante ricorso alle procedure segrete nei processi.
Sul finire della podesteria di Bergamo, il C. ebbe a svolgere un ruolo di rilievo nella ripresa delle trattative coi Grigioni per la conclusione di un patto federativo con la Repubblica che le garantisse la libertà di transito per la Valtellina.
Il nobile bergamasco Alessandro Aleardi, inviato a Coira su consiglio del C. in seguito ai segni di una mutata disposizione dei Grigioni verso Venezia, aveva infatti condotto il negoziato sotto il suo diretto controllo; ma quando in novembre sembrava ormai raggiunto un accordo, un ennesimo voltafaccia dei presidenti delle Tre Leghe, sobillati dalla fazione filospagnola, aveva nuovamente rimesso tutto in discussione, e al C., che si era appositamente trattenuto a Bergamo oltre i termini del proprio mandato, non era rimasto che tornare a Venezia, profondamente amareggiato per lo smacco subito.
L'elezione al Senato nel 1602, dopo un breve periodo di assenza dalla vita politica, segnò per il C. l'avvio di un intenso impegno nelle magistrature cittadine: ancora nei Pregadi nel 1603 e 1607, e nella loro zonta nel 1604 e 1605, fu inoltre sopraprovveditore alla Giustizia nuova (1602-03 e 1605-06), provveditore alle Biave (1605) e sopra Danari (1605-06), censore (1607), savio alla Mercanzia (1607-08 e 1609-10) e alle Acque (1609-10), depositario in Zecca (1609-10); a sanzionarne definitivamente il prestigio vennero infine le elezioni al Consiglio dei dieci, il 1° ott. 1608, e ad inquisitore di Stato "di rispetto", il 3 ag. 1609.
Con la nomina a capitano di Verona, nel gennaio 1610, il C. affrontava il suo terzo e certamente più impegnativo reggimento.
In nessun'altra città, infatti, l'azione dei rappresentanti veneziani doveva scontrarsi con un ceto aristocratico altrettanto geloso dei propri privilegi e apertamente ostile al dominio della Repubblica. Nella lunga relazione presentata al Senato il 5 maggio 1612, alla conclusione del mandato, il C. dipingeva un quadro drammatico e impietoso della situazione veronese, evidenziando il nesso che esisteva tra l'insubordinazione politica della nobiltà, la totale impotenza dei rettori - neppure ammessi al Consiglio dei dodici e avviliti in una funzione puramente notarile in quello maggiore - ed il grave stato di degradazione in cui era ridotta la vita civile. La prepotenza dei nobili non solo dava adito alle consuete corruzioni, intacchi, ruberie in ogni ufficio, ente o istituzione (particolarmente grave era al proposito la situazione del Monte grande di pietà); più preoccupante ancora - per i suoi riflessi politici - era l'egemonia da costoro esercitata, col ricatto e la violenza, su di ogni strato sociale: sul popolo minuto, soggetto ad ogni sorta di angherie, non meno che sui ceti mercantili e artigiani, altrove nerbo della resistenza antiaristocratica e ridotti qui in completa subordinazione "per la parte ch'hanno li gentilhuomini nelli giuditij così civili come criminali sopra le vite et le facoltà loro". Anche i Comuni del territorio, dopo aver dilapidato le loro sostanze in interminabili cause a solo profitto dei cittadini, erano ora insidiati nelle residue autonomie di governo, la cui perdita avrebbe reso definitivamente i nobili "padroni del tutto senza dipendenza alcuna", e ridotto i contadini "tributarij et sudditi de cittadini, essendone hora poco meno per rispetto della criminalità ordinaria". Quanto ai rimedi, le proposte del C. rivelavano più la tempra dell'uomo d'azione che la finezza e l'accortezza del politico. A parte l'idea di conferire una notevole autonomia al territorio in funzione anticittadina, e quella, meno convinta, di ricercare una maggiore integrazione della nobiltà suddita nello Stato veneto, indirizzandola sistematicamente al servizio militare - cui fa peraltro da contrappunto la raccomandazione di fortificare i due castelli veronesi, "non solo per resister et opponersi al nemico, ma anco per tener in ufficio quelli della Città et per moderare gl'affetti loro così inquieti et desiderosi di novità" - il C. non vedeva infatti altra soluzione che l'attribuzione di poteri eccezionali ai rappresentanti veneziani, poiché "per regolar quest'infiniti disordini non basta l'auttorità ordinaria de rettori ma vi sarebbono necessarij Provveditori Generali con auttorità suprema": una strada tentata senza successo dallo stesso C., costretto alla fine del suo mandato ad assicurare il Senato di non aver nutrito "pensieri inquieti" né di aver "mirato mai ad accrescer le giurisdittioni del Capitaneato", anzi, "di haver fatto più tosto manco di quello che richiedeva il bisogno, che abbracciato più di quello che si conviene".
