DAL PORTICO, Girolamo
Nacque a Lucca il 29 apr. 1696 da Massimiliano ed Angela de' Nobili. Ebbe quattro fratelli maggiori dei quali Guglielmo fu in rapporti di parentela con Benedetto XIV, Giuseppe fu cavaliere di Malta, Ippolito divenne abate, mentre Francesco militò tra i gesuiti. Delle due sorelle, una fu monaca (suor Maria Speranza) e l'altra, Teresa, maritata, visse in fama di religiosissima. Appartenne dunque a una famiglia immersa nei contesti strutturali della pietà religiosa.
Della sua infanzia e prima giovinezza, accanto a notizie sulla sua educazione scolare quale la relativa agiatezza della famiglia poteva permettere, resta memoria della sua edificazione morale-religiosa: "fu scrupoloso in una età che non di rado diventa viziosa prima di conoscere cosa sia vizio", annoterà il suo biografo Carlantonio Erra (II, p. 298) poco dopo la sua morte.
Dopo aver frequentato a Lucca le congregazioni tenute dai religiosi della Madre di Dio dedicate alla Madonna della Neve, a quindici anni il D. si recò a Napoli dove seguì un noviziato nella Congregazione dei chierici della Madre di Dio con maestri come padre Antonio Fiola e padre Niccolao Marsili, maturando la decisione di abbracciare la vita religiosa non senza qualche opposizione da parte dei genitori. La sua aria, la sua modestia, le sue parole, il suo stesso silenzio, tutto ispirava devozione e fervore (così ancora l'Erra, II, p. 299). Nel corso del noviziato compose in latino, a modo di esercitazione, una storia della recente conquista del Napoletano per parte degli Austriaci rimasta inedita (Austriacae in Campaniam expeditionis liber unus:Martina, p. 468).
Il 12 luglio 1713 fece professione religiosa e poco dopo si recò a Roma per perfezionare i suoi studi. A causa della salute malferma che lo accompagnerà per tutta la vita (lo si ricorda alto, magro, volto e naso allungati, pallidissimo), ritornò ben presto a Lucca nella casa madre della Congregazione e quivi terminò gli studi teologici e fu ordinato sacerdote.
Fattosi notare per la sua pietà e per l'assiduità negli studi, a più riprese ricoprì incarichi nella Congregazione: fu prefetto dei giovani, vicerettore e, in tempi diversi, per due volte rettore della casa di Lucca (la seconda volta, poco prima di morire); per qualche tempo fu vicario generale della Congregazione e, nel 1747, il suo nome fu preso in considerazione nell'ambito delle candidature avanzate per la carica di generale della Congregazione stessa.
Oltreché adoperarsi intensamente nelle incombenze affidategli nell'interesse della Congregazione (lo si ricorda anche committente di alcuni quadri di Domenico Brugieri nella chiesa della casa di Lucca), il D. si applicò allo studio del diritto canonico e della storia ecclesiastica, insegnò filosofia e teologia scolastica nonché dogmatica morale in corsi per il clero di Lucca, fu esaminatore sinodale con gli arcivescovi di Lucca Bernardino Guinigi e Fabio di Colloredo, fu lettore di casi di coscienza ed aggregato alla Consulta per i negozi ecclesiastici in periodi in cui i motivi di controversia tra gerarchia ecclesiastica e governo della Repubblica di Lucca non mancavano. Fu anche predicatore assai seguito, capace di suscitare emozioni ed edificazioni negli ascoltatori (era amicissimo del grande predicatore lucchese, don Alessandro Santini), nonché ottimo conduttore di esercizi spirituali (si ricordano episodi in cui meditando sul giudizio universale faceva piangere i giovinetti ascoltatori).
Il D. fu autore, oltreché di lettere in latino e di parecchie scritture di vario argomento in dipendenza degli offici ricoperti e della sua azione di apostolato (rimane per esempio un suo corso per esercizi spirituali), di due impegnati trattati: L'uso delle maschere ne' sacerdoti in tempo di carnevale (Lucca 1738) e Gli amori tra le persone di sesso diverso disaminati co' principi della morale teologia. Per istruzione de' novelli confessori (ibid. 1751).
Nella prima delle due opere, dedicata all'arcivescovo Fabio di Colloredo, il D. prendeva posizione a proposito della questione se fosse stato lecito ai sacerdoti di girare pubblicamente in maschera e se per i sacerdoti che ciò facevano si fosse dovuto ipotizzare una colpa grave (peccato mortale) o una colpa lieve (peccato veniale). Il dibattito su tale questione era stato ampio, almeno a partire dal Cinquecento, a livello soprattutto di trattatisti di morale, ma anche a livello di prese di posizione di numerosi sinodi ecclesiastici. Una ampiezza di dibattito e di prese di posizione che testimonia dell'ampiezza del fenomeno dei sacerdoti che, con la copertura della maschera e del travestimento, partecipavano ai momenti ludici della vita dei laici (feste, carnevali, balli, pubblici divertimenti, rappresentazioni). Un fenomeno che si manifestava ancora nel Settecento (poi si sarebbe attenuato) in Italia anche a Roma), in Spagna e in Francia.
