DONÀ (Donati, Donato), Girolamo
Appartenente al ramo "dalle Rose" della nobile famiglia veneziana, nacque da Antonio di Andrea e da Lucia di Bernardo Balbi prima del 1457: aveva infatti diciotto anni compiuti quando il padre lo presentò agli avogadori di Comun il 27 nov. 1474.
Di lui puer lasciò un rapido ritratto l'Egnazio, che rileva il suo amore per l'otium e la musica, ma soprattutto quel tono di amabile gentilezza che anche in seguito molti gli riconobbero: "Otii in primis amans habitus est, quippe qui et domi saepe cantaret et aviculis, si forte in illas incurrisset, sese oblectaret".
Apprese il greco sulle traduzioni latine di Teodoro Gaza, secondo un metodo seguito da tanti suoi illustri contemporanei, il Poliziano ad esempio, Ermolao Barbaro, Giovanni Pico; si laureò in artibus presso lo Studio di Padova il 16giugno 1478; l'anno seguente sposò Maria Gradenigo di Alvise: il Barbaro gli fu compare d'anello, mentre Galeazzo Facino Pontico, con distici latini, commentava alquanto sarcasticamente il "puellare iugum" che calava in quei giorni anche su Nicoletto Vernia. Gli nacquero undici figli, tra cui due, Agostino e Filippo, futuri vescovi della Canea.
Dagli Acta graduum dello Studio, dai versi del Facino, dai Carmina che egli stesso compose in una specie di contrasto con Girolamo Ramusio, emerge la schiera dei maestri e dei sodales patavini che animarono il suo corso di studi (appaiono, tra gli altri, i nomi di Niccolò Lippomano, Sebastiano Priuli, Marco Dandolo, Giovanni Chiericati, Alvise Angelieri, Bernardino Grassi, Girolamo da Villa, Gregorio da Faenza "de Zuchulis", Dionigi "de Franciscis").
I Carmina, di vario metro, si cimentano negli argomenti più dissonanti, dall'obscenitas più cruda all'esaltazione della dignitas hominis e dell'otium; echeggiano Properzio ed Orazio, onorano il Petrarca e ricordano i comuni amici, come G. Antonio Flaminio e Giovanni Pico, il cui arrivo a Padova viene salutato con un attacco virgiliano: "Quis novus hic hospes?". Il contrasto, già compiuto il 10 maggio 1481, fu raccolto in un "libellus" che, "incultus, deformis et male pexus" (Firenze, Bibl. Laurenziana, Laur. Strozzi. 143), venne inviato al conte della Mirandola.
Il medico bergamasco lacopo Tiraboschi, nei suoi Carmina (Bergamo, Bibl. civ., Lambda III, 15), celebra il giovane D. per gli studi di astronomia, le elegie e la vena satirica degna - egli dice - di Lucilio, Persio e Giovenale, alludendo forse ad opere di argomento scientifico e a satire che, in ogni caso, ora sono perdute; mentre ai suoi interessi filosofici accennano Elia Delmedigo (Elia Cretensis) e il Facino: questi, ritraendolo, oltre che come esperto di diritto civile e canonico, "naturaeque aditus et implicatas / causas atque elementa ruminantem"; l'altro, ricordando una sua pubblica dissertazione presso lo Studio sulla Quaestio de primo Motore, allora dibattutissima, anche da Elia. Infine, nel 1480, il Barbaro gli dedicò la versione latina del De somno di Temistio e nel medesimo anno, a Venezia, il D., come ricorderà in un'epistola più tarda "Ego vero, Politiane ..."), incontrò ed ascoltò il Poliziano che recitava l'ode Ad Gentilem, "de sacrilega ac sanguinaria Iuliani caede".
Già si profilano dunque, da questo elenco, le amicizie e gli interessi culturali della sua vita. Nello studio filosofico si affiancò al Barbaro, che avviava in quel momento un programma di traduzioni integrali dei primi commentatori greci di Aristotele, promuovendo insieme il rinnovamento del linguaggio filosofico, contro i filosofimoderni "plebei" e "lignei", che avevano indurito a tal punto l'espressione da distruggere l'antico connubio tra filosofia ed eloquenza. L'incontro con il Pico e il Poliziano segnò inoltre l'inizio di un contatto con l'ambiente umanistico toscano che forse rinvigori in lui l'interesse per la patristica greca, in specie per il platonico Dionigi.
Presto ebbe inizio l'attività pubblica: savio di Terraferma nel 1482 secondo il Degli Agostini, che sembra seguire le Memorie di Pietro Gradenigo (ma è notizia che non trova per ora conferma nei documenti coevi), il 18 sett. 1483 fu eletto orator itineris di Renato duca di Lorena che, già accolto in Italia dal Barbaro, ora ritornava in Francia; il 24 febbr. 1484 fu tra gli auditores veteres sententiarum; non pare invece aver avuto seguito effettivo la nomina di oratore a Genova registrata nei Senato. Mar (reg. 12, c. 19v) il 27-30 ag. 1484 (nel novembre dello stesso anno fu eletto oratore a Genova Giorgio Pisani).
Nonostante le cure politiche di cui cominciò a lamentare il peso, il D. non abbandonò lo studio del greco; lesse il Rusticus del Poliziano e con questi, per i buoni uffici del Pico, entrò in corrispondenza. Il Poliziano gli inviò un lungo elogio da Firenze, celebrando il D., il Barbaro e il Pico come "triuniviri litterarii". Ma il D. si dichiarava ormai disperatamente strappato alla società delle lettere, in una Venezia ammorbata e inquieta, quasi nave risospinta da onde tumultuose che spazzano via ogni conforto di otium (epistola al Pico, dell'8 giugno 1485).
In una notte dell'agosto 1485, al largo del Capo Vincenzo, "il nipote del Collombo capitan de la maestà del re de Franza" depredava alcune galere veneziane; Giovanni II re del Portogallo porse aiuto diplomatico alla Serenissima e il Senato, per ringraziarlo, il 10 marzo 1486 elesse oratore il D., imponendogli, con la commissio del 15 luglio, di trattenersi anche in Spagna, presso re Ferdinando, insieme con il segretario Marco Beaziano.
Forse in questa legazione, che si protrasse almeno fino al gennaio 1487, il D. pronunciò quell'Oratio ad regem Lusitaniae ricordatadal Tritemio, ma oggi perduta.
Probabilmente durante questo viaggio ricopiò quell'iscrizione antica di Alcántara, che l'anonimo disegnatore e raccoglitore di epigrafi del codice Chlumczansky di Praga dichiara di conoscere "a viro excellenti H. Donato": certo cominciò a manifestarsi in lui una certa "mania" antiquaria, che avrà modo di soddisfarsi particolarmente durante il soggiorno ravennate; altre due epigrafi trascritte dal D. sono ricordate dal Degli Agostini, che le trae dal codice Foscarini 280, ora a Vienna, Nationalbibl., cod. 5667 (CIL, V, 1, 2937; XI, 1, 1379).
A Venezia, nell'autunno 1487, il D. appare portavoce dell'"affectione" della Serenissima nei confronti di Lorenzo de' Medici che, tramite anche il cardinale Marco Barbo, tentava di saggiare le intenzioni della Repubblica nel clima di tensione provocato dal conflitto tra Roma e Napoli (Collegio. Lett. segr., 1486-89, c. 214), partecipando nel frattempo a quelle dotte riunioni con il Barbaro, Marco Dandolo, Sebastiano Priuli, Benedetto Brugnoli, che affascinarono G. Battista Guarino allora a Venezia, al seguito di Alfonso d'Este (M. A. Sabellico, De latinae linguae reparatione, in Opera omnia, Basileae 1560, IV, p. 322).
Ma soprattutto, in questi anni ancora giovanili, con una scelta che lo distingue nettamente nell'ambiente culturale veneto e lo avvicina piuttosto alla tradizione fiorentina (del Traversari, ad esempio, e del Ficino), il D. traduce in latino le Epistole (Vat. lat. 2934) e il De divinis nominibus (versione ora perduta) di Dionigi l'Areopagita. Ci resta anche la versione latina di alcuni passi - soprattutto dal De fide orthodoxa - di Giovanni Damasceno, dedicata a Filippa, zia di Giovanni II di Portogallo (ancora inedita; Bergamo, Bibl. civ., Delta V, 29; Cremona, Bibl. gov., cod. 10683).
Quasi ripercorrendo le orme del Barbaro, il D. fu eletto il 24 giugno 1488 oratore a Massimiliano, appena liberato dalla prigionia di Bruges, e il 26 febbr. 1489 ambasciatore a Milano, dove giunse verso la metà di aprile.
Era il tempo della lotta tra il papa e re Ferrante: Venezia offriva di continuo la sua mediazione, ma se cercava di condizionare la annunciata discesa di Massimiliano (si veda la lettera del Senato al D., in Sen. Secr., 8 genn. 1490), non si opponeva chiaramente all'ingerenza francese, sempre professando pubblicamente la sua fedeltà al papa. Senza entrare in conflitto con il Moro, la Serenissima cercava di controllarne e moderarne gli eventuali maneggi antiromani, che si inasprivano anche per la situazione della Romagna; infatti, durante tutto il 1489, il Collegio, allarmato per i disordini suscitati da Galeotto della Mirandola sostenuto da Milano, invitava continuamente lo Sforza, tramite il D., a garantire "la pace e la quiete d'Italia". In questo tempo di attesa e di delicata neutralità, destreggiandosi tra questioni sorte dall'attribuzione di beni ecclesiastici e dai movimenti in Faenza, placando le proteste antiveneziane di Genova presso il Moro e avvicinando al contempo l'oratore di Napoli Simonotto Belprato, il D. riesce ad infittire i suoi incontri culturali e ad avviare opere nuove.
