D'ANDREA, Girolamo
Nacque a Napoli il 12 apr. 1812 dal marchese Giovanni, esponente di una delle famiglie di più antica nobiltà del Regno meridionale, e da Lucrezia Rivera, anch'essa di famiglia meridionale. Dei dodici figli che nacquero da questa unione, quattro morirono ancora in giovane età; degli otto rimasti, le femmine scelsero la vita monastica, i maschi furono educati a Roma, tre nel Collegio Clementino retto dai somaschi (tra essi, Francesco Saverio, erede al titolo paterno), il quarto, il D. appunto, nel Collegio Romano tenuto dai gesuiti.
Al suo arrivo a Roma il D. aveva già alle spalle i primi studi letterari e filosofici, compiuti sotto la guida di due abati, e l'ascrizione al clero napoletano (1823). Il suo futuro si definì con l'ingresso nell'Accademia dei Nobili ecclesiastici e la frequenza dell'Archiginnasio per studiarvi teologia e conseguirvi il dottorato in utroque iure (6ag. 1833), che gli aprì le porte della prelatura.
Di questo lungo periodo va messo in risalto il valore formativo che ebbe per il D. il magistero del somasco Luigi Parchetti, esponente di quella tradizione riformistica romana consolidatasi dopo il papato di Benedetto XIV. Al suo insegnamento il D. si richiamò sempre come a quello di una guida spirituale che lo aveva introdotto nel mondo delle scienze umane, liberandolo da taluni pregiudizi tipici del cattolicesimo dell'epoca, anche se poco della serenità di giudizio del Parchetti si può cogliere nel Saggio analitico... letto nell'Acc. di Religione cattolicanella tornata del dì 28 lug. 1836 (Roma 1836),una esercitazione retorica in cui il D. confutava lo spirito laico, riformista e anticlericale dell'Istoriadel Reame di Napoli del Colletta.
L'influsso del Parchetti, se conferì al D. una certa ossatura culturale, non valse tuttavia a liberarlo dai condizionamenti impostigli da fattori quali l'educazione, una certa albagia aristocratica e la convinzione che per le funzioni rivestite dal padre tutto gli fosse dovuto. Il benessere e il decoro personale, perseguiti sino all'ossessione, lo rendevano poi più che sensibile agli aspetti materiali della carriera, al punto che all'atto dell'ingresso in prelatura le speranze di un rapido arricchimento e il desiderio di accumulare benefici (come documentano le sue ripetute istanze al papa e al re delle Due Sicilie) prevalevano senz'altro sulla solidità della fede. Una tendenza a personalizzare ogni questione faceva poi sì che il D. valutasse le persone in base all'appoggio dato o negato alle sue aspirazioni che, se erano soddisfatte sul piano del prestigio da un vorticoso susseguirsi di cariche (prelato domestico, referendario delle Due Segnature, abbreviatore del Parco maggiore, protonotario apostolico, ponente del Buon Governo, assessore del tribunale dell'Auditor Camerae), loerano meno su quello economico; per cui quando, all'inizio del '38, Gregorio XVI lo nominò vicedelegato per la turbolenta provincia di Velletri, il D., che da tempo attendeva qualche incarico più tranquillo e redditizio e perciò aveva fatto sollecitare dal padre il card. De Gregorio, rifiutò e, dicendosi convinto di essere stato "postergato" ad altri che, di lui meno anziani, erano stati "promossi a posti assai superiori" (lett. al card. Pacca del 13 febbr. 1838), si ritirò a Napoli col pretesto di una malattia e di lì per più di sei mesi resistette agli inviti a tornare che gli venivano dai cardinali Polidori, Lambruschini e Bernetti.
Con l'unica alternativa di lasciare la prelatura e quindi la carriera, il D., che non aveva esitato a far balenare la minaccia d'una crisi dei rapporti fra Napoli e S. Sede, alla fine preferì cedere, anche dietro il compenso di un'altra carica più remunerativa, quella di ponente della S. Consulta, e lo spostamento da Velletri a Viterbo; a conclusione della lunga vicenda, il Bernetti, ex segretario di Stato ora lontano dai centri del potere, lo esortava a fare "buona cera alle carte cattive" e a tirare "innanzi con pazienza" assicurandogli che così i successi non gli sarebbero mancati.