Della questione dell'uso della maschera da parte dei preti avevano dibattuto, dal Seicento, anche i probabilisti e gli esperti di casistica compresi non pochi esponenti della corrente del lassismo. Un estremista di questa corrente, il veneziano Marco Vidal, dei teatini, nel suo Arca Vitalis, in qua pretiostores theologiae moralis margaritae ex vastissimo tum Theologico, tum Canonico Oceano diligenter collectae recluduntur, seu inquisitiones theologicae morales casuum conscientiae (Venetiis 1650) aveva dedicato non poche pagine alla dimostrazione che non v'era peccato mortale per gli ecclesiastici secolari o regolari che si fossero travestiti e mascherati e ciò sia perché in proposito s'era andata formando una specie di tollerata consuetudine, sia perché maschera e travestimento conferivano l'incognito e quindi toglievano la possibilità di scandalo, e sia perché nessun canone lo vietava e non vi era assimibilità del mascherarsi all'abbandono dell'abito talare, questo sì colpito da esplicite censure.
A sostegno della convinzione che il portar maschera non fosse lecito ai sacerdoti e fosse colpa grave e a confutazione delle proposizioni del Vidal ed in generale di coloro che in materia erano per il permissivismo, il D. argomenta per pagine e pagine che l'emergere dello scandalo sarebbe stato sempre possibile in quanto un accidente qualsiasi avrebbe potuto disvelare il sacerdote sotto la maschera; argomenta che se era colpa grave portare per maschera abiti sacri, altrettanto doveva esserio il partecipare di persona consacrata, con altri abiti, alle mascherate; argomenta che !e era biasimevole il sacerdote che si vestiva m abiti secolari (e c'era una condanna in proposito del concilio di Trento) ancor di più doveva esserlo il sacerdote che si fosse mascherato. Il D. elencava poi i trattatisti di teologia morale che dalla metà del Quattrocento si erano occupati della questione concludendo per la maggior parte (tranne i teologi Leonardo Lessio, Martino Vivaldo e Marco Vidal) con la sentenza affermativa di peccato mortale a carico dei preti che pubblicamente se ne fossero andati mascherati o comunque travestiti. Altra ampia elencazione il D. dedicava ai vescovi e ai sinodi diocesani i quali, soprattutto nel Seicento, ma anche nel primo Settecento, si erano occupati della questione- comminando pene (dalla sospensione a divinis, alla multa, alla prigione, al bando) a quei sacerdoti che si fossero mascherati, che avessero partecipato a balli, a rappresentazioni e pubblici giochi; decisioni condannatorie confortate dal parere conforme della Congregazione del Concilio alla quale si erano appellati taluni dei sacerdoti colpiti dalle censure.
Imponente - più di 750 pagine - il trattato Gli amori tra le persone di sesso diverso... pubblicato nel 1751, poco prima che il D. venisse a morte. In una massa di capitoli sottodistinti in articoli e paragrafi, affrontava il tema dei rapporti amorosi tra persone di sesso diverso a seconda che questi rapporti fossero o non fossero finalizzati al matrimonio.
Le prese di posizione del D. andavano in direzione di un prudente rigorismo con la segnalazione dei pericoli di peccato insiti in ogni amoreggiamento che pur restando nei limiti del lecito, avesse creato di fatto condizioni favorevoli al superamento dei limiti stessi. Pericoloso, per esempio, l'amor platonico sotto il cui velo la società del suo tempo pretendeva talora di coprire le amicizie e i corteggi alla moda, ma che in concreto consentiva situazioni che potevano portare a peccaminosi effetti; condannabili gli amoreggiamenti tra giovani e fanciulle pur se coltivati con propositi innocenti in quanto potevano facilmente trascorrere nel peccato, vuoi "per la gran propensione inserita dalla natura nelle persone di un sesso verso quelle dell'altro", vuoi per la giovinezza stessa, vuoi per lo stato di celibato che non permetteva alla gioventù di poter "temperare l'ardore della concupiscenza coll'uso del santo matrimonio" ecc.