Poco prima della sua partenza da Venezia, il 15 marzo 1489, Raffaele Regio aveva dedicato a lui, a Marco Dandolo e a Paolo Pisani il De quattuor Quintiliani locis ... dialogus; ora, a Milano, ricevette da Roberto Salviati l'Heptaplus del Pico, lesse la prima Centuria dei Miscellanea del Poliziano e la emendò con il Calco, l'Antiquario e il Volterrano, confortando intanto l'autore, attaccato da più parti, con le parole di Pindaro (Pyth. I, 85): "Meglio l'invidia che la commiserazione". Antonio Pelotti agevolò un suo incontro epistolare col Ficino che gli scrisse da Firenze, annunciandogli il prossimo arrivo a Milano di Francesco e Niccolò Valori; quasi a ribadire questi rapporti con la Toscana, resta un'epistola di Ugolino Verino che prega Iacopo Antiquario di presentare al D. la sua Carleide. Con il "contubernalis" Facino il D. frequentò anche altri dotti della corte, come Giovanni Crastoni, già devoto a Ludovico Donà, e Niccolò Seratico; fu lodato da Lancinio Curti nelle Sylvae e negli Epigrammata, da Bernardo Bellincioni nella rappresentazione Il Paradiso; mentre Stefano Dolcigni, in calce all'edizione degli Astronomica di Manilio (Milano 1489), lo ricorda come "Orpliaca argutior cithara" e come esempio di felice connubio tra prestigio politico e impegno culturale. Più sospettoso dinanzi a questa alleanza tra le Muse e i palazzi sembra invece l'Antiquario, che esprime le sue riserve al Poliziano ("Pudoreni nuper ...", 17 dic. 1489): il Barbaro e il D. sono gli "idonei", i chiamati a quella cultura che egli si limita ad adorare "procul limen"; ma si intravedono in essi, e soprattutto nel D., le brame ambiziose di una classe politica che aspira, anche mediante l'eccellenza culturale, al dominio d'Italia. L'epistola, che trova nel destinatario un lettore più accomodante, si dilaterà, al tempo di Agnadello, in una feroce invettiva antiveneziana, provocando una risentita risposta del Donà. Altre notizie sul suo soggiorno milanese si traggono dall'epistolario di Iacopo Gherardi, il quale si fa trascrivere la versione del Damasceno e gli invia un esemplare di Celso, chiedendogli in cambio i versi (ora perduti) composti per un dipinto della Vergine a Castellazzo.
A Milano il D. avviò la versione latina del primo libro del De anima di Alessandro d'Afrodisia. Anche il Poliziano, nel 1489, aveva tradotto "Alexandri huius peracutas in philosophia quaestiones" e ora, nell'aprile 1490 a Firenze, mentre attendeva il manoscritto greco di Alessandro già procurato al D. da Domenico Grimani, cercava per lui altri esemplari, più corretti e completi, dei De anima libri.
A Padova si discuteva sul problema dell'unità dell'intelletto e dell'immortalità dell'amma, citando Aristotele e i suoi commentatori, anche quelli che apparivano generalmente in netto contrasto con la dottrina cristiana, come Averroè e, per l'appunto, Alessandro; erano dispute accese e frequenti, tanto che il vescovo della città, Pietro Barozzi, vedendo in pericolo il dogma cristiano, ma anche la condotta morale dei maestri e dei loro seguaci, con il decreto del 4 maggio 1489 proibi ulteriori dispute pubbliche su tali argomenti. La versione del D. nasceva dunque in un momento particolarmente delicato, ma in un luogo un poco discosto, Milano, che temperava gli echi della polemica patavina. Vari sono gli intenti che il traduttore espone nella Praefatio: orientare le discussioni su testi completi e corretti; rivalutare in giusta prospettiva storica il privilegio fino ad allora concesso, tra tutti i commentatori di Aristotele, ad Averroè; restituire proprietà e chiarezza al linguaggio filosofico. Sigillando la sua totale adesione al programma del Barbaro, il D. sembra citare a questo punto un'epistola dell'amico (epist. LXXII, ad Arnaldo di Bost), ma sembra anche entrare in leggera polemica con lui, troppo sensibile forse all'eleganza formale da cadere spesso nell'oscurità, quando dichiara di aver condotto la propria versione tinaiore interpretationis fide quani eloquentiae ambitu".
Applicando il nuovo metodo filologico a quei testi che più venivano consultati nell'ambiente universitario di Padova, il Barbaro e il D. sembrano indubbiamente accentuare il carattere particolare dell'umanesimo veneto, più incline, come spesso si è osservato, alla filosofia naturale e alla metafisica aristotelica di quanto non fosse, ad esempio, l'ambiente fiorentino. Ma anche il Pico e il Poliziano affrontavano in quel momento lo studio dell'Afrodisiense, e lo stesso D., definito dal Becichemo "platonicus nostrae aetatis", con le ricordate traduzioni di Dionigi riconferma una coincidenza di interessi e di metodo tra Firenze e Venezia.
La versione del De anima I (conservata da due manoscritti, il Vat. lat. 4535 e il codice di Stoccolma, Thomson A I, quest'ultimo trascritto "in amplissimo lare ... Dominici Grimani ... XII kalen. Februarias 1491"), ancora prima di uscire alle stampe nel 1495, fu consultata da Nicoletto Vernia e Agostino Nifo. Continuò ad essere stampata anche dopo l'edizione greca di Alessandro - curata dal Trincavelli per l'Accademia Aldina (1534) sullo stesso codice, pare, usato dal D. (Bruns) - e conobbe nei seguenti cinquant'anni una decina di edizioni. Inoltre il Vernia nel De unitate intellectus (1492 circa) cita anche alcuni brani dal De intellectu (parte del De anima II) di Alessandro, nella versione latina, egli dice, eseguita anch'essa dal D.: di quest'altra traduzione si conoscono per ora solo i passi trasmessi dal Vernia e non si hanno altre notizie (si vedano per tutta la questione Cranz e Mahoney).
Il D. fu richiamato a Venezia il 10 marzo 1490, ma si trattenne a Milano fino agli ultimi giorni di giugno, quando Ludovico il Moro accompagnò la sua partenza con un lungo elogio. Fin qui nessun particolare evento aveva disturbato la sua fortunata carriera diplomatica. Ma, il 6 marzo 1491, Ermolao Barbaro, oratore in Roma, venne nominato da Innocenzo VIII patriarca d'Aquileia; e poiché le "sanctissime leze" della Serenissima proibivano agli oratori "in corte de Ronia" di chiedere e accettare benefici per sé o per i familiari, il Senato, in grande allarme, elesse oratore sostituto il D., esponendogli con la commissio del 27 aprile il difficile compito di mediazione: bisognava convincere il papa a ritirare la nomina e impedire l'"audaze transgression" al "nobel homo Almorò", riconducendolo in patria.
Nonostante l'intervento dell'amico, il Barbaro accettò il titolo, ritirandosi definitivamente all'ombra della Chiesa. Il Senato approvò comunque la condotta del D. e il nome del nuovo patriarca scomparve nelle istruzioni inviate al nuovo ambasciatore. che rimase a Roma almeno fino alla fine del maggio 1492, quando vi giunse successore Andrea Cappello. Dopo la nomina che, "felix calamitas", gli permise di vivere "hilaris, liber, litteris", il Barbaro non accennò mai più al D.; eppure li ricorda insieme Battista Fiera ("quos duni Romae essemus et ipse tuni lectione tum operatione medica maererer saepissime obtundebam"), riferendosi a questo comune soggiorno romano; e subito dopo la morte di Ermolao (luglio 1493), il D., allora podestà a Ravenna, scrisse a Marco Dandolo un'epistola (ora perduta), lamentando la scomparsa del comune amico.
D'allora in poi il D. infitti la sua attività pubblica, orientando anche i suoi scritti secondo un più preciso e manifesto impegno politico. Intanto a Roma segui gli ultimi e definitivi accordi tra il papa e re Ferrante, cercando di rassicurare Innocenzo VIII e il sospettoso Giuliano Della Rovere, cardinale di S. Pietro in Vincoli, sulla condotta di Venezia; per ordine della Signoria, invitò Gabriele Zerbi a ricoprire la cattedra di medicina a Padova; ma, anche, cercava conforto e vigore nella musica, "fere typus animi nostri", che -come scrisse a Lorenzo de' Medici per ringraziarlo di un ampio volume di musica di Enrico Isaac - "torpores ignavissimos tollit, severiores curas mitigat, expellit sordidas".
