DIEDO, Girolamo
Primogenito dei cinque figli maschi di Andrea di Girolamo, del ramo a S. Fosca, e di Laura Raimondi, figlia naturale di Giovanni Antonio di Fantino, nacque a Venezia il 4 nov. 1535. La famiglia disponeva di esigue fortune: il padre era un "barnaboto" che tuttavia, dopo aver consumato la vita nei rettorati minori della Terraferma, dell'Istria e della Dalmazia, giunse in età avanzata ad essere eletto provveditore sopra i Beni inculti ed a far parte del Senato.
Poco sappiamo della giovinezza del D.: le fonti (anzitutto l'Atanagi, che nel 1565 pubblicò alcuni suoi componimenti) lo presentano come "dotto, et di bello spirito", ed è lui stesso a ricordarci, nella prefazione alla Anatomia celeste, dedicata al celebre matematico fiorentino Francesco Giuntini, come fosse stato proprio costui, dimorando a Venezia nel 1559, ad instillargli l'amore per l'astronomia. Dunque, nonostante la debolezza economica della numerosa famiglia, il D. riuscì a provvedersi di una notevole cultura, che spaziava dalle lettere alle scienze.
Raggiunta la maggiore età, intraprese la carriera politica come ufficiale alla "tavola" dell'Entrada, dal 1º dic. 1561 al 31 marzo '63; dopo di che non risulta aver ricoperto alcuna carica per i successivi sei anni.
Potrebbe essersi imbarcato: la già ricordata raccolta di rime promossa dall'Atanagi ospita cinque suoi sonetti, di ispirazione petrarchesca, nei quali si piange la morte - avvenuta nel 1562 - del celebre comandante della flotta Cristoforo Canal; senonché dell'estinto il D. esalta non solo le virtù militari, ma anche la capacità poetica ("Morto è il Canale, anzi la Musa è morta; / Che con le sue rime faconde, / Fè le sirene uscir de l'acque immonde, / Per dolor d'esser vinte; ognuna smorta..."), e quindi potrebbe trattarsi niente più che del semplice esercizio poetico di un giovane desideroso di porsi in luce, approfittando di un evento che aveva suscitato viva impressione tra i suoi concittadini.
Dal 22 ott. 1569 il D. fece quindi parte, per un anno, del Collegio dei dodici (una magistratura che aveva competenze giudiziarie), quindi fu eletto consigliere a Corfù, dal 13 giugno 1571 al 12 giugno '73: la stessa carica che aveva ricoperto il padre tre anni prima, mentre il fratello Vincenzo aveva da poco terminato quella di castellano, nel capoluogo dell'isola.
Il D. doveva quindi conoscere bene la realtà che lo aspettava e soprattutto la gravità degli impegni ai quali andava incontro: la Repubblica si trovava allora in guerra con la Porta, che le aveva strappato Cipro, e la flotta del sultano Selīm minacciava da vicino le Isole ionie, nel tentativo di scardinare il dispositivo militare che assicurava a Venezia l'ingresso nell'Adriatico; né il battesimo del fuoco si fece attendere a lungo: il D. era giunto da poco a Corfù, allorché dovette sostenere uno sbarco turco, che però fu respinto. Così, quando successe la battaglia di Lepanto, o delle Curzolari, il 7 ott. '71, il D. si trovava in una posizione privilegiata per raccogliere il maggior numero possibile di dati e notizie. Doveva inoltre aver già raggiunto una certa notorietà come uomo di lettere, se il 31 dicembre, per esortazione del provveditore dell'isola, Francesco Corner, inviava al bailo a Costantinopoli, Marcantonio Barbaro, una lunga dettagliata relazione, in forma di lettera, delle vicende intercorse dall'arrivo a Corfù della flotta cristiana sino alla clamorosa vittoria.
Il racconto è minuzioso, e rivela nell'autore una intelligenza disposta più all'analisi che alla sintesi; tuttavia l'importanza degli avvenimenti descritti, la sensibilità dimostrata nell'accomunare vincitori e vinti alla luce di una superiore pietà (e la stessa commozione si avverte nella celebre Orazione funebre del Paruta, dove l'orrore del massacro compiuto relega in secondo piano l'abituale odio per il "barbaro" nemico), l'eleganza infine dello stile, sempre molto sostenuto, ancorché al gusto moderno possa qua e là apparire lezioso, decretarono il successo dello scritto, primo di una lunga serie di descrizioni, celebrazioni, rievocazioni della battaglia, che per anni mobilitarono i letterati di tutta Italia. L'epistola del D. fu dunque più volte stampata, talora con qualche modifica apportata dallo stesso autore: l'ultima ebbe luogo nell'edizione del 1613 pubblicata da Evangelista Deuchino, che nella prefazione ricorda come il D. abbia voluto rivedere un'opera vecchia ormai di quarantadue anni, "et aggiungerle alcune poche cose".