Dopo due anni vissuti con rassegnazione e dei quali in seguito ricorderà solo la scoperta di una cospirazione con arresto e conseguente processo di diciotto indiziati, il 30 luglio 1841 il D. venne nominato nunzio a Lucerna. Pochi giorni prima, il 18 luglio 1841, il card. Lambruschini l'aveva consacrato arcivescovo di Melitene.
I rapporti tra Roma e la Svizzera, guastatisi dopo il 1830 nel corso della lunga missione di mons. F. De Angelis, erano ancora molto tesi per la politica antiecclesiastica che i Cantoni progressisti erano riusciti a imporre alla Confederazione e che aveva provocato la chiusura di molti conventi e, per reazione, il passaggio della nunziatura da Lucerna a Schwyz. All'arrivo del D., che per la morte del padre (31 marzo 1841) poté essere a Schwyz solo ai primi di dicembre, la situazione non era mutata perché, anche se a Lucerna le ultime elezioni avevano visto il successo dei conservatori, il Cantone d'Argovia aveva esacerbato la polemica con Roma e si era posto alla testa di un vasto movimento di opposizione che aveva trovato l'appoggio, determinante in sede di votazione federale, dei due Cantoni cattolici di Soletta e Ticino. L'atteggiamento del D., pur se improntato ad una cautela che gli sarebbe stata più volte rimproverata dalla segreteria di Stato, approfondì la frattura tra i Cantoni e gettò le basi di quel processo di separazione che sarebbe culminato nella guerra del Sonderbund. Al progetto di incameramento di alcuni grossi conventi Roma credette di rispondere facendo leva sull'appoggio di Lucerna, le cui autorità premevano per il ritorno della nunziatura e dei gesuiti; dopo che i contatti con i rappresentanti delle potenze lo avevano persuaso a cercare in una transazione la sola via d'uscita praticabile, il D. servì questa politica con non troppa convinzione, perché, fiducioso nell'appoggio di Francia e Austria, non sembrava condividere una linea, quella voluta da Roma, che alternava a momenti di passività altri di quasi provocatoria iniziativa; perciò se aveva accettato senza entusiasmo il ritorno a Lucerna (gennaio 1843), se aveva evitato di protestare per la grande fioritura di una pubblicistica antiromana (e ciò lo aveva esposto ai rimbrotti del Lambruschini), sul richiamo dei gesuiti espresse più di una riserva. I fatti gli diedero ragione perché fu proprio l'intempestiva decisione di Lucerna, sostenuta caldamente da Roma, a provocare quella ripresa dell'agitazione popolare che sfociò, tra la fine del '44 e l'inizio del '45, negli attacchi dei corpi franchi a Lucerna e poi (19 luglio 1845) nell'assassinio di J. Leu, il profeta della lotta al protestantesimo.
Timoroso per la propria incolumità, già dal febbraio il D. aveva chiesto di essere richiamato: gli ultimi, tragici eventi lo indussero a rinnovare la domanda. Qui emerse ancora l'aspetto irruente del suo carattere perché, saputo che, anziché destinarlo ad una sede meno pericolosa ma importante quale quella di Vienna, il papa lo aveva designato (30 ag. 1845) alla segreteria della Congregazione del Concilio, posto notoriamente cardinalizio ma che consentiva guadagni irrisori, prima scrisse a Gregorio XVI per indicare nel Lambruschini e nei vecchi rancori insorti dopo la morte del padre l'origine delle proprie disgrazie, quindi, il 10 ottobre, inviò una rinunzia formale a tutte le cariche ricoperte o da ricoprire che, se fosse arrivata a destinazione, avrebbe messo fine alla sua carriera: il fatto invece che mons. Santucci, prosegretario di Stato, ne bloccasse l'iter permise al D. di chiarire alcuni equivoci e di tornare sulla decisione presa. Per compensarlo il papa, che già gli aveva concesso i benefici dell'abbazia dei SS. Quattro Coronati nelle Marche, accettò di appoggiare una sua istanza mirante ad ottenere da Ferdinando II una badia dalle pingui rendite, cosa che si verificò nel 1848.
