GIROLAMO da Santo Stefano
Le scarse notizie certe che possediamo a proposito di questo mercante genovese, vissuto nella seconda metà del XV secolo, sono sostanzialmente quelle desumibili dalla sua relazione di viaggio e da pochi altri documenti, quali la registrazione di una controversia legale grazie alla quale possiamo conoscere il nome di sua madre, Susanna Mainerio "quondam Antonii" e alcune lettere di Cristoforo Colombo.
Il toponimo Santo Stefano porterebbe a pensare che fosse originario del "burgus Sancti Stephani", quartiere genovese (cresciuto intorno alle proprietà dell'abbazia benedettina di S. Stefano e incluso all'interno delle mura cittadine solo con l'edificazione della nuova cerchia nel 1326-27) dove tale tipo di cognominazione era assai frequente o della località di Santo Stefano, sulla Riviera ligure di Ponente, che doveva il proprio nome (sostituito a quello originario di Villaregia) al fatto di essere soggetta alla signoria dell'abate del monastero genovese.
Sappiamo per certo che, insieme con Girolamo Adorno, appartenente all'influente famiglia che aveva dato alla Repubblica numerosi dogi, G. lasciò Genova (forse non più tardi del gennaio 1494, come si è ipotizzato sulla base degli stessi dati offerti dalla relazione) per intraprendere un viaggio commerciale verso quelle favolose regioni delle Indie che da secoli attraevano l'attenzione dei più avventurosi mercanti occidentali. Raggiunto l'Egitto, i due fecero una prima sosta al Cairo, dove, vendute probabilmente le merci che avevano recato con sé, si approvvigionarono di mercanzie adatte al commercio in Oriente (vengono specificamente menzionati coralli e bottoni); da qui, con una settimana di viaggio attraverso deserti e montagne, giunsero al Mar Rosso.
Va sottolineato come lungo questo itinerario G. non solo richiami alla mente le peregrinazioni degli Ebrei in fuga dall'Egitto, ma rilevi anche con attenzione la presenza di numerose rovine di antiche città dove templi poderosi si ergevano ancora, dandoci così una diretta testimonianza dell'impressione che le monumentali testimonianze della civiltà dell'Egitto faraonico potevano suscitare nei viandanti che avevano la ventura di osservarle. G. si rivela del resto un attento osservatore durante tutto il corso delle sue peregrinazioni, come rivelano, per esempio, le sue annotazioni sul modo di costruire le navi e le vele da parte delle marinerie dell'Oceano Indiano: avendo ben presenti le navi occidentali, infatti, lo colpisce in particolare il fatto che l'intera struttura di quello che era assai probabilmente un dhow arabo sia tenuta insieme per mezzo di corde (secondo un sistema costruttivo antichissimo e tuttora in uso) e le vele dell'imbarcazione siano di stuoia; in seguito, nota che un'altra delle imbarcazioni di cui ha occasione di servirsi nel corso del viaggio ha vele di cotone.
Dopo una lunga e tranquilla navigazione nel Mar Rosso, nel corso della quale ebbero modo di osservare la pesca delle perle e di valutare il prodotto (che non incontrò però la loro approvazione), i due mercanti raggiunsero Aden, dove fecero una sosta di ben quattro mesi che consentì loro di conoscere a fondo la situazione locale e di farsi un'idea lusinghiera delle qualità del sultano locale, Abdul Uehhab, che coincide con quella di un altro viaggiatore passato dalla città pochi anni dopo, Ludovico de Varthema.
Partiti da Aden, con una navigazione non più sottocosta ma in aperto oceano che testimonia del livello delle capacità acquisito dalle marinerie locali, dopo venticinque giorni i due compagni raggiunsero infine il porto fluviale situato nella zona dove ora si trova Calcutta. Della grande città dell'India "alta", a parte la notazione che vi sono almeno "mille case de cristiani", non viene data alcuna descrizione materiale: l'attenzione dei due viaggiatori, da buoni mercanti, è attratta maggiormente dai prodotti che è possibile trovare sul mercato locale, e cioè due spezie di gran pregio quali il pepe e lo zenzero.
