CORNER, Girolamo
Nacque a Venezia il 29 ag. 1574 da Giacomo Alvise di Giovanni, del ramo dei Corner chiamato Piscopia dal feudo di Episkopi nell'isola di Cipro, di cui erano stati investiti nel sec. XIV, e da Caterina Bragadin di Giovanni.
Fu l'ultimo di cinque fratelli, dopo Giovanni Alvise, un altro Girolamo morto in tenera età, e Francesco, che fu provveditore ad Asola e in Istria; ebbe anche quattro sorelle - Isabella, Paolina, Prudenza, Maria - che presero tutte il velo; altrettanto fece una figlia naturale di Giacomo Alvise, Cornelia.
Il C. si sposò il 22 nov. 1610 con Caterina Thilmans, figlia di Guglielmo, membro di rilievo della colonia mercantile fiamminga di Venezia, e ne ebbe sette figli - Giacomo Alvise, Giovan Battista, Fantino Federico, Guglielmo Pietro, Guglielmo Francesco, Francesco Antonio, Baldissera - e tre figlie - Maria Chiara, Paola Isabella, che sposò Girolamo Contarini, Caterina Isabella, monaca a Padova - cui va aggiunta Caterina, una figlia naturale nata nel 1591. Dei maschi solo due raggiunsero la maggiore età: Baldissera, che peraltro morì di vaiolo a soli diciotto anni, mentre si trovava al seguito del bailo a Costantinopoli, e Giovan Battista, che sposandosi con Zanetta Boni poté evitare l'estinzione della famiglia, pur attraverso contrastate vicende dovute all'estrazione popolare della moglie.
Per lungo tempo tra le famiglie più insigni e facoltose dell'intero patriziato, i Corner Piscopia conobbero nel corso del sec. XVI un certo declino delle loro fortune. Giacomo Alvise tanto nel 1566 che nel 1581 denunciava addirittura come unica proprietà il palazzo padovano in contrada del Santo ereditato dal nonno materno Alvise Corner, il che peraltro non gli avrebbe evitato una contribuzione di ben 40.000 ducati per la guerra contro i Turchi, come lamentava in una lettera al duca di Modena Alfonso II. Più affidabile per una valutazione del patrimonio familiare, ricostituitosi dopo numerose frammentazioni ereditarie, è il documento di divisione dei beni attuata nel 1613 dai due figli superstiti Francesco e Girolamo, che elenca una decina di possedimenti nel Padovano, Trevigiano, Polesine e Friuli, per circa 500 "campi", oltre a poche case a Venezia, il palazzo di Padova e quello avito sul Canal Grande.
Parallelamente forse al venir meno degli interessi mercantili in Levante, scemò anche la partecipazione della famiglia alla vita pubblica. Giovanni era vissuto a lungo a Padova presso il suocero, il celebre Alvise Corner, il quale ancor prima della precoce morte del genero aveva curato gli interessi e la formazione dei numerosi nipoti. Più interessato alla scienza che alla politica, anche Giacomo Alvise preferì restare a Padova: amico tra i più intimi di Galileo, corrispondente di Filippo Pigafetta, esperto di cose militari ed eclettico inventore ed alchimista, fece del suo palazzo uno dei principali punti d'incontro tra quanti, studiosi e docenti dello Studio, animavano la vita culturale della città.
Il C. condivise, almeno in parte, gli interessi scientifici del padre: scrisse infatti dei Discorsi sulla laguna (ms. segnalato da T. Gar, in I codici ... Foscarini, p. 427) - un tema trattato anche dallo zio Marcantonio, cultore di ingegneria idraulica - che furono in seguito raccolti dal figlio Giovan Battista. Ma soprattutto fu un appassionato bibliofilo, e riuscì ad allestire una cospicua biblioteca ricca di oltre millecinquecento opere, equamente distribuite in ogni ramo del sapere. Conscio del valore unitario della raccolta amorevolmente costruita, il C. inserì nel suo testamento l'esplicito divieto di venderla come pure di smembrarla tra gli eredi, vincolandola "sotto fideicommisso in perpetuo"; distaccandosi dai precedenti familiari, il C. intendeva, inoltre, che fosse utilizzata non per un'erudizione fine a se stessa, ma per l'addestramento al servizio pubblico, "spetialmente... per quelli che havessero attitudine o dovessero attendere all'ambasciarie, overo che s'incaminassero a gli honori per la via del colegio".
Lo stesso C., del resto, aveva partecipato, benché sporadicamente, alla vita pubblica, ricoprendo dall'aprile 1611 al dicembre 1612 la carica di rettore a Feltre, dal dicembre 1616 all'aprile 1618 quella di rettore a Rovigo, e dal giugno 1621 all'ottobre 1622 quella di podestà a Verona; rifiutò invece, nel dicembre 1600, la carica di ufficiale alla Messetteria.