Il D. non si sentiva preparato per l'incarico di segretario del Concilio che gli imponeva l'esame delle relazioni dei vescovi di tutto il mondo, ma vi si adattò per le prospettive che esso gli schiudeva; con l'avvento di Pio IX e il ritiro del Lambruschini, egli vedeva rifiorire quelle speranze che gli insuccessi diplomatici sembravano aver compromesso: si trattava solo di seguire il nuovo corso, e fu ciò che il D. fece, prima guardando con simpatia al processo di rinnovamento dello Stato, poi tirandosi indietro di fronte ai suoi imprevedibili sviluppi. Perciò come membro dell'Alto Consiglio criticò l'operato di chi tentava di ampliare in senso politico le funzioni amministrative assegnate ai laici il 30 giugno 1848 e, dopo l'uccisione del Rossi, si dimise (2 dicembre) per non condividere le responsabilità di un organismo che ormai si muoveva contro la volontà del sovrano. Tra i pochi ecclesiastici di rango rimasti a Roma dopo la fuga del papa e agli esordi del regime repubblicano, il D. non fu mai molestato, ma all'inizio delle ostilità con i Francesi si sentì in pericolo e si nascose nel convento della Minerva, donde il 20 maggio 1849 fuggì travestito alla volta di Civitavecchia. Da tempo era in contatto epistolare con l'Antonelli che lo usava come osservatore e che, presa Roma dai Francesi, a lui conferì il compito di trattare con le autorità d'occupazione il ristabilimento del potere pontificio fuori di ogni controllo esterno; e se gli inviati francesi accantonarono tutti gli intenti riformistici il merito fu anche del D., cui spettò perciò un ruolo di primo piano nella successiva restaurazione che dal 18 luglio 1849 al 31 luglio 1851 lo vide commissario straordinario per l'Umbria e la Sabina, alle dirette dipendenze della commissione governativa incaricata di riportare l'ordine nello Stato.
Ad una valutazione serena della documentazione relativa a questo periodo non sfugge l'ambiguità in cui il D., nella sua larga autonomia, operò: i suoi collaboratori e confidenti erano o esponenti del peggiore sanfedismo come l'Allai e l'Alpi, o vecchi arnesi della persecuzione politica come il Mordioni, il giudice che tra il 1843 e il 1844 aveva istruito a Roma i grossi processi anticarbonari; quanto ai metodi, essi furono abbastanza sbrigativi nel reprimere gli ultimi sussulti della rivoluzione e alcuni moti provocati dal ripristino del macinato, puntando soprattutto sulla disponibilità all'azione repressiva delle truppe d'occupazione austriache. Pure, tutto ciò non evitò al D. le accuse di coloro che, come il ministro degli Interni Savelli, lo giudicavano troppo indulgente verso i liberali e troppo poco sollecito nell'opera di epurazione. Cosicché buona parte della sua missione il D. la consumò nell'inviare all'Antonelli e al papa memoriali attestanti la propria solerzia e i risultati conseguiti. C'è da dire tuttavia che le critiche rivoltegli dal Savelli non erano senza fondamento, perché in effetti i riguardi usati dal D. al Guardabassi o al Danzetta o alla marchesa Florenzi sono provati, come lo sono anche la sua sfiducia in una politica di repressione generalizzata, il suo timore che il Governo papale non si risollevasse dall'impopolarità e una, per ora larvata, avversione per l'Antonelli alle cui vedute contrapponeva un proprio ideale paternalistico, in cui il papa fosse come un "buon padre" che "flagella i figli e li accarezza secondo che meritano" e la sicurezza interna fosse affidata alla "frusta boema", messi da parte una volta per tutte "quelli avanzi di ciurmaglia repubblicana" che costituivano l'esercito pontificio.