Anche a questo proposito, G. si rivela osservatore attento, descrivendo con precisione non solo l'aspetto delle piante che producono le due preziose mercanzie, ma anche il processo al quale i prodotti vengono sottoposti per prepararli per il mercato; a questo proposito egli smentisce recisamente alcune false credenze diffuse in materia tra gli Occidentali, come quella secondo la quale il pepe acquisirebbe il colore nero perché tostato al fine di non farlo germogliare, mentre invece egli correttamente rileva come la bacca venga semplicemente essiccata al sole. Anche se comprensibilmente il suo interesse si concentra sulle questioni suscettibili di interesse commerciale, non sfuggono all'attenzione di G. alcuni costumi sociali e religiosi locali, che ai suoi occhi di cristiano dovettero apparire particolarmente curiosi e probabilmente riprovevoli, come il fatto che alcuni tra i "pagani" del luogo, seguaci dell'induismo, riservassero particolare devozione alle vacche, considerando un crimine l'uccisione di uno di questi animali, mentre altri addirittura (probabilmente jainisti o buddhisti) si astenevano dal mangiare carne o pesce o "animale alcuno che stia vivo"; ma particolarmente "alieni" dovettero risultare alla sua mentalità costumi sociali come quello della poliandria, o quello che prescriveva la perdita della verginità delle fanciulle prima delle nozze come uno dei requisiti fondamentali per il matrimonio.
Lasciata questa zona, i due compagni raggiunsero via mare prima Ceylon e quindi il Coromandel.
Anche in queste regioni l'attenzione di G. si concentrò principalmente sulle merci di produzione locale, quali la cannella, le noci di cocco e soprattutto le gemme (tra cui granate, giacinti e occhi di gatto ecc., delle quali viene rilevata però la qualità nettamente inferiore a quella dei prodotti pregiatissimi delle miniere situate nelle montagne dell'interno del subcontinente), ma non gli sfuggì un'ulteriore particolarità delle tradizioni socio-religiose indigene: se infatti già aveva rilevato la consuetudine dell'incinerazione dei morti, trattando del Coromandel ci lascia una prima descrizione delle satī, le mogli che seguivano i mariti defunti sulla pira funeraria in una cerimonia della quale egli e il suo compagno di viaggio, durante i sette mesi della loro permanenza in quella località, dovettero avere occasione di essere testimoni diretti, riportandone sicuramente una profonda impressione.
Dal Coromandel l'Adorno e G. partirono per raggiungere via mare Pegu (Birmania), da dove progettavano di recarsi nell'interno fino a quello che doveva essere stato fin dalle origini l'obiettivo del loro lungo viaggio, e cioè la regione di Yadanapura (od. Ava, sempre in Birmania) e le sue miniere di rubini, delle quali dovevano aver avuto notizia da qualche altro viaggiatore genovese o veneziano che si era recato in quelle regioni in precedenza.
Giunti a questo punto, però, la fortuna che li aveva fino a quel momento assistiti li abbandonò: lo scoppio di una guerra fra il signore di Pegu e il sovrano di un altro dei piccoli Stati confinanti non solo impedì loro di raggiungere Ava, ma li costrinse a una sosta estremamente prolungata nella città marittima, dovuta probabilmente all'impossibilità di trovare una nave a causa delle condizioni climatiche. Costretti dalle circostanze avverse a vendere sul posto le loro mercanzie, i due non poterono trovare altri clienti per le loro merci se non lo stesso sovrano, il quale tuttavia, dopo aver ricevuto la merce, tardava a saldare il prezzo di 2000 ducati pattuito con i mercanti; non potendo ovviamente ripartire senza merce né denaro, G. e il suo compagno dovettero loro malgrado prolungare ulteriormente la permanenza a Pegu, anche a causa della guerra, finendo per rimanere nella città per un anno e mezzo.