Le proteste suscitate dalla condotta troppo energica e spregiudicata del C. non dovettero comunque scalfirne il prestigio se, dopo una breve pausa di impegno in magistrature cittadine - fu senatore (1612-13), depositario in Zecca (1612), esecutore contro la Bestemmia (1612-13), consigliere ducale (1613-14) - nel luglio del 114 gli venne affidata la podesteria di Brescia.
Né qui fu minore l'energia dispiegata da "Testa di bronzo" - così lo chiamarono i Bresciani - nel contrastare la lotta tra le fazioni in città e la criminalità nelle campagne; con pari rigore, il C. ricondusse sotto il controllo pubblico le confraternite religiose che andavano diffondendosi nel Bresciano, escludendovi tassativamente alcuna "assistenza del Padre Inquisitore né di altra persona ecclesiastica". Alla ripresa della guerra tra il duca di Savoia ed il governatore di Milano, ogni preoccupazione dei rettori si concentrò sulla revisione delle fortificazioni e sull'approvvigionamento del territorio. Nell'aprile del 1615 lo stesso C. doveva anzi abbandonare l'incarico per assumere quello di commissario e provveditore generale "sopra i viveri della soldatesca", e intraprendeva una minuziosa ispezione di tutte le "piazze" del confine occidentale, provvedendo al restauro dei depositi di cereali e alla punizione dei responsabili di intacchi. In luglio si portava quindi a Peschiera, dove doveva incontrarsi col provveditore generale Antonio Lando e con Giovanni Garzoni, Benetto Tagliapietra e Nicolò Contarini, per studiarne il sistema più opportuno di fortificazione; passava poi a Verona, incaricato dal Senato di rivedere i conti della Camera.
Il successivo ritorno a Venezia, e l'elezione in ottobre a consigliere ducale e ad inquisitore di Stato, segnarono solo una breve cesura nella fitta serie di incarichi operativi sostenuti in quegli anni dal Corner. Già nel marzo del 1616, infatti, gli attruppamenti e le minacce messi in atto dal Toledo per allentare la pressione veneta sul fronte friulano rendevano indispensabile il presidio del confine occidentale, e la scelta di un provveditore generale "di qua e di la del Mincio" non poteva cadere - per la profonda esperienza di quei luoghi, per la posizione politica decisamente antispagnola, per la qualità del temperamento - che sulla sua persona.