Nel tranquillo centro feltrino ("qui c'è una gran povertà respettivamente in cadauna condittion di persone, et così poca inclinatione all'arme, ch'è un miracolo quando si forma un processo criminale") tutte le preoccupazioni vennero al C. dai rapporti con l'autorità ecclesiastica. Il precedente reggimento di Francesco da Mosto si era chiuso con un contrasto col vicario vescovile M. A. Zamboni, un ex gesuita accusato di condotta scandalosa, di vendita delle indulgenze, ma soprattutto di essere dichiaratamente avverso alle prerogative della Repubblica e dei suoi rappresentanti. L'inchiesta condotta al suo arrivo dal C. e le spiegazioni del vescovo Agostino Gradenigo sembrarono ridimensionare la vicenda, ma il rettore dovette presto rendersi conto che era in realtà proprio quest'ultimo a condurre una tenace opposizione all'autorità civile. Nell'investitura dei numerosi feudi di cui era titolare, per esempio, obbligava "con solenne et formal giuramento alla fedeltà della vassallanza i cittadini investiti", cosa tanto più preoccupante in quanto vi era "interessata la maggior parte de cittadini honorevoli di quella Città", che "di questa obbligatione" facevano "non picciolo capitale". Altrettanto grave era il suo tentativo di assumere un controllo esclusivo sulle fraglie e le scuole secolari, facendole riunire in assenza del rettore, boicottando quelle che ne seguivano invece le disposizioni, e cercando "con diversi atti, et con visite, et con ordeni che si compiaceva di dare a ministri ... di far credere et insinuare nelli animi di quel popolo" di avere su di esse un'autorità assoluta. Addirittura era arrivato a spostare "in luogo inferiore" il seggio del rettore nel duomo, e ad eliminare dalla liturgia solenne l'introito usualmente recitato in suo omaggio. Le ingiunzioni del C., i provvedimenti per regolare l'attività delle fraglie, le segnalazioni al Senato delle continue prevaricazioni commesse dal vescovo non riuscivano però a piegarne la resistenza. Nel suo ultimo dispaccio, il C. riteneva necessario riassumere i termini sostanzialmente immutati della questione, quasi per passarla ufficialmente in consegna al successore Domenico Trevisan, e nuovamente nella relazione raccomandava che i "pubblici rappresentanti" stessero "molto oculati alle attioni et pensieri" del Gradenigo.Anche nel corso del reggimento a Rovigo non mancarono motivi di contrasto con l'autorità ecclesiastica, ma qui era la situazione militare - mentre era ancora in corso la guerra con gli Arciducali, l'esercito spagnolo premeva sul confine lombardo e anche dal Ferrarese giungevano inquietanti segnalazioni di movimenti di truppe - a richiedere tutta l'attenzione del Corner. Era difatti tale il disordine delle milizie che il C. escludeva di poter opporre alcuna resistenza ad eventuali attacchi dallo Stato pontificio.
I mercenari, a ranghi largamente incompleti, erano "guasti dall'otio et dalla commodità" e si rendevano "ogni giorno più gravi et importuni cum latrocini et altre insolenze"; i loro ufficiali erano preoccupati unicamente di "arricchir con molti illeciti et con pregiuditio del publico denaro"; quanto alle cernide, dopo che gli uomini migliori erano stati inviati in Friuli, esse erano ridotte ai vecchi e ai più giovani, "quasi tutti senza disciplina, inutili, et da non potersene prometere alcun servitio" privi di equipaggiamento, senza "alcuna notitia di combatere, né d'alcun buon ordine militare". La scarsità di uomini si faceva sentire però anche nel settore altrettanto vitale della manutenzione e riparazione degli argini. Ma un ostacolo maggiore era qui costituito dai "disordini, le corrutele et abusi" invalsi nell'esazione e nell'utilizzo delle apposite "colte", le cui ingenti entrate venivano in gran parte dirottate e consumate "dalla ingordigia di privati" senza alcun beneficio pubblico: un sistema cui erano interessati in primo luogo gli stessi camerlenghi veneziani, che lucravano enormi profitti dall'aggio tra la buona valuta pretesa nei versamenti e la moneta corrente adoperata nei pagamenti. D'altro canto, il C. notava che i privati per parte loro ignoravano sistematicamente gli ordini loro rivolti in tale materia dai rettori. Appunto la necessità di rafforzarne l'autorità era stata più volte sottolineata dal C., spesso costretto a richiedere l'appoggio di Venezia tanto nei confronti del Consiglio cittadino, insofferente dei suoi provvedimenti per impedire gli scontri tra fazioni nobiliari, quanto verso l'autorità ecclesiastica e gli stessi rettori delle podesterie minori del Polesine.
Non meno impegnativo fu il terzo reggimento tenuto dal C., in un periodo di rinnovata tensione internazionale per le vicende della Valtellina, e in una città dominata da una nobiltà tra le più riottose ed ostili al governo veneziano. Tuttavia non si colgono nei dispacci del C. quel risentimento e quello sdegno impotente che tanto spesso inasprivano la permanenza a Verona dei rappresentanti veneziani. Al contrario, a suo dire, la città era tranquilla, non si registravano gravi turbamenti dell'ordinepubblico, il popolo era "molto devoto", i nobili "generosi" e pieni di ossequio verso "li publici rappresentanti".