Le disagevoli condizioni di vita alle quali erano costretti, il clima (e probabilmente anche l'alimentazione) a cui non erano abituati, le fatiche del lungo viaggio e delle continue sollecitazioni al sovrano ebbero infine ragione del fisico dell'Adorno, già minato da una precedente malattia, che, dopo una lunga agonia, morì il 27 dic. 1496, lasciando nella disperazione il suo compagno di viaggio, il quale, non avendo neanche la possibilità di dargli il conforto di un funerale regolare per mancanza in loco di sacerdoti cristiani, poté soltanto provvedere a dare sepoltura al suo corpo nelle rovine di una chiesa abbandonata (segno evidente di una precedente presenza cristiana) e rivolgere ferventi preghiere per la sua anima.
Rimasto solo, G. cadde per un certo periodo in una cupa disperazione che sembrò dover condurre anche lui alla tomba, ma alla fine, ripresosi, riuscì a far valere con maggiore energia le proprie ragioni presso il sovrano, ottenendo il sospirato pagamento delle merci vendute, avuto il quale si affrettò a partire nuovamente via mare con destinazione Malacca. Le avverse condizioni del tempo, però, costrinsero la nave a portarsi verso le coste di Sumatra e qui, dopo una consultazione fra il comandante e i mercanti imbarcati, fu deciso di fare scalo e di sbarcare le merci, probabilmente nel porto di Pase. Il signore del luogo, però, avendo appreso che G. aveva con sé beni di proprietà del suo defunto compagno, rivendicò il proprio diritto di sequestrare i beni del morto senza eredi, secondo un costume locale che del resto le narrazioni di numerosi altri viaggiatori ci fanno sapere comune a molte delle regioni dell'Estremo Oriente, compresa la stessa Cina.
Essendosi G. comprensibilmente rifiutato di accondiscendere alla richiesta, tutte le sue merci furono poste sotto sequestro ed egli stesso arrestato e perquisito, cosicché gli furono trovati addosso rubini per un valore di 300 ducati che aveva evidentemente acquistato a Pegu; queste pietre furono immediatamente consegnate al sovrano locale andando così quindi definitivamente perdute, ma il resto delle merci, grazie a un "despazzo" (evidentemente una lista sottoscritta da qualche autorità) portato fin dal Cairo, e soprattutto all'aiuto impagabile di un cadì locale che "aveva qualche cognizione e intelligenza della lingua italiana" (segnale evidentissimo di una frequentazione non occasionale della regione da parte di mercanti italiani e di contatti prolungati nel tempo), poterono essere recuperate. Non volendo rischiare di incorrere in ulteriori problemi, G. si affrettò a sbrigare i propri affari, vendendo le mercanzie che aveva con sé e utilizzando il ricavato per acquistare seta e resina di benzoino, e a prendere la prima nave in partenza verso l'India che gli fu possibile trovare; giunto presso le Maldive (dopo venticinque giorni di navigazione secondo il testo italiano, mentre, nell'edizione portoghese di V. Fernandes, lo stampatore, probabilmente sulla base delle relazioni dei navigatori lusitani che avevano percorso quelle acque, corresse in trentacinque giorni), il bastimento fu travolto da un fortunale e, dopo aver lottato per cinque giorni con la furia dell'oceano, affondò, trascinando con sé tutto il carico e buona parte degli sventurati passeggeri: G. riuscì ad aggrapparsi a un relitto e, dopo un'intera giornata in balia delle onde, a raggiungere terra in uno degli isolotti dell'arcipelago, dove, per sua fortuna, venne individuato e recuperato da un'altra delle navi dello stesso convoglio che era riuscita a salvarsi dalla tempesta.