Ancora a Venezia, M. A. Sabellico gli aveva dedicato i De Venetae urbis situ libri, perché l'immagine della sua città potesse consolarlo durante l'imminente soggiorno romano, e Gasparino Borro, servita, il commento alla Sfera del Sacrobosco, come tributo alla sua fama politica e culturale, ma anche - aggiungeva il Borro - alla benevolenza di cui egli e la sua famiglia, da generazioni, onoravano l'Ordine dei servi. Infatti il D. fu procuratore della chiesa di S. Maria dei Servi a Venezia, come si legge in un'epigrafe scolpita a memoria del giorno della consacrazione (7 nov. 1491) sul portale maggiore ancor oggi superstite nei pressi di S. Fosca, a Cannaregio. Qui depose la reliquia della Croce donatagli da Innocenzo VIII, incaricando Andrea Briosco, "il Riccio", di ornarne l'altare con rilievi bronzei raffiguranti appunto le Storie della Croce (la reliquia, conservata in una bella teca di diaspro, si può vedere ora in S. Maria dei Frari, mentre i rilievi del Riccio si trovano presso la galleria Franchetti della Ca' d'oro, sempre a Venezia). Ai Servi erano sepolti gli avi del D., Bartolomeo procuratore di S. Marco, il nonno Andrea, ambasciatore al concilio di Basilea e duca di Candia, il padre Antonio; la sepoltura di famiglia è ricordata anche in una pergamena (Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Fondo Donà, cod. 495), con la concessione di indulgenze per il D., ambasciatore in Roma, e i suoi familiari, accordate, se vale la lettura dello stemma alquanto sbiadito, da Alessandro VI.
Il 16 sett. 1492 il D. entrò podestà e capitano a Ravenna, dove lo accompagnò il Facino, maestro del figlio Agostino.
Qui trafugò, al dire di Girolamo Rossi, una statua equestre di marmo raffigurante Attila, destando lo sdegno dello storico ravennate che lamenta la rapacità dei reggitori veneziani. Ma, a Ravenna, resta anche testimonianza dell'opportunità e giustizia dei suoi provvedimenti, come il restauro del palazzo podestarile o l'editto in elegante latino contro le frodi dei mugnai fatto scolpire sul mulino di S. Mama. S'interessò inoltre alla conservazione dell'Herculeshorarius, una ineridiana sostenuta da una statua di Ercole, posta a sua volta sopra una colonna e chiamata volgarmente "Conca in collo", ora ridotta in pochi frammenti. Inoltre, informa il Sanuto (La spedizione di Carlo VIII in Italia, a cura di R. Fulin, Venezia 1873, p. 72), avviò le fortificazioni della città, meritando in conclusione le lodi di Lidio Catto che lo celebra negli Opuscula (Venetiis 1502, cc. K 1 v ss., N vii v).Ancora a Ravenna il 25 sett. 1494, il 28 il D. fu avogador di Comun e il 15 marzo 1495 fu eletto podestà di Brescia. Ritornavano allora dalle regioni meridionali d'Italia le truppe di Carlo VIII e proprio il giorno della battaglia di Fornovo (6 luglio) il D. assunse ufficialmente la sua pretura che, in seguito, dovette essere abbastanza tranquilla da permettergli di accudire alla pubblicazione di alcuni suoi scritti.
Mentre si affaccendava per l'intercettazione delle lettere del re di Francia e, anche qui, per il restauro del castello, il 13 sett. 1495, con i tipi di Bernardino Misinta, pubblicò la versione del De anima di Alessandro, inviandola subito a Pietro Bembo il quale, a sua volta, da Venezia, gli mandò il De Aetna appena stampato da Aldo. Il 1° marzo, sempre presso il Misinta, a Brescia, pubblicò la sua versione latina, dell'omelia in I Cor. XI di Giovanni Crisostomo, dedicata al bresciano Andrea Anselmino, canonico di S. Giorgio in Alga, frequentando insieme, secondo il suo costume, letterati e poeti, come Panfilo Sasso, che gli dedicò un curioso epigramma latino (Epigrammatum libri..., Brixiae 1499, c. I v r).
Durante l'incarico bresciano il D. fu eletto, il 23 maggio 1496, oratore a Lucca per convincere la città a restituire Pietrasanta a Genova e per sorvegliare la situazione di Pisa che, sostenuta allora da Venezia, lottava per la propria indipendenza dalla filofrancese Firenze; ma, essendo il suo soggiorno toscano "senza fructo", fu richiamato a Brescia l'11 agosto, il giorno stesso in cui Carlo VIII scriveva all'arcivescovo di Magonza un'accesa epistola in cui, offeso per l'adesione di Venezia alla coalizione antifrancese e per l'accordo stipulato nel gennaio 1496 con il re di Napoli, accusava la Serenissima di tradimento e di usurpazione delle terre di Puglia. Il D., "non ad historiae laudem sed ad defensionem veritatis", rispose punto per punto con un'Apologia alle accuse di re Carlo.
Lo scritto si snoda, specie all'inizio, con scarna agilità, come nella pagina in cui insegue la rovinosa discesa della truppe francesi; e si anima d 11 ricordi personali, come l'accenno alla precedente legazione presso Innocenzo VIII. Le terre di Puglia che la Francia dice usurpate - afferma il D. - erano già state offerte da Carlo stesso a Venezia (e il de Commynes, allora ambasciatore francese nella città lagunare, lo conferma), ma, a quel tempo rifiutate, vennero occupate dalla Serenissima soltanto dopo la manifesta iniuria da parte del re e ancora dopo ripetute offerte d'accordo avanzate dalla Serenissima alla monarchia francese (offerte che il de Commynes stesso si rammaricava non fossero state accolte). Nell'ultima parte l'Apologia registra tutti gli argomenti che avevano creato il "mito" di Venezia, risolvendosi nella lode della classe patrizia veneziana, erede delle "reliquiae nobilitatis Italiae" sfuggite ai massacri barbarici (teste Cassiodoro, Var., XII, 24) e custode illuminata delle più antiche tradizioni legislative della città. L'Apologiain Carolum VIII è trasmessa come testo autonomo da una decina di manoscritti. fu copiata, tra gli altri, da Iacopo Quenstenberg (con la versione latina delle Epistole dell'Arcopagita nel Vat. lat. 2934) e dal medico G. Giacomo Bartolotti; ma conobbe la stampa solo tardi, nel 1843, inserita negli Annali di Domenico Malipiero.
Eletto oratore presso Alessandro VI l'8 febbr. 1497, proprio nei giorni in cui rientrava da Brescia, il D. giunse a Roma soltanto Fi i ottobre, dopo aver partecipato, come savio di Terraferma, alla seduta che votava la destituzione del marchese di Mantova da capitano generale delle truppe veneziane. Nella "sentina di tutto el mondo", dove rimarrà fino al 4 giugno 1499, sostenne i diritti di Pisa contro Firenze e, tra i rivolgimenti delle alleanze seguiti alla morte di Carlo VIII (7 apr. 1498), inviò abili consigli alla Serenissima per addolcire papa Borgia, pontefice "artificioso e composito", di "natura duplice" (Sanuto, II, coll. 826, 835).
In questi mesi morì a Roma Pomponio Leto e il D. compose per lui, in greco e in latino, un epitafio che fu tradotto in latino anche da Giovanni Lorenzi; il Sabellico gli inviò una copia a stampa delle prime Enneades e gli scrisse da Santa Maria di Non (presso Padova) Pietro Bembo, ringraziandolo per l'interesse dimostrato a Trifone Gabriele che, patrono proprio il D., riusci ad ottenere da Alessandro VI una sede sacerdotale: così., occupato a seguire le nuove alleanze di Venezia che ora, scontrandosi con Milano, si avvicinava alla Francia o ad osservare i traffici matrimoniali del Valentino, si offriva anche per garantire una vita di otium, al riparo di benefici ecclesiastici, a quei membri del patriziato veneziano che di politica non volevano più occuparsi.
Un mese dopo il suo ritorno, l'8 luglio 1499, Aldo Manuzio gli dedicò l'edizione greca di Dioscoride e Nicandro. Il 16 luglio il D. entrò come vicedomino nella città estense, successore di Bernardo Bembo.
L'elezione era già avvenuta quasi un anno prima, il 19 ag. 1498, e già gli aveva scritto Pietro Bembo da Ferrara, dove, in quel tempo, Marco Musuro cercava ed emendava codici greci e l'Ariosto ascoltava le lezioni platoniche di Sebastiano dall'Aquila; vi giungerà più tardi Demetrio Calcondila che chiederà proprio al D. di abbandonare Milano per "lezer" a Venezia. Di tanto fervore culturale non traspare se- resta solgno nel disperso epistolario del D., tanto una lettera ad Antonio Tebaldeo, allora presso la corte di Mantova: il D. gli chiede di intercedere preso i Gonzaga per un permesso di transito da Pontepossero (Verona) a Ferrara (13 ott. 1499).
La situazione del D. a Ferrara non fu delle più agevoli: si trovò anche asserragliato in casa da stravaganti seppur innocue manifestazioni; persino le feste che egli promosse non furono gradite agli ostili cittadini. Accolse il Valentino e nell'autunno successivo (1500) si incontrò con il cardinale Della Rovere. Il D. era allora tormentato insieme da problemi familiari (come la malattia della madre, che lo chiamò a Monselice, o i debiti rovinosi del cognato Maffeo Soranzo implicato nel crollo del banco dei Lippomano), ma allarmato soprattutto dalla nuova alleanza tra Luigi XII e Massimiliano. La sua relazione, al ritorno (24 febbr. 1501), non era rassicurante: "I feraresi e il signor zercha far mancho reputation di li vicedomini che poleno ... quella terra è come soto tyranni" e contrabbanda il sale, "bisogneria più guardia a voler obviar". Il quadro piuttosto nebbioso si illuminava, sia pur brevemente, con il ricordo di Ippolito d'Este che, diversamente dal fratello Alfonso sempre in "praticha ... con tavarneri", si rivelava "acorto, zenthilissimo e savio" (Sanuto, III, col. 1449).