Dato il gravissimo stato di disgregazione in cui si trovava l'intero apparato militare, il compito del C. si rivelò subito particolarmente improbo. "Tumultuarie, innobedienti, senza disciplina, senza lingua nostrana, e quasi del continuo alterate dal vino" erano le milizie svizzere, decimate dalle diserzioni e dalle malattie, e soprattutto risolutamente decise a non combattere contro gli Arciducali, nonostante le estenuanti e mortificanti trattative cui si era piegato il C. pur di convincerle a spostarsi in Friuli; né erano migliori le truppe locali: del tutto inaffidabili le cernide, pronte a dileguarsi in concomitanza dei lavori campestri; insubordinati i loro ufficiali, che non si curavano di rispondere alle convocazioni dei provveditore; tutti presi infine dalle "pretensioni et emulationi tra loro" i nobili sudditi, attenti solo a lucrare sul prezzo degli arruolamenti. D'altro canto il governo veneziano - fosse per mancanza di mezzi, o, più probabilmente, per timore che le intenzioni del C. di predisporre un sistema di difesa attiva e in campo aperto rischiassero di far precipitare la situazione - non si dimostrava pronto ad assistere il provveditore, ne ignorava le assillanti richieste di denaro, dilazionava all'infinito la nomina dei capi da guerra (finché il C., nonostante gli ordini contrari, vi procedette da solo), ne offendeva persino la suscettibilità ignorando le prerogative della sua carica: al punto che questi, rilevata con profonda acredine la totale indifferenza per il suo operato, dissociava apertamente la sua responsabilità da un futuro fallimento, ritenuto inevitabile, e chiedeva con insistenza di poter rimpatriare. Si può pertanto comprendere che il C. accogliesse esplicitamente come una "mortificatione" la notizia che il Senato, dopo aver deciso nel giugno 1617 di accogliere le sue "reiterate instanze" perché venisse nominato in suo luogo un provveditore generale in Terraferma, il 1° luglio aveva invece inopinatamente eletto proprio lui a tale carica. Il cambiamento appariva del resto puramente nominale: nonostante l'aggravarsi della minaccia spagnola, specie dopo la caduta di Vercelli, il Senato continuava ad opporre il "pubblico silentio" alle frenetiche campagne di arruolamento del C., o le boicottava rifiutando ostinatamente le sue proposte di portare ai livelli degli altri paesi le paghe dei soldati; d'altra parte, nell'imminenza dello scontro, si erano acuite le "garre et pretensioni private" tra i nobili sudditi, "l'uno non volendo la gloria dell'altro, ma tutti gustare esser capi et comandare", al punto che il C., esasperato, aveva dovuto stabilire che l'eventuale comandante in capo sarebbe stato "il primo assalito". Il tono dei dispacci si faceva così sempre più aspro, e più incalzanti erano le richieste di essere sollevato dall'incarico; neppure quando in novembre l'allarme venne a cessare, il C. rinunciò a polemizzare duramente col governo veneto.
Ritornato finalmente a Venezia alla fine del 1617, il C. si trovò subito intensamente impegnato in numerose magistrature, ordinarie e straordinarie: tra il 1618 ed il 1623 fu infatti quattro volte senatore, cinque savio del Consiglio, tre membro del Consiglio dei dieci, una consigliere ducale; venne inoltre eletto savio alle Acque, alla Mercanzia, alla regolazione delle milizie, alla provvisione dei salari della Cancelleria ducale; provveditore al Quieto vivere, sopra le Artiglierie; sopraprovveditore alla Sanità; presidente all'esazione del Denaro pubblico; depositario in Zecca.
Non erano tuttavia ancora concluse per lui le missioni in Terraferma. Nel novembre del 1620, al nuovo aggravarsi della tensione internazionale per l'occupazione spagnola della Valtellina, il Senato decise di inviare a Verona quattro provveditori generali - oltre al C., Girolamo Giustinian, Benetto Tagliapietra, Francesco Erizzo - col compito ufficiale di verificarne lo stato delle fortificazioni, ma in realtà anche per dissuadere i Veronesi dall'accarezzare qualsiasi pensiero di ribellione.