Tornato in patria, il D. alternò l'esercizio delle Quarantie a magistrature per lo più di natura finanziaria (il 13 genn. 1577 fu eletto ufficiale alla Camera degli imprestidi, il 12 luglio '83 savio alle Decime, il 18 nov. '84 giudice del Proprio, il 3 apr. '87 entrò a far parte dei Venticinque tansadori), mentre si consolidava la sua fama come uomo di lettere e studioso di scienze. Si spiega forse in tal modo il deciso salto di qualità che la sua carriera politica conobbe nell'ultimo scorcio del secolo: abbandonate le cariche giudiziarie minori, egli ottenne quelle più prestigiose ed importanti.
Proprio l'esame comparato, tipologico e cronologico, di queste magistrature solleva ogni dubbio che sia stato proprio il D. a ricoprirle, nonostante la presenza di un omonimo - il cugino Girolamo di Lorenzo, 1569-1619, pure del ramo a S. Fosca, al quale il Barbaro, con evidente confusione, attribuisce i titoli di scrittore ed astrologo - e nonostante troppo spesso, in questi anni, i registri del Segretario alle Voci non riportino l'indicazione del padre.
Sopraprovveditore alla Giustizia nuova nel 1590, il D. fu poi giudice del banco Pisani-Tiepolo per i primi nove mesi del '91, quindi divenne provveditore alla Giustizia vecchia, dall'ottobre '91 al settembre '92, dopo di che passò provveditore sopra le Scansazion delle spese superflue fino al gennaio '93.
Si colloca in tale anno (la data in cui il D. si sottoscrive è il 10 aprile) la pubblicazione de L'anatomia celeste, grossa opera dedicata - come si è detto - al Giuntini, ma scritta per consiglio del veronese Annibale Raimondo e del friulano Giovanni Strassoldo; essa vuol essere una sorta di strumento per misurare le "case", o parti della figura celeste; vi si ragiona dello zodiaco, della divisione delle ore diurne e notturne, della congiunzione delle stelle erranti; di particolare interesse un'appendice contenente la Raccolta di tutte le principali tavole astronomiche, seguita da tabelle di proporzioni ed altre per calcolare l'altezza della stella polare. Non mancano accenni e simboli di tipo cabalistico, a testimonianza della non facile distinzione che allora passava tra scienze esatte ed occulte e del fascino che queste ultime esercitarono anche in uomini di vasta cultura.
Assai curata la forma, ed in particolare il lessico, nonostante la pignoleria dell'autore lo porti a scusarsi di non aver rispettato sino in fondo la "buona favella toscana", secondo i dettami di Diomede Borghesi.
Scopo dichiarato dell'opera, acquistarsi una fama che riesca di decoro alla Repubblica, dalla quale soltanto spera sollievo per la propria "dubbiosa fortuna" (ed in effetti la dichiarazione di decima compilata dal D., congiuntamente ai fratelli, nel 1582, attribuisce loro la proprietà di una decina di immobili a Venezia, più una cinquantina di campi fra il Trevigiano e il Padovano, per una rendita complessiva di 242 ducati annui).
Senonché, nella seconda parte dello scritto - che peraltro risulta incompleto rispetto al disegno previsto - l'autore si scusa di dover interromperne la stesura "per dovere io stare occupato in un carico faticoso, novellamente havuto, che mi leverà quasi affatto il tempo di potere attendere ad altra cosa". Il riferimento è alla nomina di provveditore sopra i Beni inculti, la magistratura di recente istituzione alla quale era appoggiata la grande imprese delle bonifiche, e che il D. ricoprì dall'agosto del '93 alla fine del luglio '95: ancora una volta, dunque, di fronte alla scelta tra pubblico servizio e cultura, tra la carriera politica e l'otium letterario, un veneziano optava per l'esercizio dell'attività assembleare, sulla scia di un'ormai lunga e consolidata tradizione che conobbe solo poche eccezioni.