Con Antonio Loredan e il segretario Giampietro Stella, tra il marzo e il luglio 1501, dopo aver ottenuto un temporaneo aumento di stipendio da 120 a 150 ducati al mese, il D. fu oratore straordinario a Massimiliano per esortare l'imperatore, "alterum luminare maius" (Sanuto, III, col. 1589), alla guerra contro i Turchi. Il 17 agosto fu eletto oratore straordinario a Luigi XII, ma rifiutò Nricarico; fu rieletto nel settembre; ma la partenza subi un rinvio, perché era allora membro dei Quarantuno per la nomina del nuovo doge Leonardo Loredan; parti con Domenico Trevisan alla fine di ottobre, con l'ordine di visitare, se incontrato "per aventura", il cardinale "Vincoli", Giuliano Della Rovere (Cons. dei dieci. Misti, 27 ott. 1501). Ritornò in Italia al seguito del re, nell'estate del 1502; il 28 settembre il Trevisan riferi in Collegio, con un giudizio sin troppo fiducioso.
Sia la legazione all'imperatore sia quella a Luigi XII nascono da due fortissime spinte: l'alleanza tra Francia e Germania che destava le apprensioni della Repubblica, insospettita anche dai movimenti di papa Borgia; e la tragica solitudine in cui Venezia affondava, con i Turchi ai confini, dopo la caduta di Modone, "antemurale" della Cristianità. Perciò, come ordinavano le commissiones dogali ai due oratori, essi dovevano esortare le due potenze da poco alleate a dirigere le loro forze con Venezia contro il pericolo islamico. Nell'orazione a Massimiliano il D. sfodera i motivi consueti dell'apologetica imperiale: l'imperatore è "solis iubar", "gladius fidei", la stessa aquila "alis explicatis" si trasfigura nel segno della croce; appaiono anche gli avi 'danteschi', Rodolfo e Alberto. L'orazione fu stampata in due stesure, latina e volgare, a Venezia, da Bernardino Vidal, già nel giugno 1501, dunque prima che il D. ritornasse in patria. L'orazione a Luigi XII, anch'essa sostenuta da continui echi biblici che emarginano quasi totalmente i richiami alla mitologia o alla storia antica privilegiati da altri umanisti, fu stampata da Aldo già nel dicembre 1501 e ristampata fino al Settecento. Oltre alla solita esortazione a muovere contro i Turchi, il D. si congratula con il re per il recente acquisto del Regno di Napoli e per l'accordo con Massimifiano sancito da una promessa di matrimonio tra rampolli di case reali. Nove anni più tardi, nell'epistola a G. Bannisio, attaccherà violentemente Luigi XII, aizzandogli contro lo stesso Massimiliano ed esibendo, questa volta, un sarcasmo di tipo etimologico-araldico, del resto consueto a quei tempi: non si lasci vincere l'aquila dal gallo. Ora, in così grande movimento dei tempi, era scelta più prudente attenersi alle regole di una retorica che velava la realtà nelle forme encomiastiche; tanto più che la stessa politica veneziana amava nascondersi in vaghe dichiarazioni che ben si manifestano nella commissio al D. e al Trevisan del 2 maggio 1502: protraggano "la cosa in longi, azò el tempo - come sepius sol accader - possi portar remedio più opportuno de quello al presente l'appari"; riflettendosi nella condotta dei due oratori che, circospetti dinanzi alle nuove tensioni tra la Francia e il Valentino, concludevano: "Nui veramente non se ingerimo" (Capi del Cons. dei dieci. Lett. amb. Francia, b. 9, f. 14, 14 luglio 1502 da Asti; si veda anche la corrispondente dei Dieci di Firenze al Soderini, del 16 luglio, in N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1964, I, p. 316).
Eppure anche in questi anni così attivi diplomaticamente resta memoria del D. "suminus patronus" delle arti: a lui che sa temperare gli studi di filosofia con la musica Ottaviano Petrucci e Bartolomeo Budrio dedicano il 15 maggio 1501 la stampa veneziana dell'Harmonice musices odhecaton; e quando il 7 genn. 1503 entra, con Paolo Pisani, podestà a Cremona, lo accompagnano le parole di Marino Becichemo che, a Brescia, attende come allievo un figlio del D., Filippo, e che invia ad Agostino Donà alcune osservazioni sui Florida di Apuleio (Epistolicae quaestiones, xcvi-c), pregando inoltre il nuovo podestà di portare i suoi saluti ad un certo "Trypho", "celeber regionis meae gramaticus" (probabilmente Trifone Bisanti Dalmata che, come ricorda il Valeriano, fu "educatus Venetiis apud clarissimum litteratura virum H. Donatum").
Sono accenni che rilevano nel D. essenzialmente l'immagine del "doctorum fautor"; ma sono passi da ricordare innanzitutto perché in essi il maestro di Scutari, che celebra il D. come "terrestris deus", trascrive qualche lacerto di epistole, altrimenti perdute, a lui indirizzate dallo stesso D. (si veda anche Epist. quaest., XIV e XVII e la Praelectio in Plinium). A Cremona, città di "gran marcheschi", il D., "facetug, facundus, gentilis", fu amato dal popolo per la "giovialità della sua indole e per l'indulgenza con la quale tollerava che icittadini andassero per via armati dal capo alle piante" (così curiosamente si legge in Sommi Picenardi, p. 109); si occupò del restauro del palazzo podestarile, come ricorda l'iscrizione trascritta dall'Arisi; venne lodato per l'oculatezza con cui amministrò l'erario, risolse una divergenza tra i Comuni di Bordolano e Quintiano (ILibri comm., VI, p. 294), ma anche trafficò segretamente per l'occupazione di Faenza.
Intanto si appesantivano i contrasti tra Venezia e il neoeletto Giulio II per la questione di Romagna, mentre Giorgio d'Amboise, arcivescovo di Rouen, sconfitto alle elezioni papali, partiva astioso da Roma verso il Nord per "abocharsi" con Massimiliano, certo contro Venezia; con la commissio del 13 dic. 1503 il Senato ordinò al D. di accompagnarlo per le terre venete verso Milano, cercando di ben predisporlo verso la Serenessima con i suoi "ingegno, facundia, dexterità e prudentia", come "grave e consumatissimo oratore". Il D. lo incontrò a Parma e il giorno di Natale ebbe con lui, presso Piacenza, un lungo colloquio che sembrò soddisfare la Repubblica: ma non impedi il trattato di Blois, anticamera della Lega di Cambrai.
A Venezia, il 26 sett. 1504, il D. divenne savio del Conseio e il 19 novembre fu tra i più vivaci sostenitori della pars che imponeva le decime anche alla chiesa di S. Marco; il 27 dicembre promosse con Marco Sanuto l'elezione di Niccolò Leonico, che concorreva con Marco Musuro alla cattedra umanistica della Cancelleria, rimasta vacante dopo la morte di Benedetto Brugnoli (già lodato dal D., come si apprende dalla prefazione di G. Tacuino alla Cornucopia di N. Perotti, Venezia 1504); l'8 genn. 1505 entrò nei Tres loco procuratorum super rebus Supragastaldionum, finché il 9 aprile parti per Roma, membro di quella fastosa legazione che, dopo molti rinvii, doveva "prestar la obedientia" a Giulio II e che, se aveva destato per i suoi ripetuti annunci il fastidio del Machiavelli, ora, per i suoi addobbi "pomposi", incuriosiva un poco Baldassar Castiglione (Lettere, a cura di G. La Rocca, Milano 1978, I, p. 67).
Secondo il Burcardo, centoquarantanove erano i familiares al seguito degli otto ambasciatori e, in questa folla, anche Pietro Bembo e Paolo Canal con il segretario Giampietro Stella. Fu un viaggio movimentato, di venti giorni, compiuto a gruppi separati, per mare e per terra, da Chioggia a Ravenna e poi da Rimini per Urbino, Spoleto e Terni; il codice della Biblioteca nazionale Marciana, Mss. It., cl. XI, 67 (7351) conserva la descrizione del percorso, con la didascalia: "Bernardi Bembi ... descriptio sui itineris. 1504". Ma questa data è errata e tuttora si dubita della paternità dello scritto, che il Degli Agostini attribui misteriosamente al D., ma, a prescindere da altre obiezioni, si puo osservare che il cronista del codice marciano non appare del tutto certo che l'Hercules horarius di Ravenna sia una meridiana, e questa incertezza difficilmente si può ammettere nel D., che di quella statua aveva curato, proprio lui, il restauro e la collocazione.
Il 5 maggio fu data udienza pubblica e il D. pronunciò la sua orazione "latina ornatissima et de gravità", secondo il Sanuto, ma, a parere dell'ambasciatore fiorentino Giovanni Acciaiuoli, "elata et piena di fiori et frondi ... con demonstratione di desiderar la pace ... con offerire dal canto loro maria et montes" (A. Giustinian, Dispacci, III, p. 542).