In questo senso, la missione dei quattro fu senz'altro efficace: se infatti non si erano fatti restauri, perché troppo costosi, i nobili veronesi invece, preoccupati da una ventilata minaccia "d'esser con le rifforme della Città nelle cose proprie et nella riputation universale della lor Patria dilaniati", si erano dimostrati "afflitti et sospesi per qualche divulgatione contraria" sulla loro fedeltà a Venezia, mentre per parte loro i quattro si erano sforzati di far apparire ogni loro provvedimento "a contento, a difesa et a stima, non ad essasperatione et diffidenza di quella nobiltà et sudditi". Nella loro relazione, i provveditori si soffermavano sull'organizzazione militare, riprendendo molti dei temi su cui tanto aveva insistito il C.; ma notevoli ne erano soprattutto le conclusioni politiche, pienamente aderenti alle tesi sarpiane della necessità di una guerra antispagnola, condotta con l'alleanza dei principi protestanti, per rompere finalmente il soffocante accerchiamento asburgico e porre un termine all'esasperante tensione che esso comportava - "un lento tarlo, che ne corrode et ne debilita, et in cui, come vedemo, se bene a tempo, sicuramente però morti rero, non si deve doppo tant'anni troppo longamente proseguire".Presto tramontata questa prospettiva, quando nel febbraio del 1623 venne nuovamente eletto provveditore generale in Terraferma, al posto di Francesco Erizzo il C. poté invece individuare nello "sparagno" delle spese militari - dopo che le truppe iberiche avevano ormai sguarnito il fronte lombardo per trasferirsi in Fiandra - "l'antidoto vero e potente contro il male tentato in ogni tempo dalle gelosie et artifitij spagnoli". Nei nove mesi del suo generalato, procedette dunque ad un drastico ridimensionamento delle milizie ed avviò una profonda riorganizzazione e razionalizzazione delle strutture gerarchiche e amministrative.
Nella relazione presentata il 30 genn. 1624, il C. espose in modo organico le proprie concezioni in materia militare: mirando a costituire una forza da campo, data la completa sfiducia nei presidi delle città, egli riteneva che l'esercito dovesse essere composto esclusivamente da milizie mercenarie e libero del tutto dall'impaccio delle cernide. Quanto ai comandanti, era essenziale spingere i nobili sudditi, anche avviandoli a combattere all'estero, a trasformarsi in una sorta di casta militare da cui attingere i futuri capi, "introducendoli in via d'honore con allettamenti et forme tali, che riconoscendo dalla sola pubblica benignità tutto il bene di acquisto et di riputatione che facessero, restino vivamente commossi gl'animi loro al stimolo della gratia di V.ra S.tà, a quello della gloria di se stessi, et al debito del pubblico servitio".
Il 21 sett. 1624 il C. veniva chiamato a sostituire Antonio Barbaro, eletto provveditore generale in Terraferma, nell'ambasceria straordinaria ad Urbano VIII, composta inoltre da Renier Zeno, Francesco Erizzo e Girolamo Soranzo.
La missione, decisa sin dall'agosto 1623, avrebbe dovuto limitarsi a porgere al pontefice le congratulazioni rituali per la sua elezione. Tuttavia, portatisi a Roma solo nel dicembre del '24, quando cioè le truppe franco-svizzere avevano appena concluso l'occupazione della Valtellina cacciandone i presidi pontifici, i quattro non poterono evitare di affrontare la spinosa questione col papa, fortemente irritato di non avere di fronte interlocutori abilitati a condurre una trattativa in merito, e difesero vigorosamente la posizione della Repubblica per il ritorno della valle alle Tre Leghe, sottolineando i pericoli di un allargamento generale del conflitto e rivendicando a Venezia il merito di essere l'unico baluardo d'Italia contro i barbari, "che pur oltre i Turchi sono i Spagnoli ed i Tedeschi". Una difesa di principio che difficilmente poteva far breccia proprio su Urbano VIII, impegnato in quel momento in un'ambigua politica di riarmo con cui sembrava deciso a far propria - "con pregiuditio gravissimo della libertà d'Italia" - la "massima, di ordinaria pratica nei nostri tempi, ... di vincer col solo nome, e di guadagnare con seminare sospetti, e con le armi di una semplice voce e divulgamento far la guerra agli erarii, e sturbare la quiete de' sudditi e la pace comune".