Giunto così a Cambaia (Khambāyat), che era stata la meta verso la quale si era imbarcato, G. si trovò privo di qualunque mezzo di fortuna e dunque non solo non poté approfittare del mercato della lacca e dell'indaco, come era probabilmente stata sua intenzione, ma dovette appoggiarsi sull'aiuto finanziario fornitogli da alcuni mercanti musulmani di Alessandria e Damasco, uno dei quali lo prese al proprio servizio incaricandolo di condurre un carico di merci fino a Hurmūz. È assai interessante notare come G. dimostri in più punti del suo racconto non solo di non avere particolari prevenzioni nei confronti di costumanze religiose che pur gli dovettero apparire assai singolari, come quelle delle Indie, ma di non nutrire neanche ostilità nei confronti dei musulmani, per i quali spesso ha anzi parole lusinghiere, e dai quali in più casi viene ripagato per questo suo atteggiamento con aiuti che giungono al momento giusto per trarlo d'impaccio, come nel caso del cadì di Sumatra o, appunto, in quello dei mercanti egiziani e siriani a Cambaia. Tali stretti rapporti con i mercanti islamici proseguirono del resto anche dopo la sua sosta a Hurmūz, dove ebbe modo di osservare l'importante mercato delle perle: infatti, si aggregò a una carovana di mercanti armeni e persiani insieme con i quali proseguì per via di terra il suo viaggio di ritorno verso Occidente.
A causa della guerra civile scoppiata fra tre pretendenti al trono dell'impero Aq Qoyūnlī (esteso su un territorio che andava dall'Anatolia orientale fino al centro dell'Iran), e cioè i principi Muḥammad, Alwand e Murād, la carovana dei mercanti dovette seguire un itinerario assai tortuoso, interrotto da frequenti e prolungate soste, nel tentativo di evitare le aree dove più violentemente infuriavano le ostilità. G. si recò dunque dapprima a Shīrāz, poi a Ispahan, quindi a Qazwīn, Sulṭāniyya e Tabrīz (capitale dell'impero) e da qui finalmente poté partire per Aleppo.
Lungo quest'ultima parte del tragitto la sfortuna si accanì ancora una volta contro di lui: la carovana venne infatti assalita e depredata e in questo frangente egli perse anche i beni che aveva potuto riguadagnare lungo il viaggio grazie alla propria intraprendenza. Quest'ultima esperienza negativa dovette convincerlo ad abbandonare ogni ulteriore velleità di guadagno, tant'è vero che rifiutò l'offerta fattagli da alcuni dei suoi corrispondenti musulmani di Aleppo di tornare a Tabrīz per acquistare per loro conto gioielli, seta e cremisi e si affrettò a raggiungere la costa, al porto libanese di Tripoli, ringraziando Dio di essere riuscito almeno a salvare la vita.
Proprio da Tripoli, il 1° sett. 1499, inviò la relazione del suo viaggio a un corrispondente, Gian Giacomo Mainerio, del quale purtroppo non abbiamo alcuna notizia, ma che dovette appartenere all'importante famiglia mercantile genovese dei Mainerio con la quale G. era imparentato per parte di madre. Non abbiamo nemmeno informazioni sicure sul luogo di residenza di questo corrispondente, forse un socio in affari, ma si potrebbe ritenere che il Mainerio risiedesse a Lisbona (o almeno a Siviglia) principalmente per il fatto che già nel 1502 il tipografo portoghese Valentim Fernandes inseriva una traduzione portoghese della lettera di G. (con il titolo Trellado de hûa carta que Jeronimo de santo Estevân escriveo de Tripoli a Joham Iacome Mayer em Baruti) nel suo volume pubblicato a Lisbona: Marco Paulo. Ho livro de Nycolao veneto. O trallado da carta de huum genoues das ditas terras, cc. 96-98.
Una cinquantina di anni dopo G. Ramusio tradusse in italiano questo testo inserendolo nel suo Primo volume delle navigationi et viaggi…, Venetia 1550, pp. 372 s. (ed. a cura di M. Milanesi, II, Torino 1979, pp. 821-830). Una traduzione olandese della versione portoghese è apparsa in Marcus Paulus Venetus en Beschryving der oostersche Lantschappen. Hieris noch by gevoegt de Reisen van Nicolaus Venetus en Ieronimus van St. Steven, Amsterdam 1664. La versione del Ramusio e quella portoghese sono state riproposte da P. Peragallo, Viaggio di G. da S. e di Geronimo Adorno in India nel 1494-99, in Bollettino della Società geografica italiana, s. 4, II (1901), 1, pp. 28-38. Nel 1905 M. Longhena pubblicò la relazione di G. (traendola dal ms. 4075 della Bibl. universitaria di Bologna) insieme con le versioni di Fernandes e di Ramusio: Il testo originale del viaggio di Girolamo Adorno e G. da S., in Biblioteca degli studi italiani di filologia indoiranica, V (1905), App. 3, pp. 1-56. Il testo del manoscritto bolognese è stato nuovamente pubblicato, ancora dal Longhena, Viaggi in Persia, India e Giava di Nicolò de' Conti, Girolamo Adorno e G. di S., in Viaggi e scoperte di navigatori ed esploratori italiani, VI, Milano 1929, pp. 215-240.