"Lux statim orta est" (Ps. 96,11): così annuncia l'elezione di Giulio II, che certo riporterà l'ordine a Roma devastata da una selva d'armati e tormentata dal pericolo di scisma; il discorso si risolve in una lunga esortazione a conservare la pace d'Italia, con espressioni di vago accento boezianol una pace che è quasi figuradel divino, ma che in verità significa soluzione dei contrasti per la Romagna e controllo concorde dell'ingerenza oltremontana. Non manca il ritratto piuttosto enfatico del papa, che viene celebrato, tra l'altro, per la sua liberalità, mentre pochi anni dopo Domenico Trevisan lo descriverà come "timido e avaro" e lo stesso Machiavelli lo ricorderà tra gli esempi di oculata parsimonia.
Mentre gli altri oratori ritornavano in patria, il D. con Paolo Pisani si trattenne a Roma fino al 19 luglio; avviò intensi colloqui con Giulio II sulle terre di Romagna e sull'assegnazione dell'episcopato di Cremona, ma con insoddisfazione del Senato che non mancò di rilevare l'inefficacia del suo impegno. Il 1° agosto assunse la carica prestigiosa di "conseier" (di Cannaregio); il 13 agosto Pierio Valeriano (G. P. Dalle Fosse) gli dedicò il primo libro dei Lusus (in Praeludia quaedam, Venetiis 1509, cc. C 1 r ss.).
Un carmen del Valeriano è rivolto anche al figlio del D., Agostino, che ora - vi si augura - sosterrà l'opera di Pierio come un tempo suo padre aveva patrocinato gli studi di Urbano Valeriano (Urbano Dalle Fosse). La dedica in prosa enumera tutte le cariche fino ad allora sostenute dal D. e ricorda anche la sua recente elezione a duca di Candia (13 maggio 1505), ma pur in tanta convenzionalità resta nella memoria il tratto gentile del patrizio che animava le prime esibizioni poetiche di Pierio ancora "puerulus". Nel preludio di tono catulliano l'autore invita il suo "libellus" a presentarsi, per una esame di ammissione, all'"emunctus Trypho" di cui il D. è patrono (ancora il Dalmata, probabilmente).
In questi pochi mesi di sosta veneziana il D. si accordò con Marco Dandolo su alcuni beni in comune a Padova, con il fratello Andrea acquistò terreni ad Albaria (ora in provincia di Mantova) e risolse una questione di confini tra Ferrara e Ravenna (febbraio-aprile 1506). Subito dopo parti per Creta.
Il suo arrivo nell'isola venne celebrato con distici greci da Arsenio Apostoli. Tra attacchi turchi e spaventose tempeste trascorsero i primi due anni; poi, la notte del 29 maggio 1508, un terremoto sconvolse gran parte della regione. Fu un cataclisma su cui scrissero in molti e anche il D. inviò un'epistola a Pietro Contarini di Valsanzibio ("Eusebianus"), narrando, non senza compiacenze letterarie evocanti la notte di Troia, gli orrori di quella notte cretese, a suo parere dovuta anche all'ira divina per lo scisma tra Greci e Latini (ma questa opinione scompare in una parte della tradizione manoscritta dell'epistola).
Immesso nel contrasto tra Greci ortodossi e uniati, nel vivo di discussioni di dottrina religiosa che si svolgevano persino "per angiportus, inter compotationes etiam", tra "profani et ignari" (De proc., p. 75), compose in greco, con l'aiuto di Arsenio Apostoli, il De processione Spiritus Sancti e poi l'Apologeticus ad Graecos de principatu Romanae sedis, ambedue tradotti in latino durante la quarta e ultima legazione romana (l'originale greco dei due trattati è perduto, la versione latina del De processione appare incompiuta).
Nel De processione affronta la questione del Filioque (lo Spirito Santo procede dal Padre "e dal Figlio"), seguendo il metodo già suggerito anni prima dal concilio di Firenze: non si propone perciò il problema della legittimità dell'aggiunta al Credo niceno-costantinopolitano, e quindi dei rapporti tra la Chiesa di Roma e i concili ecumenici; intende piuttosto dimostrarne la veridicità dottrinale, combattendo gli avversari con le loro stesse armi, con citazioni cioè tratte dai Padri greci. Viveva ancora nella memoria di tutti, e il D. la ricorda, la polemica sorta intorno all'Adversus Eunomium di s. Basilio nel concilio di Firenze: a Giovanni di Moritenero che citava un passo concorde con la posizione latina aveva risposto Marco Efesio, obiettando che quel passo era certo un'interpolazione e accendendo così un lavoro continuo di analisi testuale. Anche ora, come del resto già per il problema de anima, ai "laquei et retia syllogismorum" il D. preferisce il ritorno alle fonti prime della dottrina e la ricostruzione corretta dei testi più antichi e autorevoli; il nome stesso di Aristotele, che aveva sollevato vivaci proteste già nelle sedute conciliari fiorentine, viene quasi emarginato e il ricordo di Omero, di Lucrezio, del Trismegisto appare come preliminare, fugace ossequio dell'umanista alla civiltà classica, affondando subito dinanzi allo schieramento delle autorità rigidamente ortodosse. Rifluiscono qui la perizia del traduttore e anche l'interesse per l'analisi testuale di scritti sacri, di cui resta un saggio interessante in un'epistola al cardinale Domenico Grimani (su Dan. 13,54). In questo trattato che, talvolta con sorprendente sia pur imparziale durezza, mira soprattutto alla rieducazione culturale dei Greci e anche dei seguaci della posizione latina, ancora una volta Venezia s'impone come centro, cui si riconosce non tanto un eccelso ma vago zelo religioso, come avveniva nell'Apologia e nelle orazioni, quanto un'indiscussa autorevolezza dottrinale-religiosa: perché solo a Venezia trovò rifugio, salvezza e sopravvivenza la stessa lingua greca (p. 131).
Di egual tempra, anche se di ampiezza più contenuta, è l'Apologeticus, che difende la superiorità della sede papale romana, dichiarata, a parere del D., nel Vangelo (in particolare, Matt. 16,17), accettata dai Padri greci e confermata dagli stessi eventi storici, dal momento che a Roma, centro dell'impero universale, "mystice temporalis dignitas spiritalein ... demonstravit". Il trattatello sollevò al destinatario, il cardinale Oliviero Carafa, alcuni dubbi tutti elencati in un'epistola perduta ma ricostruibile, almeno in parte, dalla risposta del D. ("Tribuis mihi humanissimis ..."): in particolare, ci si domanda perché si affermi, citando il Vangelo, che Pietro è la pietra fundamentum, mentre da altri passi del NuovoTestamento si deduce che solo Cristo è la pietra, il lapis angularis della Chiesa. Anche s. Agostino riferiva il "super hanc petram" di Matteo a Cristo, e non al primo apostolo. Il D. risponde con un breve saggio di esegesi scritturale, ricordando tra l'altro, e giustamente, che s. Agostino in seguito, nel De retract. I, 21, accolse anche altre interpretazioni del versetto di Matteo, lasciandone completamente aperta la lettura: "Eligat lector".
Forse questi trattati si possono inserire in quella sequenza di opere - interventi e commenti - che contribuirono in Venezia alla Riforma cattolica, come il Libellus ad Leonem X di Paolo Giustinian e Pietro Quirini o gli scritti più tardi di Gaspare Contarini, che difesero tutti il principio dell'inattaccabilità delle istituzioni ecclesiastiche, intendendo promuovere piuttosto un programma di educazione 'culturale', condotto sulle fonti prime della Rivelazione. Tuttavia il De processione nonconobbe una pronta né vasta fortuna; dedicato dal figlio del D., Filippo, a Leone X, rimase manoscritto in due esemplari fino al tempo in cui Angelo Mai lo pubblicò nella Scriptorum Latinorum veterum nova collectio, VII, Romae 1833, pp. 1-162: la questione del Filioque, travolta dalla Riforma protestante, doveva per il momento venir tacitata. Resta al D. il merito di aver saputo individuare ed esaminare i passi-cardine della disputa, come quelli del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, di aver accennato al problema della "doppia" processione dello Spirito Santo e, non ultimo, di aver tracciato una rapida storia della questione. Più fortunato fu l'Apologeticus che, conservato con l'epistola al Carafa da un unico manoscritto, il Vat. lat. 3463, venne stampato insieme con l'epistola, per le cure del figlio Filippo, da Minucio Calvo a Roma nel 1525. Scritto "ad reprimendam Graecorum insolentiam..., pari tamen ratione ad confutandam illorum impietatem plurimum valet, qui nostris temporibus authoritatem Romani Pontificis imminuere conati sunt", scriveva Filippo nella dedica a Clemente VII, riferendosi certo ai seguaci della Riforma protestante; e si ricorda allora Lutero che, per la questione del primato di Pietro, accettava soltanto la prima esegesi agostiniana di Matt. 16,17, quella che il Carafa ricordava polemicamente all'autore dell'Apologeticus. Quattro anni prima, nel 1521, era uscito alle stampe, contro l'eresia luterana, il De auctoritate Summi Pontificis di Cristoforo Marcello: l'autore, protonotario apostolico, aveva già dedicato al D. l'Universalis de anima traditionis opus (Venetiis, 18 genn. 1509), che tratta, tra gli altri, del pensiero dell'Afrodisiense: i due veneziani sembrano procedere insieme, muovendo dallo studio di uno dei problemi più rischiosi e più discussi, come quello dell'immortalità dell'anima nella dottrina dei filosofi antichi, per giungere a dissertazioni di diritto canonico; riprendendo così, suggerisce Marco Foscarini, la tradizione veneta di studi giuridico-ecclesiastici e insieme gravitando nell'ambito della Riforma cattolica.