Qualcosa di questa insofferenza per gli indirizzi politici generali dovette venire alla luce se all'inizio del '51 il D. ebbe sentore che a Roma qualcuno cercava di carpirgli il posto alla segreteria del Concilio: allora intensificò l'invio di documenti autodifensivi e chiese nello stesso tempo di essere subito richiamato a Roma. Finalmente il 31 luglio 1851 il commissariato fu soppresso; e il 15 marzo 1852 il D. toccava, con l'elezione al cardinalato col titolo di S. Agnese fuori le Mura, la più sospirata delle mete. Non era solo questione di prestigio: il sostanzioso piatto cardinalizio, arricchito nel 1859 dalla nomina ad abate commendatario dell'abbazia di Subiaco e a prefetto dell'importante Congregazione dell'Indice (4 luglio 1853), allontanava lo spettro dei debiti e consentiva un tenore di vita che, quantificato qualche anno prima in 1.706 scudi annui per le sole spese di servitù e vestiario, aveva "quasi scandalizzato" il Lambruschini. Tuttavia gli avanzamenti conseguiti non calmarono la sua irrequietezza interiore che per poco. Presto crebbe in lui un disprezzo aristocratico per l'Antonelli che considerava un parvenu e che cercò di mettere in cattiva luce nei frequenti colloqui con Pio IX. D'altra parte l'interpretazione molto aperta che il D. diede della propria prefettura dell'Indice gli procurò la fiera inimicizia dei gesuiti. Come prefetto, entrò in contatto coi maggiori esponenti della cultura cattolica ai quali si sforzò di apparire come un protettore e non come un censore. Fu grazie a lui se nel 1854 il Rosmini uscì indenne dagli attacchi dei gesuiti e se al cattolicesimo francese fu lasciata una certa libertà di ricerca teorica.
Ma fu sulla questione del cosiddetto tradizionalismo dei teologi dell'università di Lovanio che il fronte Antonelli-gesuiti diede battaglia al D'Andrea. Questi già nel 1854 aveva visto nelle tesi dei tradizionalisti, per i quali nessuna verità metafisica era raggiungibile dall'uomo senza l'aiuto dell'intelletto, una manifestazione della libertà di pensiero non in contrasto con la dottrina della Chiesa. Tale decisione, ribadita nel 1860, fu inizialmente condivisa dal papa; ma quando i gesuiti sottolinearono il pericolo che essa fomentasse lo spirito d'indipendenza dalla gerarchia nel clero educato a Lovanio, Pio IX chiese all'Indice un nuovo esame che confermò la sentenza assolutoria (16 maggio 1861). I gesuiti però ottennero dal papa che le tesi lovaniensi fossero sottoposte anche al giudizio della Congregazione del S. Uffizio. Il D. vide in questa decisione la fine dell'autonomia della congregazione affidatagli e il 23 luglio 1861 rassegnò le dimissioni che furono subito accettate. Reso furioso dallo smacco, il D. decise allora di inserire le lettere all'Antonelli con cui aveva motivato le dimissioni in un opuscolo, La Curia romana e i gesuiti…, edito dal Barbera a Firenze nel 1861, che conteneva un violento attacco alla Curia ed alla segreteria di Stato. Ma dietro questa contestazione dell'autoritarismo della Chiesa e della gestione quasi monopolistica del potere da parte dell'Antonelli si celava qualcosa di più serio che era cominciato circa un anno prima, proprio mentre Pio IX nominava il D. vescovo della diocesi suburbicaria di Sabina (28 sett. 1860) e la penisola completava il processo d'unificazione.
Crollato il Regno meridionale il D., che fino a pochi giorni prima aveva riaffermato la propria fedeltà al potere temporale e la deferenza alla dinastia borbonica, improvvisamente si mostrò interessato alle aperture fattegli dagli uomini che il Cavour aveva inviato a Roma per trovare sostegno alla politica di conciliazione; nello stesso tempo avvertiva l'urgenza di un indirizzo riformatore e spostava sulla Francia quel ruolo di garante della sopravvivenza dello Stato pontificio che in passato aveva attribuito all'Austria.