Insignito della dignità cavalleresca, al ritorno a Venezia il C. riprese il suo servizio ai vertici del governo, affiancato da un impegno intensissimo nelle magistrature più diverse. Tra il 1623 ed il 1634 venne eletto undici volte savio del Consiglio, una consigliere ducale e due nel Consiglio dei dieci; fu inoltre ripetutamente savio alla Mercanzia, all'Eresia, alle Entrate Pubbliche; esecutore contro la Bestemmia; riformatore allo Studio di Padova; provveditore alla Sanità, al Quieto vivere, all'Arsenal, sopra Monasteri, alla fabbrica del Palazzo, alla fabbrica della Salute, alla liberazione dei Prigioni. "sopra i marineri", "sopra la Piave"; revisore sulle Scuole Grandi; inquisitore sul Banco Giro, in Zecca, sui processi formati in Candia; correttore della promissiorie ducale e correttore delle leggi. Il 7 febbr. 1625 gli venne inoltre conferita la dignità di procuratore di S. Marco de supra. Nel marzo del 1630 compì un'ultima missione in Terraferma, inviato con Simon Contarini e Antonio Barbaro a Vicenza, per proporre un sistema di fortificazione della città che sanasse i dissidi insorti tra i capi militari.
Il C. morì a Venezia il 9 nov. 1634.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. codici, I, Storia veneta, 18: M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, III, c. 55; Ibid., Avogaria di Comun, Libro d'oro nascite, reg. 54, c. 67v; Ibid., Avog. di Com., Libro d'oro matrimoni, reg. 89, c. 66v; Ibid., Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 865, cc. n. n., 9 nov. 1634; Ibid., Dieci savi alle decime, busta 168, Santa Croce, n. 494, e, per le condizioni aggiunte, busta 179, n. 2679; busta 195, nn. 8803, 8876, 9125; busta 196, nn. 9488, 9522; Ibid., Segretario alle voci, Maggior Consiglio, regg. 7, 8, 11-16; Ibid., Segr. voci, Magg. Cons., Elezioni Pregadi, 1582-1713; Ibid., Segr. voci, Pregadi, regg. 5-13; Ibid., Segr. voci, Elezioni del Cons. dei dieci, reg. 2; Ibid., Consiglio dei dieci, Miscell. codd., regg. 59-62; i dispacci inviati dai diversi reggimenti Ibid., Senato, Dispacci Rettori, Brescia e Bresciano, buste 14, 15; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci, Lettere Rettori, Vicenza, busta 225, nn. 152-159; Bergamo, busta 3, nn. 75, 78, 79, 82; Verona, busta 198, nn. 3-30; Brescia, busta 27, nn. 174-229, 271-300; sulle trattative coi Grigioni i dispacci e la relazione del C. assieme ad altri docum. Ibid., Secreta, Materie miste notabili, filza 76, cc. 9-107: vedi, inoltre, Ibid., Senato Secreta, Deliberazioni, reg. 92, cc. 133, 137. 140, 150, 154, 157, 182; i dispacci del C. commissario e provveditore generale sopra i viveri della soldatesca, provveditore generale di qua e di là del Mincio, provveditore generale in Terraferma sono Ibid., Provveditori da Terra e da Mar, buste 65, 163-166, 258; le relative rubriche nelle buste 4, 7, 14; proclami e ordini del C. provveditore generale in Terraferma (1623), Ibid., Sindici e inquisitori in Terraferma, busta 9, fasc. 5; le relazioni dei quattro provveditori generali a Verona e del C. provveditore generale in Terraferma (1623), Ibid., Collegio, Relazioni, busta 52; i dispacci dell'ambasciata a Roma, Ibid., Senato Secreta, Disp. Ambasciatori, Roma. filza 91, nn. 201-213, 192b-200b; le commissioni relative ai diversi incarichi del C., Ibid., Senato Secreta, Deliberaz., reg. 105, cc. 56, 59; reg. 106, cc. 11v-12v, 55v-57v; reg. 109, cc. 240v s., 246v-249; reg. 117, cc. 179 s., 273v-275, 345v s.; reg. 122, cc. 62v-64v, 65 s.; reg. 134, cc. 70-71, 83-85; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio Veneto, I, c. 326 (con l'avvertenza