Ed in effetti - tranne qualche componimento di breve respiro, tra i quali va ricordato un sonetto in lode del doge Leonardo Donà, che lo dimostra scrittore dotato di notevole forza polemica, con profonde convinzioni politiche e religiose - le energie del D. furono da allora assorbite quasi esclusivamente dalla politica, in un fitto succedersi di nomine alle primarie cariche dello Stato: procuratore sopra gli atti del Sovragastaldo dal novembre 1595 al marzo '96, poi giudice del Procurator, quindi savio alle Beccarie (ottobre '97-giugno '98), provveditor agli Ori e Monete (20 giugno '98-19 giugno '99), provveditore alle Fortezze (ottobre '99 -settembre del 1600), provveditore sopra Ogli (16 dic. 1600-15 dic. 1601), senatore ordinario nel 1601 e 1602, conservatore delle Leggi dal 24 maggio 1602, per un anno; quindi regolatore alla Scrittura (8 ott. 1603-7 ott. 1605), ancora provveditore alle Fortezze dall'ottobre 1605 al settembre 1606, poi sopraprovveditore alle Pompe fino al settembre 1607, allorché entrò a far parte del Consiglio dei dieci; ed infine, negli ultimi anni di vita, depositario in Zecca, provveditore sopra Feudi (1609), provveditore alle Artiglierie (15 ott. 1611- 31 marzo 1612), savio alle Acque (5 apr. 1612- 4 apr. 1614).
Morì a Venezia, il 2 ag. 1615, mentre ricopriva l'incarico di revisore e regolatore delle Entrate pubbliche.
Per quanto concerne la produzione letteraria del D., i sonetti per la morte di Cristoforo Canal sono nella raccolta promossa da D. Atanagi, De le rime di diversi nobili poeti toscani…, II, Venetia 1565, pp. 205 s.; la versione originale dell'epistola al Barbaro, in Lettera tolta dal secondo libro delle Lettere di prencipi stampate in Vinegia nell'anno MDLXXV nelle quali è particolarmente descritta la battaglia navale seguita a' Curzolari l'anno 1571, Vinegia 1575; per l'edizione del Deuchino, G. Diedo, Lettera ... all'ill.mo sig. Marc'Antonio Barbaro..., Venetia 1613; l'opera di astronomia, in G. Diedo, L'anatomia celeste, Venetia 1593; il sonetto per il doge Leonardo Donà, in Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 3231, fasc. 1945, c. 67 v.
Fonti e Bibl.: Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti…, I, c. 244r; Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd. I, St. veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de'patritii, III, p. 217; Ibid., Avogaria di Comun. Indice Libro d'oro nascite, sub voce; Ibid., Dieci savi alle decime. Redecima del 1582, b. 164/939; Ibid., Segretario alle Voci. Elez. Maggior Consiglio, reg. 3, c. 60; reg. 4, cc. 168, 208; reg. 5, cc. 75, 82, 188; reg. 7, c. 11; reg. 8, cc. 9, 61; ibid., Elez. Pregadi, reg. 5, c. 169; reg. 6, cc. 32, 34, 40, 58, 70, 76, 85, 89, 114, 117, 121, 144, 147, 157; reg. 7, cc. 26, 31, 59, 73, 94; reg. 8, cc. 33, 76, 84, 95, 100; reg. 9, cc. 44, 88, 100, 102; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, cod. 830 (= 8909): Consegi, ad dies 12 luglio 1583 e 18 nov. 1584.
Cfr. inoltre: P. A. Zeno, Memoria de' scrittori veneti patritii..., Venetia 1662, pp. 41 s.; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare..., Venetia 1663, pp. 618, 635; A. Morosini, Historiarum Venetiarum..., in Degl'istorici delle cose veneziane, VI, Venezia 1719, p. 411; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante..., II, Venezia 1735, p. 240; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, Venezia 1827, pp. 19, 295, 367; M. Foscarini, Della letteratura veneziana..., Venezia 1854, p. 337; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Firenze 1958, pp. 71 s.; G. Lucchetta, L'Oriente mediterraneo nella cultura di Venezia tra il Quattro e il Cinquecento, in Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 398; Trattati scientifici nel Veneto fra il XV e XVI secolo, a cura di E. Riondato, Vicenza 1985, p. 34; Biogr. univ. antica e moderna..., XV, p. 398; G. Mazzatinti, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d'Italia, LV, p. 125.