Tra tutti i cardinali possibilisti il D. era il solo che non temeva di esporsi pubblicamente, ma più che una prova di coraggio ciò apparve una dimostrazione di avventatezza tale da compromettere tutto; e se i rappresentanti francesi indicavano in lui il loro candidato per un eventuale conclave, i corrispondenti del Cavour non ne nascondevano i difetti. Ai più attenti tra i liberali non sfuggiva poi che la sua conversione all'idea nazionale era stata troppo rapida per essere sincera, e non sbagliava il Farini quando vedeva nelle proposte operative fattegli dal D. "artifizi di preti a danno di preti ... invidie ed ambizioni in lotta" (al Cavour, 6 dic. 1860, in Carteggi cavouriani. La liberazione del Mezzogiorno, IV, p. 23). Più che collaborare alla politica nazionale, il D. cercava quindi in essa un sostegno per la sua lotta all'Antonelli; e a convalidare la sua scelta italiana c'era il fatto non secondario che ad essa sembravano legate le speranze di riavere le rendite dei beni ecclesiastici a lui intestati che il nuovo governo aveva subito sequestrato.
Comunque la sortita del D., provocando le prime risentite reazioni di Pio IX, ebbe anche l'effetto di paralizzare completamente il partito degli avversari dell'Antonelli in seno alla corte romana, un partito abbastanza folto ma composto di individualità autonome che non gradivano i clamori delle rotture troppo brusche. Il D. si trovò perciò scoperto e isolato, cosa che avrebbe dovuto indurlo ad una maggior prudenza; e invece il 16 giugno 1864, dopo che già più volte l'anno prima gli era stato rifiutato il permesso di lasciare Roma, dove come vescovo suburbicario era obbligato a risiedere, egli partì improvvisamente per Napoli ben sapendo che il suo gesto, per quanto giustificato dal bisogno di trovare un clima migliore per i malanni polmonari di cui soffriva, non poteva non essere interpretato come una sfida.
Ad aggravare la situazione concorsero molti altri elementi, primi fra tutti la strumentalizzazione che della vicenda fece subito la stampa liberale, le speranze di una riforma della Chiesa che si levarono da alcuni settori del mondo cattolico e il comportamento stesso del D. che, dopo qualche mese di vita ritirata, aveva cominciato a comparire in cerimonie ufficiali, era entrato in rapporti col prefetto Gualterio e aveva reso visita al principe Umberto che gliela aveva ricambiata. Si innestò perciò una serie di ritorsioni da parte della S. Sede che, fallita la mediazione di alcuni uomini sinceramente preoccupati dei guasti che una rottura avrebbe prodotto nella Chiesa (e furono soprattutto G. Casati e i cardinali Morichini e Corsi) e diffusasi la voce di una prossima candidatura del D. al Parlamento nazionale, gli sequestrò il piatto cardinalizio, noncurante del fatto che da Napoli egli continuava a governare le due diocesi di Subiaco e Sabina attraverso il proprio uditore. Con un intervento personale Vittorio Emanuele II volle risarcire delle somme confiscategli il D. che, fiducioso nell'appoggio dell'opinione pubblica liberale, diede il via ad una serie interminabile di lettere aperte e interviste alla stampa, ben sapendo che la pubblicità del proprio dissenso avrebbe indispettito Roma. Lentamente gli attacchi alla Curia e all'Antonelli si mutarono in una serrata critica del Papato e del principio d'autorità e in una rivendicazione del diritto di disobbedienza: posto in questi termini, il caso rischiava di aprire una breccia pericolosa, perché il D., che già prima di lasciar Roma aveva preso posizione contro il Sillabo, cominciava a sostenere essere il pontefice nient'altro che un "primus inter aequales" (al card. Mattei, 4 luglio 1865), un uomo investito della più alta autorità ma che "non è impeccabile ne' fatti, non è infallibile nelle parole" (pastorale a stampa Al clero e al popolodella diocesi di Subiaco, 5giugno 1866). Anche per le pressioni di altri cardinali, Pio IX aveva fino allora evitato provvedimenti troppo drastici; ma la risposta oltraggiosa data dal D. ad una sua lettera d'invito a tornare a Roma ("È tempo - gli scriveva tra l'altro il D. il 7 apr. 1866 - ch'Ella ritorni a più sani consigli e che, cessando dal molestarmi, mi lasci in pace") gli porse l'occasione per il breve del 12 giugno 1866 che, pubblicato di lì a poco, sospendeva il porporato dalle funzioni di vescovo e dalla percezione di ogni spettanza per l'amministrazione delle sue diocesi.