Tra cataclismi, dispute teologiche e faccende locali (come la tutela dei beni del monastero di S. Caterina del Monte Sinai o questioni legali relative a una nobile Cocco e a Giovanni Quirini), il D., a Creta, compose anche, in distici greci, una preghiera alla Vergine (inedita, Roma, Bibl. Vallicelliana, cod. Gr. 217 e 218).
Il D. rientrò a Venezia il 22 ott. 1508 e apparve subito attivissimo nelle sedute collegiali. Il 20 maggio 1509 fu eletto ancora una volta "conseier" di Cannaregio e il 31 maggio provveditore e vicecapitano a Padova, con Giorgio Emo. Ma la sera del 5 giugno Padova scacciò i Marcheschi e il D., l'Emo e il podestà Francesco Foscari si precipitarono sulla via del ritorno. Subito, il giorno dopo appena, il D. venne eletto membro della legazione di sei oratori inviata a Giulio II, "per humiliarse più che se pole". Partito con gli altri il 20 giugno, il D. giunse a Roma la sera del 2 luglio. Il 9 il papa convocò soltanto lui e assolse lui solo, fra tutti gli oratori, dalla scomunica che gravava su Venezia. Affiancatek dai cardinali Grimani e Corner, il D. difese il diritto di Venezia sull'Adriatico; diritto già concesso da Alessandro III, riconosciuto dai popoli che, senza l'argine veneziano, avrebbero visto il mare trasfigurarsi in un "boscho da corsari Turchi et navilii de mal afar" (Dispacci..., 23 luglio, 12 dic. 1509).
Un tempo, a papa Borgia, che gli chiedeva di mostrargli l'atto ufficiale che garantiva la signoria di Venezia sul Golfo, il D. aveva replicato con una risposta entrata come esemplare nei trattati giuridici: "Ostendat mihi Vestra Sanctitas instrumentum patrimonii Sancti Petri et a tergo scriptam inveniet concessionem factam Venetis maris Adriatici".Continuavano intanto gli attacchi dei pirati turchi già padroni di Ponza (si veda l'epistola di Girolamo Borgia al D. e a Paolo Pisani, da Napoli, in data 23 sett. 1509) e le reazioni d'Italia alla sconfitta veneziana di Agnadello.
Nell'epistola a Michele Ferno il D. espresse il suo risentimento nei confronti dell'Antiquario che, nell'orazione composta per celebrare l'ingresso di Luigi XII a Milano, accusava Venezia di "dominationis libido" e la raffigurava come un'idra velenosa dilaniata finalmente da Luigi, nuovo Ercole. Sono immagini colorite che rimbalzano dall'uno all'altro fronte: al francese Luigi Hélian i Veneziani appaiono "dracones ... recto pectore et ... cervice purpurati", ma, a sua volta, la morte del cardinale "Roano" per il D., libera la Chiesa "a magno dracone" (Dispacci..., 21 luglio 1509).
Finalmente, dopo l'"acerbissima nova" della sconfitta inflitta alle truppe veneziana dal duca di Ferrara - che proprio in quei giorni del dicembre 1509 aveva inviato in Curia Ludovico Ariosto - gli oratori veneziani ottennero l'assoluzione generale dalla scomunica, che venne impartita solennemente in S. Pietro il 24 febbr. 1510: da allora il D. rimase unico ambasciatore della Repubblica in Roma.
Bisognava "remover la Cesarea Maestà dal re de Franga et tirarla ale parte nostre", per reprimere l'"elatione" del popolo francese (Senato. Secr., 23 marzo 1510); per questo, nell'epistola al segretario imperiale, Iacopo Bannisio, il D. attacca violentemente la casa reale di Francia, ma con argomenti per lo più 'etici', del tutto alieni da quelle riflessioni di tecnica politica che il Machiavelli esponeva intanto al de Robertet. Avvicina gli ambasciatori di Spagna e Inghilterra, rassicura il papa che, pur non volendo essere "capelan de' Françesi", continua a dubitare di Venezia; lo accompagna nei luoghi della guerra, a Bologna, dove reagisce con duri faleci e pronta azione contro il filofrancese cardinale Francesco Alidosi, meritando l'elogio di Pietro Dolfin (Epistolarum libri, Venetiis 1524, IX, 80, 26 sett. 1510); si reca al campo della Mirandola e poi a Ravenna. Pienamente lodato dalla Signoria, risulta tra i primi candidati alla prestigiosa carica di procuratore di S. Marco, che onorerà invece il già tormentato Antonio Grimani. A Bologna, nell'aprile 1511, dinanzi a Matteo Lang, vescovo di Gurk, difende i diritti territoriali di Venezia in Terraferma contro le rivendicazioni imperiali, elencando una serie di argomenti giuridici registrata dal Dubos.
Quando, il 4 ottobre, venne pubblicata la Lega santa, la Signoria dimostrò ufficialmente la sua riconoscenza all'oratore esentando lui e il fratello Andrea, allora podestà e capitano a Treviso, dal debito di una tassa che gravava sui loro possedimenti in terra veronese, considerando anche le loro precarie condizioni economiche, "restandoge soluni la casa ne la qual habitano CUM 20 figlioli sopra le spalle" (Senato. Secr., 8 ott. 1511). In questi giorni, in cui finalmente, dopo molte e vane richieste, aveva ottenuto il permesso di rimpatriare, il D. fu assalito da una gran febbre, ma nella sua abitazione in Campo Marzio continuò a dettare istruzioni al segretario Lorenzo Trevisan. Morì il 20 ott. 1511, il giorno stesso in cui Venezia celebrava con sfarzose cerimonie la lega, "pianto dal papa, cardinali e tuta la corte" (Sanuto, XIII, 177), ma - annota Marco Barbaro negli Arbori - non senza "qualche sospetto di veleno".
Fu sepolto in S. Marcello a Roma, con una breve iscrizione ora scomparsa. L'aiuto offerto da Venezia alla sua famiglia fu inferiore, pare, alle promesse e alle attese. Lo lodano gli storici ufficiali della Repubblica, il Sabellico, Pietro Bembo, Pietro Giustinian, Girolamo Borgia (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Lat., cl. X, 98 [3506], c. 82r), ma ne parla con stima anche il Guicciardini nella Storia d'Italia. Oltre ai poeti già citati lo ricordano nei loro versi, per lo più ancora inediti, Girolamo Bologni, M. Antonio Casanova, G. Francesco Teoclito, Niccolò Degli Agostini (Li successi bellici, Venezia 1521, V, stanza 36). Baldassarre Castiglione riporta un suo "bischizzo" nel Cortegiano, Paolo Cortesi lo celebra nel De cardinalatu, ma compianse la sua vita faticosa e insieme l'oscurità in cui presto scivolarono i suoi scritti, Pierio Valeriano nel De litteratorum infelicitate, con parole che impressionarono la memoria di Pierre Bayle. Erasmo, che lo incontrò nel 1509, lo descrisse in un'epistola più tarda (Opus epistolarum, a cura di P. S. Allen, V, Oxonii 1924, n. 1347) come "senex sed corpore fiorentissimo", ricordandolo ancora per le sue attitudini letterarie, purtroppo distratte dalla politica, nel Ciceroniano. A Luigi Da Porto apparve "bellissimo del corpo e dell'animo". Era ritratto, narra il Sansovino, su una delle tele della sala del Maggior Consiglio nel palazzo ducale di Venezia, insieme con Ermolao Barbaro e con il Poliziano, "vestito d'oro con bella e ricca collana al collo". Il suo volto fu inciso su una medaglia attribuita al Riccio e ritorna col suo bonario profilo negli Elogia del Giovio (Basileae 1577) e nelle Icones ... virorum Italiae ... di Nicola Reusner (Basileae 1589).
Il duplice aspetto dell'attività del D., diplomatico ed umanista, si riflette anche nei suoi scritti, divisi tra interventi polemici e apologetici e un meno contingente impegno filologico sui testi di patristica e di filosofia; tra questi due poli si situano le prime epistole sempre oscillanti tra insistenti accenni alle curae politiche e le curiosità letterarie, con una tensione che verrà risolta solo nei trattati più tardi, dove la conoscenza del greco, la critica testuale e l'insistente ricorso alle fonti della dottrina filosofica e religiosa si dispiegano per comporre un dissidio che tormentava la vita sociale e politica di Creta. Non a caso Agostino Valier lo ricorderà tra gli ultimi rappresentanti di una cultura rivolta essenzialmente al benessere della res publica. Concittadino e amico di Ermolao Barbaro - "una devincti amoris copula", diceva di loro il Poliziano (Misc. I, go) - percorse, per un tratto almeno, il suo stesso itinerario politico e culturale, anche se, diversamente dall'amico, dimostrò sin dall'inizio uno spiccato interesse per la patristica (in particolare, la traduzione dell'Areopagita già allo Zeno provava che il Barbaro "non mise la falce nella stessa messe" del Donà). Congiunti per l'ultima volta nel soggiorno romano del 1491-92, i due patrizi sembrano raffigurare il rivolgimento della vita culturale dell'ultimo Quattrocento. Nel Barbaro si riflette "l'esperienza di una cultura che nella crisi degli stati italiani" trovava "riparo nella Chiesa" (Dionisotti); nel D. persistono i tratti del primo umanesimo veneziano, quando il ceto nobiliare chiedeva agli studi sostegno e impulso per l'azione politica. A Roma la morte colse ambedue: uno, ecclesiastico, era intento ad un testo di scienza, Plinio, entrando dopo l'impegno aristotelico in una posizione "filosoficamente scettica, tale da poter essere giustapposta alla dogmatica e pietà cristiana" (ibid.). l'altro, laico, si occupava della questione del Filioque e del primato di Pietro, quasi a rivendicare definitivamente ai laici della classe dirigente veneziana una totale indipendenza - e totale proprio perché rivendicata sul piano della competenza e preparazione teologica - dalla Chiesa.