Tale inaspettata armonia era probabilmente dovuta, oltre che ai perduranti effetti di una recente missione di quattro provveditori straordinari, inviati a reprimere sul nascere le velleità di secessione suscitate dalla crisi grigionese, anche alla particolare prudenza del C., attento ad evitare aperte contrapposizioni coi nobili. In una questione di grande importanza quale l'appalto e la riscossione del dazio sulla seta, per esempio, il C. sapeva perfettamente che i fallimenti degli ultimi appaltatori e l'impossibilità di trovarne altri erano dovuti alla sfacciata evasione delle "persone riche, principali e potenti", che si adoperavano "per ogni via possibile di fraudarlo, impedendo anco violentemente a pubblici ministri l'officio loro et levandoli imperiosamente li contrabandi ritrovati"; ma si guardava bene dall'intraprendere una decisa repressione, e preferiva rinviare ad un "suo tempo" non meglio definito l'esercizio di "quella giustizia che si conviene". A destare l'allarme dei rettori era invece la situazione del contado, in primo luogo per il continuo aggravarsi del banditismo: le rapine e gli "svaliggi" quotidiani erano infatti arrivati a paralizzare gran parte del traffico commerciale, specie in direzione del Trentino. Privo dei mezzi necessari per un'adeguata sorveglianza, il C. non poteva però far altro che opporvi quel ricorso sempre più esteso alla violenza privata - largheggiando nelle concessioni di taglie, impunità, liberazioni di banditi e di carcerati - che contribuiva non poco al progressivo imbarbarimento della vita civile. Nel deterioramento dell'Ordine pubblico si rifletteva del resto la più generale crisi del territorio, giunta a livelli drammatici con la carestia del 1621-22, quando le comunità rurali, ridotte dal malgoverno dei massari ad un indebitamento di diverse centinaia di migliaia di ducati, non riuscivano a trovare cereali in prestito neppure "con grandissimi interessi", e si profilava "una incredibil strage di questa povertà", nonostante gli sforzi dei rettori per garantire gli approvvigionamenti ed impedire il contrabbando di cereali verso i più remunerativi mercati d'oltre confine.
Con la relazione letta al Senato il 25 nov. 1622, il C. concluse i propri impegni politici. Morì nel suo palazzo di Padova meno di tre anni dopo, il 12 genn. 1625.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Miscell. codici, I, Storia veneta, 19:M.Barbaro, Arbori de' patritii veneti, III, c. 17; Avogaria di Comun, Libro d'oro nascite, reg. 54, c. 94; Avog. di Comun, Libro d'oro matrimoni, reg. 90, c. 93v; Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 853, cc. n.n. (13 genn. 1624 m. v.); Notarile, Testamenti, Beacian Fabrizio, b. 58, n. 365 (il testam. della moglie, chiuso, è ibid., busta 257); la condizione del padre è Ibid., Dieci savi alle decime, b. 170, Dorsoduro 427; la divis. dei beni tra Francesco e Girolamo Ibid., Notarile, Atti, Fabrizio e Lucillo Beacian, busta 595, cc. 269v-275v); Notarile, Atti, Zuanne Piccini, busta 10-780, III, fasc. 2-3 (invent. della bibl; un altro invent. Ibid., Giudici di Petizion, Inventari, b. 349, n. 14); Segretario alle voci, Maggior Consiglio, reg. 8, c. 96; 11, c. 54; 12, c. 162; Senato, Dispacci rettori, Feltre, 1610-1616; Rovigo e Badia, 1616, 1617-18; Verona, 1621, 1622; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere rettori, b. 122, nn. 139-154; b. 159, n. 118; b. 199, nn. 12-96; Venezia, Bibl. d. Civ. Museo Correr, M.ss. P. D. c 755, n. 51 e P. D. c 866, n. 64 (due contratti di prestito del C.); Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, II, Milano 1974, Podest. e capit. di Belluno. Podest. e capit. di Feltre, pp. 317-21; VI, Milano 1976, Podest. e capit. di Rovigo ..., pp. 167 ss.; IX, Milano 1977, Podest. e capit. di Verona, pp. 259-62; I. Salomoni, Urbis Patavinae Inscriptiones sacrae et prophanae, Patavii 1701, p. 456; T. Gar, I codici stor. della collez. Foscarini conservata nella I. Biblioteca di Vienna, in Arch. storico ital., V (1843), p. 427; A. Favaro, G. Galilei a Padova, Padova 1968, p. 79; un profilo biogr. sul C. con qualche imprecisione (non fu rettore a Bergamo, mentre lo fua Feltre) e numerose notizie sulla famiglia, in F. L. Maschietto, E. L. Cornaro Piscopia, Padova 1978, ad Indicem (su cui v. anche la recens. di F. Ambrosini in Arch. veneto, CXIII [1979], p. 146); la bibliot. del C. è stata parzialmente studiata da F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secc. XVI-XVII), Venezia 1982, ad Indicem.