Dopo aver tentato inutilmente di ottenere che il breve fosse lacerato, il D. chiese con insistenza un regolare processo canonico e si affidò per la difesa al teologo liberale C. Passaglia. Ma le intemperanze verbali delle successive lettere al papa non erano fatte per ammorbidirne l'atteggiamento: la questione si trascinò così per un altro anno, fino a quando cioè, dopo una congregazione del 17 maggio 1867che pure aveva rivelato l'esistenza di una folta minoranza di cardinali favorevoli ad una procedura rispettosa dei canoni, un secondo breve, datato 29 sett. 1867,mentre confermava la sospensione dell'anno prima, stabiliva un termine di tre mesi per il ritorno a Roma del D., pena la perdita della dignità cardinalizia e dell'elettorato attivo e passivo in sede di conclave. Nella sua durezza questa misura sanciva la sconfitta del D.: già da tempo il fratello maggiore, dopo averlo sospinto alla ribellione, si era dissociato da lui e aveva espresso fedeltà all'Antonelli e al papa; a Roma quei teologi che lo avevano difeso erano incorsi in provvedimenti disciplinari d'inusitato rigore; il clero della sua diocesi era stato costretto a pronunziarglisi contro e i pochi sostenitori rimastigli erano stati emarginati; inoltre, se da un lato la politica del governo italiano nei riguardi di Roma si stava orientando verso una linea più morbida, dall'altra l'atteggiamento francese dopo lo scontro di Mentana sembrava aver consolidato il Papato. La consapevolezza di tutto ciò spinse dunque il D. ad ascoltare le tante sollecitazioni alla sottomissione rivoltegli da esponenti del clero e da insigni rappresentanti della cultura cattolica come il Cantù e il D'Ondes Reggio.
Chiesto perdono al papa per lettera, tornò a Roma il 14 dic. 1867, ma ciò non solo non bastò a bloccare la pubblicazione del breve del 29 settembre, da lui considerato infamante, ma lo espose agli attacchi della stampa liberale che lo accusò di debolezza, d'altra parte il gruppo dei suoi avversari capeggiato dall'Antonelli gli inflisse più di un umiliazione, costringendolo a firmare una ritrattazione completa e impedendogli di presentarsi davanti a Pio IX pentito ma con quelle insegne cardinalizie che credeva di essersi riguadagnato. Il colpo più duro, però, glielo inflisse il papa che, dopo averlo ricevuto alla presenza dei cardinali Antonelli e Patrizi ("quasi io fossi venuto da Napoli provveduto di revolver, o avessi concepito il disegno d'insultarla", gli farà notare più tardi il D.), lo trattò con freddezza e quindi fece pubblicare un breve (14 genn. 1868) che, se restituiva al D. vescovato e cardinalato, ribadiva la sospensione dalla doppia giurisdizione diocesana. Prostrato nel fisico e nel morale, il D. chiese più volte al papa, e sempre inutilmente, la restituzione delle diocesi sottrattegli con un provvedimento di cui da più parti era stata messa in risalto l'irregolarità sotto il profilo procedurale; si ammalò di nuovo di tubercolosi e sul finire dell'aprile del 1868 ottenne dal papa il permesso di recarsi a Napoli: "Amo sperare che l'uso dei bagni, e l'aria di quei luoghi possa contribuire al ristabilimento della sua declinata salute e ne porgo al Signore voti fervidissimi", gli scriveva il 7 maggio con cinismo forse involontario l'Antonelli nel rilasciargli il passaporto per il viaggio: cinque giorni dopo, il 12 maggio 1868, il D. si spegneva nella sua residenza romana. Fu sepolto in S. Agnese fuori le mura, e per decisione della Curia la sua tomba restò spoglia di ogni iscrizione commemorativa.