Con Siviglia, sede di una florida e potente comunità mercantile genovese, è connessa una notizia che potrebbe riferirsi a G.: Cristoforo Colombo, ammiraglio del Mare Oceano, in una lettera indirizzata da quella città all'amico Niccolò Oderigo, diplomatico della Repubblica di Genova, il 21 marzo 1502 invitava appunto "Girolamo di Santo Stefano", che l'Oderigo gli aveva evidentemente raccomandato, a presentarsi a lui al momento del suo arrivo a Siviglia, garantendogli il suo appoggio presso i sovrani.
Indubbiamente, un uomo che aveva acquisito una così profonda e diretta conoscenza dell'Estremo Oriente avrebbe potuto essere un collaboratore prezioso per l'ammiraglio, e la comune origine genovese avrebbe potuto rappresentare un ulteriore elemento di fiducia per Colombo, che solo pochi anni prima aveva dovuto imparare a proprie spese a diffidare di buona parte degli spagnoli (come pare del resto trasparire dalle parole contenute nella missiva di cui sopra), ma la mancanza di testimonianze documentarie ci impedisce di sapere se questa collaborazione ebbe modo di attuarsi.
Anche se appare non priva di valore l'ipotesi, avanzata da Peragallo, di un'identificazione di G. con quel "Geronimo" che, sempre in compagnia di Carvajal, compare come uomo di fiducia di Colombo, con incarichi anche presso la corte, in alcune missive indirizzate dall'ammiraglio al figlio Diego nel 1504-05, non abbiamo in realtà la possibilità di individuare con sicurezza notizie relativamente all'esistenza in vita e alle attività di G. posteriormente al marzo 1502 (se è G. il personaggio citato nella lettera di Colombo) o, addirittura, al settembre 1499 (limitandosi alle attestazioni certe, costituite dalla sua relazione).
Fonti e Bibl.: R.H. Major, India in the fifteenth century, London 1857, pp. 34 ss.; M.F. Navarrete, Colección de los viajes que los Españoles hicieron por mar deste fines del siglo XV, I, Madrid 1858, pp. 483-485, 496; II, ibid. 1859, p. 314; A. De Gubernatis, Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie Orientali, Livorno 1875, pp. 10, 82, 111 s.; P. Amat di San Filippo, Biografia dei viaggiatori italiani colla bibliografia delle loro opere, Roma 1882, pp. 206-209; A. Pesce, Intorno ad una lettera di G. di S. relativa ad un suo viaggio nell'India (1° settembre 1499), in Bollettino della Società geografica italiana, s. 5, XI (1922), pp. 281-288; L. Frati, Manoscritti italiani della Biblioteca universitaria di Bologna, in Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, XXVII, Firenze 1923, pp. 114 s. n. 1947; F. Surdich, Le fonti sul viaggio alle Indie di Gerolamo Adorno e G. di S., in La Berio, IX (1969), 1, pp. 31-88; Id., Gli esploratori genovesi del periodo medievale, in Miscellanea di storia delle esplorazioni, I, Genova 1975, pp. 28-32; R.S. Lopez, Nuove luci sugli italiani in Estremo Oriente prima di Colombo, in Id., Su e giù per la storia di Genova, Genova 1975, pp. 127 s.; Le Americhe annunciate, a cura di F. Surdich, Genova 1984, ad ind.; Repertorium fontium historiae Medii Aevi, V, p. 151.