Gli amoreggiamenti, se troppo protratti nel tempo, non potevano, per il D., considerarsi leciti neppure se finalizzati al matrimonio. L'autore, in proposito, indicava modi, tempi e luoghi del parco conversare che, a suo avviso, poteva consentirsi prima di "conchiudere il parentado": quel tanto solo che fosse bastato a far sì che i due soggetti si conoscessero nelle rispettive qualità e nel rispettivo andarsi a genio. Anche la confidenza eccessiva (baci, abbracci ecc.) pur dopo gli sponsali (cioè dopo la conclusione dei patto matrimoniale) doveva ritenersi condannabile in quanto occasione di peccato e così pure la pura e semplice amicizia tra persone di sesso diverso laddove fosse arrivata ad eccessiva familiarità. In generale, occorreva infatti tener conto, secondo il D., che "proprietà generale dell'amore è di rapire da se stesso l'amante e di trasferirlo nell'amata e così l'amata nell'amante". Per questo, le tentazioni contro la castità andavano considerate le più pericolose di tutte e non si potevano vincere se non con la fuga.
Condannabili, per il D., i discorsi "aspersi di motti e di equivoci immodesti fatti per ostentazione d'ingegno"; le "occhiate fisse" e i cenni maliziosi; i comportamenti dei figli che si impegnavano al matrimonio senza aver chiesto autorizzazione ai genitori; i comportamenti dei mariti che non impedivano alle mogli di tenersi il favorito e quindi il costume del "cicisbeare" ovvero del "galantiare" tra dame maritate e cavalieri serventi e ciò non solo per l'occasione prossima di peccato mortale, ma anche per il cattivo esempio, lo scandalo dato da padri e madri ai figli, dai padroni alla servitù di casa, per lo scandalo pubblico in generale, per le gelosie, discordie, liti facili ad insorgere in tali situazioni.
Qualche problema poteva presentare il bacio fraterno che i cristiani dei primi tempi erano soliti scambiarsi in chiesa nell'ambito di certe cerimonie: si trattava di bacio scambiato tra persone di sesso diverso, ovvero tra persone del medesimo sesso? Il D., sulla scorta di un'ampia rassegna dell'antica letteratura sacra che aveva fatto cenno a quel tipo di bacio, concludeva che a scambiarselo, erano, in quei primi tempi, cristiani dello stesso sesso.
Rigoristiche erano le linee di condotta che il D. suggeriva ai confessori: non consentire il proseguimento degli amoreggiamenti pur se praticati con moderazione, eventualmente differendo e subordinando la concessione dell'assoluzione; ammonire i padri e le madri circa il loro obbligo di distogliere i figli dagli amori; esortare i superiori (ecclesiastici, padri, mariti, padroni, tutori) a correggere i loro sottoposti che si fossero messi in pericolo di peccare a causa di rapporti uomo-donna. Qualche riserva manifestava invece il D. nei confronti dell'eccessivo zelo di quei confessori che quando udivano parlare di amori chiudevano in faccia a giovinetti e giovinette la portella della grata del confessionale.
Il trattato, fittissimo di citazioni erudite e di rimandi agli autori che avevano precedentemente affrontato temi analoghi, ebbe, quasi appena pubblicato, una recensione nella Storia letteraria d'Italia di padre Francesco Antonio Zaccaria (III, Venezia 1752, pp. 141 ss.). Recensione favorevole nella quale si presentava il nome del D. come "conosciuto nella Repubblica dei dotti" e si lodava il suo coraggio per aver attaccato le dimestichezze anche solo di conversazione tra uomini e donne senza curarsi che i tempi avessero portato a considerare "impolito uomo e selvaggio" colui che contro tale moda si fosse dichiarato. Si approvava la scelta del D. di usare per l'esposizione il volgare per farsi capire da tutti, riservando però il latino a quei passi che, dati gli argomenti esposti, avrebbero potuto offendere l'ingenuo pudore di lettori impreparati. Curiosamente si concludeva: "a noi pare di vedere il bel sesso contro questo libro, fatale all'amoroso suo regno, tutto in rivolta dei più lusinghieri vezzi armato per trarlo di mano a' piacevoli e graziosi uomini, ma questa è pure la lode che alla dottrina forza e chiarezza con che scritto è il libro possa per noi maggior darsi e al meri to dell'autore suo più convenevole".
Poco dopo che - Gli amori tra persone di sesso diverso... era stato pubblicato, il D., che nel 1752 per la seconda volta, pur avendo richiesto sgravio, era stato nominato rettore della casa di Lucca, si ammalò "d'infiammo" al fegato e in cinque giorni venne santamente a morte il 15 nov. 1752. Subito si verificò che si facesse ricerca dei suoi indumenti e della sua disciplina da conservare come reliquie.
Bibl.: A. F. Zaccaria, Storia lett. d'Italia, III, Venezia 1752, pp. 141 ss.; C. Erra, Mem. de' religiosi per pietà e dottrina insigni della Congreg. della Madre di Dio …, II, Roma 1760, pp. 298-310; G. Martina, Una testimonianza sul clero ital. nel Settecento, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XV (1961), pp. 467-480.