Fonti e Bibl.: Di primaria importanza per una ricostruzione completa della vita del D. sono le 17 buste di Spogli intestati al suo nome nel fondo Cardinali conservate in Arch. Segr. Vaticano: una document. imponente, fatta di lettere, minute, opuscoli, ritagli di giornali, copie di atti ufficiali, dispacci diplomatici, corrispondenza privata. Nello stesso Archivio si vedano, per la missione in Svizzera, il fondo Segr. di Stato-Esteri, rubr. 254, buste 490-492; per gli sforzi fatti per indurre il D. al ravvedimento, Segr. di Stato, 1865, rubr. 2, prot. 36257, e Arch. Pio IX, Oggetti vari, nn. 452, 1904 e 2005. Altre lettere del D. sono conservate in Bibl. Apost. Vaticana, Racc. Ferrajoli-Visconti, nn. 2337-2343. Nell'archivio del Museo centr. del Ris. di Roma si trovano dieci lettere a mons. Amat del periodo 1831-1833 (busta 10/15) e la corrispondenza col Mordioni, in missione a Roma nel 1851 per difendere il D. dal Savelli (in parte utilizzata da F. Gentili, All'ombra di uno stemma. La marchesa M. Florenzi, in La Nuova Antol., 1º ag. 1915, pp. 416-432). Della vasta produzione occasionata dal dissidio con Roma e quasi tutta d'autore ignoto si ricordino il Voto per la verità intorno al valore del Breve pontificio del 12 giugno 1866…, Italia 1866 (favorevole al D.); Sulla difesa del card. G. D. nel Voto per la verità. Osservazioni d'uno antico professore, Italia 1867 (replica al precedente dal D. stesso attribuita al servita B. Mura); Esposiz. stor.-giuridica della vertenza del card. G. D.,Italia 1867 (controreplica); La vertenza tra la corte di Roma e il card. D. Osservazioni d'un cattolico it., Italia 1867 (anticuriale); La S. Sede giustificata nella sua condotta verso il sig. card. G. D., Italia 1867; C. Passaglia, La causa di S.E.R.ma il card. G.D. …, esposta e difesa pel prof. C. Passaglia; [S.Bianciardi], Ilcard. D., la riforma cattolica e l'Esaminatore secondo il Frulla …,Firenze 1868 (critica il D. per la ritrattazione). Tra i molti scritti del D. sulla questione si vedano: La Curia romana e i gesuiti. Nuovi scritti del card. D., di mons. F. Liverani e del canonico E. Reali, Firenze 1861, pp. 5-29; la Lettera ... al card. M. Mattei, Napoli 1865; la Seconda lettera ... a S. Santità Papa Pio IX, Napoli 1866; la Terza lettera ... a S. Santità Pio IX, Napoli 1867, e le varie lettere Al clero e popolo della diocesi di Subiaco (del 5 giugno 1866 e del 18 maggio 1867) e la Protesta contro il primo breve indirizzata al clero e al popolo delle due diocesi in data 28 giugno 1866. Altra docum. sul D., sue lettere o testimonianze di contemporanei su di lui si leggono, per il periodo 1848-1850, in Le Assemblee del Risorg. Roma, II, Roma 1911, pp. 332 s., 345, 380, 491, 517; A.-B. Duff-M. Degros, Rome et les Etats pontificaux sous l'occupation étrangère: lettres du colonel Callier, Paris 1950, ad Indicem; C.Lodolini Tupputi, La Commiss. governativa di Stato nella Restauraz. pontificia…, Milano 1970, ad Indicem; Le relaz. diplom. fra lo Stato pontif. e la Francia, s. 3, 1848-1860, II-III, Roma 1972-1976, ad Indicem; Le relaz. diplom. fra l'Austria e lo Stato pontif., s. 3, 1848-1860, I,Roma 1973, ad Indicem; per la lunga vertenza col papato e la posiz. sul problema ital.: L. Thouvenel, Le secret de l'Empereur..., I-II,Paris 1889, ad Indicem; L.Chiala, Cart. polit. di M. Castelli, II, Torino 1891, p. 24; F. Quintavalle, La Concil. fra l'Italia e il Papato nelle lettere del p. L. Tosti e del sen. G. Casati, Milano 1907, pp. 112, 