Edizioni. Alcune epistole si leggono negli Opera del Poliziano, Venetiis 1498, cc. 18r-21r e negli Opera del Pico, Venetiis 1498, cc. 126v, 128r; tre furono tradotte in volgare da L. Dolce, Epistole di G. Plinio..., Venezia 1548. L'epistola al Contarini è edita in F. Corner, Creta sacra, II, Venetiis 1755, pp. 408-415 e in A. M. Bandini, Bibliotheca Leopoldina-Laurentiana, II, Florentiae 1792, coll. 57-62 (ma con notevoli varianti rispetto all'edizione del Corner), è riedita, secondo il testo del Corner, ma con qualche ritocco, da Φ. Μπουμπουλις, ῾Η Συμϕορὰ της Κρήτης του Μανόλη Σκλάβον) Atene 1955. Frammenti di epistole perdute si leggono, come si è detto, negli Opera (Venetiis 1506) di M. Becichemo (Epistolicae quaestiones, XVII, XCVI, e Praelectio in Plinium). Per la ricostruzione del carteggio e la pubblicazione di alcuni inediti (epistole ed epigrammi), P. Rigo, Per il carteggio di G. D. Inventario ed epistole inedite, in Rend. dell'Accad. naz. dei Lincei, classe di scienze morali, stor. e filol., s. 8, XXIX (1974), pp. 531-555, cui va aggiunta la ricordata epistola di P. Dolfin e un'epistola di N. Seratico da Milano, ag. 1489; per le edizioni a stampa delle altre opere e la tradizione manoscritta, Id., Catalogo e tradizione degli scritti di G.D., ibid., XXXI (1976), pp. 49-80 (da correggere in n. 68 quanto si afferma a proposito della ricordata pergamena di Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Fondo Donà, cod. 495). Il contrasto col Ramusio è edito dal Laur. Strozz. 143 in Quinque illustrium poetarum lusus in Venerem, Parisiis 1791; l'edizione che ne dà il Bandini, Bibliotheca Leopoldina..., II, 523 ss. è parziale. Un epigramma latino "De lauru sua", conservato dallo Zibaldone londinese di Bernardo Bembo, è edito da N. Giannetto, B. Bembo umanista e politico veneziano, Firenze 1985, p. 212; un distico greco da F. M. Pontani, Versi greci adespoti in lode di Venezia, in Atti e mem. dell'Accad. Patavina di scienze lett. ed arti, XCIII (1980-81), pp. 139 ss. Per l'epitafio greco per il Leto v., da ultimo, C. Gallavotti, Planudea VI, in Boll. del Comitato per la preparazione della ediz. naz. dei classici..., s. 3, IV (1983), p. 105.
Fonti e Bibl.: Per l'attività diplomatica numerosi sono i riferimenti al D. (da non confondere con gli omonimi; c'è, per esempio, un Girolamo Donà "conseier" nel 1481, forse zio del D.; e un Girolamo Donà assunto il 29 ott. 1500 notaio ordinario di Cancelleria) nei documenti dell'Archivio di Stato di Venezia: Senato. Secreta, regg. 31-44; Senato. Terra, regg. 9-17; Senato. Mar, regg. 12 ss.; Collegio. Lettere segrete, 1486-94; Consiglio dei dieci. Misti, regg. 25 ss.; Maggior Consiglio. Deliberazioni, Deda; Segretario alle Voci, serie mista, regg. 6, 7, 8. In particolare: Avogaria de Comun. Balla d'oro, reg. 164/III, c. 1 14r; Prove di età. Magistrati, reg. 171, c. 150r; Cronaca Matrimoni, c. 208r; Consiglio dei dieci. Carte Soranzo, s. II, b. I, lett. 357 (autogr. da Ravenna, 25 sett. 1494); Capi del Consiglio dei dieci. Lett. di ambasciatori, Ferrara, b. 8 (una lett. autogr.); Francia, b. 9 (14 luglio 1502); Roma, b. 20 (varie lettere dal marzo 1510 in poi; la lett. da Bologna del 10 ott. 1510, contro Francesco Afidosi, è pubblicata da R. Cessi in Nuovo Arch. veneto, XIII 119-131, p. 247; edizione parziale del dispaccio da Ravenna del il marzo 1511 in M. Brosch, Papst Julius II., Gotha 1878, p. 352); Duca di Candia, bb. 4 e 8; Senato. Archivi propri, Roma, 2-3 (dal 25 giugno 1509 al 30 ag. 1510, pubblicati in parte da R. Cessi, Dispacci degli ambasciatori venez. presso Giulio II (25 giugno 1509 - 9 gennaio 1510), Venezia 1932; passi da altri dispacci sono editi in Brosch, Papst Julius..., pp. 288, 348 ss.). L'elogio del D. che il Moro inviò al doge si legge in Arch. di Stato di Milano, Sforzesco, P. E., Venezia, b. 376 (vedi anche b. 375 per altre notizie relative alla legazione milanese). Inoltre si vedano lettere del D. in Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, s. I, CCCXL, f. 111 (a Puccio Flucci, da Ravenna, 4 genn. 1494 autogr.); Arch. di Stato di Mantova, E XXV, b. 858 (Ravenna, 27 ott. 1492, 10 febbr. 1494; Viterbo, 28 ag. 1510, autogr.; Foligno, 4 sett. 1510); E XLV, b. 1441 (Pontepossero, 5-6 sett. 1505, autogr.); E XLIX, bb. 1635-1636 (Cremona, 1503-1504, alcune autogr.). Vedi inoltre M. Sanuto, I diarii, I-XIII, Venezia 1879-86, ad Indices; I Libri commem. della Repubbl. di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VI, Venezia 1903, pp. 84, 110-113, 294; A. De La Torre, Una reclamación comercial de Venecia a Fernando el Catolico, in Miscll. in on. di R. Cessi, II, Roma 1958, pp. 47 ss.; I. Gherardi, Dispacci e lettere, a cura di E. Carusi, Roma 1909, ad Indicem; E. Pontieri, Venezia e il conflitto tra Innocenzo VIII e Ferrante d'Aragona, Napoli 1969, ad Indicem; A Ferriguto, Almorò Barbaro, Venezia 1922, in part. pp. 463 ss.; V. Lamansky, Secrets d'Etat de Venise, S. Pétersbourg 1884, pp. 238-246; G. Priuli, Idiari, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXIV, 3, a cura di A. Segre-R. Cessi, in part. vol. IV, pp. 14 ss., 398, 425; Diario ferrarese dall'anno 1409 sino al 1502, ibid., 7, a cura di G. Pardi, pp. 243, 251; D. Malipiero, Annali veneti, in Arch. stor. ital., VII (1843-44), pp. 310, 443-463, 484, 621, 675, 688; J. Burckardi Liber notarum, in Rerum Italic. Script., 2 ediz., XXXII, 1, a cura di E. Celani, ad Indicem; A. Giustinian, Dispacci ... dal 1502 al 1505, a cura di P. Villari, Firenze 1876, III, p. 542; Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, III, Firenze 1846, pp. 24, 30, 36 (relazioni di Paolo Cappello e Domenico Trevisan, da Roma, 1510); P. D. Pasolini, Doc. riguardanti antiche relaz. tra Venezia e Ravenna, Imola 1881, p. 125; L. Da Porto, Lettere storiche dall'anno 1509 al 1528, Firenze 1857, lett. 37 e 55; L. e G. Amaseo-G. A. Azio, Diari udinesi dall'anno 1508 al 1541, Venezia 1884, ad Indicem; L. Frati, Le due spedizioni militari di Giulio II tratte dal diario di Paride Grassi, in Doc. e studi pubbl. p. cura della R. Deputazione di storia patria delle Prov. di Romagna, I (1886), p. 264; I. B. Dubos, Histoire de la ligue faite à Cambray..., Paris 1709, I, pp. 396 ss.; II, p. 56. Alcune notizie in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 169 (8186): P. Gradenigo, Memorie istorico-cronologiche…, cc. 175v, 273v, 312v; Ibid., Bibl. del Civ. Museo Correr, Codd. Cicogna 3781: G. Priuli, Pretiosi frutti, I, cc. 257v-259r; Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta 19: M. Barbaro-A.M. Tasca, Arbori dei patritii veneti, III, c. 341; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital, cl. VII, 16 (8305): G. A. Cappellari Vivaro, Campidoglio veneto, II, c. 38v. Per il profilo generale, fondamentali: G. Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori veneziani, Venezia 1754, II, pp. 201-239; E. A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane..., in partic. I, Venezia 1824, pp. 90 ss.; Iohannes von Trittenheim (Trithemius), Liber de ecelesiasticis scriptoribus, in I. A. Fabricius, Bibliotheca ecclesiastica, Hamburgi 1718, p. 225; P. Valeriano, De litteratorum infelicitate, Venetiis 1620, p. 38; G. B. Egnazio, De exemplis illustrium virorum Venetae civitatis..., Venetiis 1554, pp. 72, 272; P. Giovio, Elogia virorum literis illustrium, Basileae 1577, pp. 70 s.; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1663, pp. 335, 588. Agostino Valier ricorda il D. più volte: vedi, per esempio, Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Lat. cl. X, 109 (2950): De politica prudentia, cc. 137v, 149v; o l'epistola a Lorenzo Priuli (1564 circa), in Reden und Briefen italienischer Humanisten..., a cura di K. Müllner, Wien 1899, p. 298. Inoltre: P. Bayle, Dict. histor. et critique, Bayle 1741, II, p. 304; I. A. Fabricius, Bibl. Latina mediae et infimae aetatis, a cura di I. D. Mansi, I, Florentiae 1858, p. 473; A. Zeno, Dissertazioni vossiane, II, Venezia 1753, pp. 362, 373, 387, 412; M. Foscarini, Della letteratura veneziana, Venezia 1854; G. Giuriato, Memorie venete neimonumenti di Roma, in Archivio veneto, XXVII (1884), pp. 126 ss.