che vi sono attribuite al C. le imprese contro i corsari compiute dall'omonimo figlio di Giovanni di Marco); Ibid., Mss. It., cl. VII, 2401 (= 10.509): alcuni dispacci e altri documenti relativi alla podesteria di Vicenza; Ibid., Mss. It., cl. VII, 318 (= 7491): commissione ducale per la podesteria di Bergamo; l'amministrazione tenuta dal C. dell'eredità di Sofia Gradenigo, il testamento del C., atti notarili relativi alla sua eredità in Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Mss. P. D. c 2678/1, 3, 4; due lettere della sorella badessa al C., Ibid., Mss. P. D. c 2378/33; documenti sull'attività economica del C., Ibid., Mss. P. D. c 2323/21, 2412/4, 2571/12; su cause ereditarie sostenute per il recupero dei beni della famiglia in Candia, Ibid., Mss. P. D. c 2660; documenti delle trattative di Coira con due lettere dell'Alcardi al C., Ibid., Arch. Donà dalle Rose, ms. 139, cc. 36-51; dispacci del C. commissario e provveditore generale sopra i viveri e provveditore generale di qua e di là del Mincio a diversi pubblici rappresentanti, Ibid., Mss. Correr, 784 c 1298; lettere di vari rappresentanti pubblici al C. provveditore generale in Terraferma (1617). Ibid., Mss. Correr, 1095; una precisa biografia del C., Ibid., Cod. Cic. 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, I, cc. 198v-199v; Brescia parlante all'ill. ... G. C. Prov. Gen. in T. F. Ode, Brescia 1615; Elogio dell'ill. ... G. C. pod. di Brescia eletto Provv. ... di T. F., Brescia 1615; Relaz. dei rettori veneti in Terraferma, VII, Podest. e capit. di Vicenza, Milano 1976, pp. 87, 253; IX, Podesteria e capitanato di Verona, Ibid. 1977, pp. 191-219; XII, Podest. e capit. di Bergamo, Ibid. 1978, ad Indicem;XII, Podest. e capit. di Crema. Provved. di Orzinuovi. Provved. di Asola, Ibid. 1979, pp. 149, 151, 157, 164, 425, 426, 430; Relaz. d. Stati europei lette al Senato dagli amb. ven. nel sec. XVII, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, s. 3, Italia, Relaz. di Roma, I, Venezia 1877. pp. 223-252 (i curatori incorrono però nella stessa imprecisione dei Cappellari Vivaro); L. Ranke, Die römische Päpste, ihre Kirche und ihr Staat im sochszehnten und siebzehnten Jahrhundert, III, Berlin 1836, pp. 128-130; Le cronache bresciane inedite dei secc. XV-XIX, a cura di P. Guerrini, IV, Brescia 1930, p. 84; P. Sarpi, Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli 1969, p. I 154; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, con le aggiunte di G. Martinioni, Venezia 1663, pp. 150 s.; L. Moscardo, Hist. di Verona, Verona 1668, pp. 460 s.; F. Verdizzotti, De' fatti veneti dall'anno MDLXX sino al MDCXLIV, III, Venezia 1698, pp. 33, 391; A. Morosini, Historia veneta, in Degl'istorici delle cose veneziane..., VII, Venezia 1720, pp. 258, 508; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Venez., V, Venezia 1842, pp. 44, 84; G. Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum, III, Venetiis 1870, p. 177; V. Ceresole, La République de Venise et les Suisses, Venise 1890, p. 55; F. Capretti, Mezzo secolo di vita vissuta a Brescia nel Seicento, Brescia 1934, pp. 171-173, 217 s.; F. Antonibon, Le relaz. a stampa di ambasciatori veneti, Padova 1939, p. 102; L. Mazzoldi, Gli ultimi secoli del dominio veneto, in Storia di Brescia, III, Brescia 1964, p. 29; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, ad Indicem;B. Pullan, Rich and Poor in Renaissance Venice, Oxford 1971, p. 613; G. Moroni, Diz. di erudiz. storico-ecclesiastica, II, p. 126; XCII, p. 497; G. Mazzatinti, Inventari dei mss. delle biblioteche d'Italia, LXXXI, p. 98; XCI, p. 78.