159, 276 s., 383 s., 406, 473; P. Calà Ulloa, Un re in esilio…, Bari 1928, p. 172; S. Jacini, Il tramonto del potere temporale nelle relaz. degli ambasciatori austriaci a Roma, Bari 1931, ad Indicem; C. M. de Vecchi di Val Cismon, Le carte di G. Lanza, II, Torino 1936, pp. 546, 565, 597 s.; Docc. diplom. it., s. 1, 1861-1870, I-IV, Roma 1952-1973, ad Indices; per i Carteggicavouriani si rinvia all'Ind. gen. dei primi 15 voll. (1926-1954), a cura di C. Pischedda, Bologna 1961, ad nomen; Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio..., III, 2, La Questione romana... 1864-1870, a c. di P. Pirri, Roma 1861, pp. 403-406; F. Gregorovius, Diari romani, a cura di A. M. Arpino, Roma 1967, ad Indicem; D.Silvagni, La corte e la società romana nei secc. XVIII e XIX, Napoli 1967, III, pp. 428, 518; Carteggi di B. Ricasoli, XXIV,a cura di S. Camerani - G. Arfé, Roma 1970, p. 361; XXVI, a cura di S. Camerani, ibid. 1972, pp. 66, 70, 78 s., 203. Brevi biografie del D. in Dict. d'hist. et de géogr. eccl., II, coll. 1736 s.; in Dict. histor. et biogr. de la Suisse,I, p. 328, e in Enc. catt., IV, sub voce; dati sulla carriera in R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica medii et recent. aevi, VII-VIII,Patavii 1968-1978, ad Indices. Fondamentale per un'interpr. complessiva è C. Weber, Kärdinale und Prälaten in den letzten Jahrzenten des Kirchenstaates, I-II,Stuttgart 1978, ad Indicem; altra valutazione globale in R. Aubert, Storia della Chiesa ... Il pontificato di Pio IX, Torino 1968, ad Indicem. In particolare sulle missioni a Viterbo cfr.: G. Signorelli, Viterbo nella storia della Chiesa, III, 1610-1944, 2, Viterbo 1969, ad Indicem; sulla nunziatura in Svizzera, oltre all'elogio del conservatore J. Cretineau Joly, Hist. du Sonderbund, Parigi 1850, I, pp. 506 s., cfr.: J. Dierauer, Hist. de la Confédération Suisse, V, Losanna 1919, p. 805; sulla sua azione nel 1848-'49 e sul commissariato perugino cfr.: L. Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860, a cura di G. Innamorati, II, Città di Castello 1960, ad Indicem; G.Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, ad Indicem; G.Monsagrati, Una delicata missione di mons. D. nella Roma del dopo Mazzini, in Lunario romano, XI, Ottocento nel Lazio, Roma 1981, pp. 117-130; sulla sua opera di segretario del Concilio, M. L. Trebiliani, La Sacra Congregaz. del Concilio intorno agli anni '70 …, in Roma tra Ottocento e Novecento. Studi e ricerche, Roma 1981, ad Indicem; sul D. abate di Subiaco cfr.: G.Jannuccelli, Continuazione delle Memorie di Subiaco e sua Badia dall'anno 1853 al 1866, Roma 1866, passim; sulla sua prefettura dell'Indice e i contrasti coi gesuiti: A. Simon, Le card. Sterckx et son temps (1792-1867), Wetteren 1950, ad Indicem (sub voce Andrea); G. Radice, Pio IX ed A. Rosmini, Città del Vaticano 1974, ad Indicem. Infine sul caso D. nel quadro più vasto della ricerca di una conciliazione, oltre al ben informato ma talora impreciso R. De Cesare, Roma e lo Stato dei Papa. Dal ritorno di Pio IX al XX settembre (1850-1870), Roma 1975, pp. 54, 147, 400 ss., 405, 426-430, cfr.: G. Spadolini, L'opposiz. catt. da Porta Pia al '98, Firenze 1961, ad Indicem; R. Mori, La questione romana (1861-1865), Firenze 1963, ad Indicem; G.Martina, Osservazioni sulle varie redazioni del "Sillabo", in Chiesa e Stato nell'Ottocento. Miscellanea in onore di P. Pirri, Padova 1962, II, p. 462; F. Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1972, ad Indicem.