Per aspetti particolari: P. Sambin, Il dottorato in arti (1478) di G. D., in Quaderni per la storia dell'Univ. di Padova, VI (1973), pp. 215-16; L. Gargan, Un umanista ritrovato: Facino e la sua biblioteca, in Italia medioevale e umanistica, XXVI (1983), pp. 257-305; E. Barbaro, Epistolae, orationes et carmina, a cura di V. Branca, Firenze 1943, ad Indicem; Eliae Cretensis Quaestiones de primo motore, de mundi efficentia..., in J. De Jandun, Super octo libros Aristotelis de physico auditu..., Venetiis 1551, Praefatio. Sulla corrispondenza con il Pico e il Poliziano, M. Martelli, Il "Libro delle epistole" di A. Poliziano, in Interpres, I (1978), pp. 228, 244 ss.; L. Perotto Sali, L'Opuscolo inedito di G. Merula..., ibid., p. 177; A. Poliziano, Miscellaneorum centuria secunda, a cura di V. Branca-M. Pastore Stocchi, Firenze 1972, ad Indicem (o ed. minor, ibid. 1978); F. E. Cranz, Alexander Aphrodisiensis, in Catalogus translationum et commentariorum, I-II, Washington 1960-1971, I, p. 855 s.; II, p. 411 ss.; Alexandri Aphrodisiensis Praeter commentaria scripta minora. De anima liber cum mantissa, a cura di I. Bruns, Berlin 1887, p. XIV; E. P. Mahoney, Nicoletto Vernia and Agostino Nifo on Alexander of Aphrodisias: an unnoticed dispute, in Riv. critica di storia della filos., XXIII (1968), pp. 270 ss.; B. Nardi, Saggi sull'aristotelismo padovano dal sec. XIV al XVI, Firenze 1958, pp. 368 ss.; E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, ad Indicem; G. B. Vermiglioli, Memorie di Iacopo Antiquari, Perugia 1813, pp. 412-414 (epistola di Ugolino Verino all'Antiquario); C. Dionisotti, Battista Fiera, in Italia medioevale e umanistica, I (1958), p. 403; G. Mercati, Ultimi contributi alla storia degli umanisti, II, Città del Vaticano 1939, pp. 14, 74 ss. (dedica del De situ del Sabellico); A. M. Vicentini, I Servi di Maria nei documenti e codici veneziani, I, Vicenza 1932, p. 54; L. Planiscig, Andrea Riccio, Wien 1927, pp. 211, 453 e passim, con la voce Briosco, Andrea di D. Pincus, in Diz. biogr. degli Ital., XIV, Roma 1972, pp. 327-332; G. Rossi (Rubeus), Historiarum Ravennatum libri X, Venetiis 1589, pp. 16, 111; G. Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Venezia 1664, p. 66. Per l'Hercules horarius vedi D. Spreti, De amplitudine, eversione et restauratione urbis Ravennae libri tres, Ravenna 1793-96, II, I, pp. 205 ss., e P. Coronelli, Ravenna antica e moderna, s.n.t., p. 28; Collezioni di antichità a Venezia nei secoli della Repubblica (dai libri e documenti della Biblioteca Marciana), a cura di M. Zorzi, con un saggio di I. Favaretto, Roma 1988, pp. 23 s.; a p. 24 la statua di un "popa" portata dal D. da Ravenna e rintracciata ora a Venezia dalla Favaretto. L'iscrizione sul mulino di S. Marna è stata analizzata da A. Campana in un recente convegno su Ravenna e l'età veneziana (Ravenna, 9-11 dic. 1983) i cui Atti sono stati editi purtroppo senza la relazione del Campana, a cura di D. Bolognesi, Ravenna 1986. Si vedano, ancora, F. Arisi, Cremona literata, Parma 1706, II, p. 16; G. Sommi Picenardi, Cremona durante il dominio dei Veneziani (1499-1509), Milano 1866, pp. 106 ss.; A. Medin, Gli scritti umanistici di Marco Dandolo, in Atti del R. Ist. veneto di sc. lett. ed arti, LXXVI (1916-17), pp. 3355 s.; A. Manuzio, Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di G. Orlandi, con introduzione di C. Dionisotti, Milano 1975, I, pp. 13, 30; M. Lowry, The world of Aldus Manutius, Oxford 1979 (tr. ital., Roma 1984), ad Indicem; sulla Descriptio, oltre alla bibl. cit. in Rigo, Catalogo..., p. 59, A. Campana, Intorno all'incisore Gian Battista Palumba e al pittore Iacobo Rimpacta (Ripanda), in Maso Finiguerra, I (1936), p. 175. La risposta ad Alessandro VI sul diritto di Venezia sul Golfo si legge anche in D. Maffei, La donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964, p. 345, che la riprende, come il Degli Agostini, dal Tractatus de patria potestate di Sebastiano Monticolo, in Tractatus universi iuris, VIII, 2, Venetiis 1584, c. 136v. Per la risposta a Matteo Lang, Dubos, Histoire..., I, pp. 396 ss., e le considerazioni che Antonio Sabini, consultore di Stato, scrisse sull'Histoire del Dubos ora a Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. Ital. cl. VII, 1522 (8825), cc. 686v ss. Per le amicizie del D. con i poeti, G. Pavanello, Un maestro del Quattrocento (G. A. Augurello), Venezia 1905, pp. 129, 180, 256; F. Luc-chetta, Girolamo Ramusio. Profilo biografico, in Quaderni per la storia dell'Università di Padova, XV (1982), pp. 5 ss.; Gargan, Un umanista..., pp. 261 ss. L'epigramma di Teoclito è edito in P. Rigo, L'albero dei poeti, in Ventitré aneddoti..., a cura di G. Auzzas-M. Pastore Stocchi, Vicenza 1980, p. 25; N. Liburnio ricorda il D. in Opere gentile ed amorose, Venezia 1502, sonn. 31 e 72; in Lo verde antico, Venezia 1524dove rielabora, adattandolo alla morte del D., il son. 72; in Le occorrenze umane, a cura di L. Peirone, Milano 1970 pp. 19, 133, 193. La riproduzione della medaglia del Riccio è in Planiscig, Andrea Riccio, p. 211. Per le epigrafi trascritte dal D., oltre Degli Agostini, V. Jufen, Le Codex Chlumczanshy, in Monuments Piot, LXVIII (1986), pp. 106 ss. Per i possedimenti in comune con Marco Dandolo nella zona di S. Marco e S. Martino di Padova, vedi Padova, Arch. notar., 1810, f. 68 (26 giugno 1502), atto segnalato e trascritto da E. Veronese nella sua tesi di laurea presso l'univ. di Padova, a.a. 1968-69; per gli stessi possedimenti, Medin, Gli scritti..., p. 351, n. 4; per altri beni in Terraferma, J. C. Davis, Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal '500al '900, Roma 1980, p. 64. Per Arsenio Apostoli, figlio di Michele, vedi D. Geanakoplos, Bisanzio e il Rinascimento, Roma 1967, pp. 57, 214. Per i suoi versi greci in onore del D., Rigo, Catalogo..., p. 62, n. 67, e I. Hardt, Catalogus codicum manuscriptorum Graecorum Bibl. Reg. Bavaricae, V, Monachii 1812, p. 262. Per la questione del Filioque e le discussioni conciliari, J. Gill, Il concilio di Firenze, Firenze 1967. Per l'ultima legazione romana, S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1856, passim; K. M. Setton, The Papacy and the Levant (1204-1571), Philadelphia 1976-1984, ad Ind.; F. Seneca, Venezia e papa Giulio II, Padova 1962, passim. Per la valutazione della figura del D. nell'ambito della cultura veneziana e, in genere, umanistica, V. Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento. Ermolao Barbaro e il suo circolo, in Storia della cultura veneta, III, 1, a cura di G. Arnaldi-M. Pastore Stocchi, Vicenza 1980, pp. 166 ss.; A. Pertusi, L'umanesimo greco dalla fine del sec. XIV agli inizi del sec. XVI, ibid., pp. 177 ss.; M. L. King, Venetian humanism in an age of patrician dominance, Princeton 1986, ad Indicem; C. Dionisotti, Geografia e storia della lett. ital., Torino 1967.