FEDERICI, Girolamo (Hieronimus Friderius, Gerolamo Federico Trivulzio, Girometta)
Nacque a Treviglio, in provincia di Bergamo, nel 1516, da una nobile famiglia originaria della Val Camonica, stabilitasi nella regione trevigliese alla fine del XIV secolo. Della sua famiglia si conoscono il nome della madre, Margherita Buttinoni, e dei tre fratelli: Giovanni Maria, Giovanni e Giovanni Stefano. Divenuto sacerdote, venne presto chiamato a Roma dallo zio materno G. M. Buttinoni, vescovo di Sagona; qui si dedicò con precoce impegno agli studi di diritto canonico e civile, laureandosi, secondo il Samarati, nel 1534. Nel 1540 fu nominato luogotenente dell'uditore generale della Camera apostolica, carica ricoperta in quegli anni da Giambattista Cicala. Il F. fu luogotenente per circa undici anni e divenne espertissimo nel risolvere le difficili cause che si discutevano nel supremo tribunale della Curia romana. Una raccolta delle sentenze da lui emanate fu curata nel 1615 da Prospero Farinacci, che la pubblicò a Torino con il titolo di Responsorum criminalium.
Nel 1550 moriva G. M. Buttinoni; la sua diocesi, posta nella parte occidentale della Corsica, venne data nel 1551 in commenda al Cicala. Egli vi rinunciò in favore del F., riservandosi però il diritto di reingresso di cui si avvalse nel 1562. Il F., dopo essere stato insignito della dignità episcopale, successe allo zio il 12 febbr. 1552. Papa Giulio III, nello stesso anno, lo confermò assessore della congregazione dei S. Offizio, nel 1553 lo nominò vicelegato del Patrimonio e il 21 genn. 1555 governatore di Roma, carica dalla quale fu destituito da Paolo IV il 5 luglio 1555. Tornato per un breve periodo nella città natale, il F. fu richiamato da Pio IV al governatorato di Roma il 6 marzo 1560 e nel 1561 fu eletto referendarius utriusque signaturae. Nel nuovo periodo di governo, durato fino alla primavera del 1563, gli venne affidata l'istruttoria del processo contro i nipoti di Paolo IV, i cardinali Carlo, Alfonso e Giovanni Carafa, duca di Paliano.
Il processo e la condanna dei Carafa furono voluti da Pio IV che li usò, come afferma l'Ancel, quali revisione generale dell'operato politico di Paolo IV giudicato funesto per la S. Sede. A tal fine l'istruttoria fu affidata a giudici sicuramente ostili agli imputati quali il F., destituito dalla carica di governatore all'avvento di Paolo IV, e il procuratore fiscale Alessandro Pallantieri, imprigionato per vari anni nelle carceri di Tor di Nona per volere di Carlo Carafa. Entrambi si prodigarono per stabilire i capi d'accusa contro gli imputati. Il processo infatti fu un processo politico anche se Alfonso Carafa fu accusato di furto, il duca di Paliano di aver ucciso la propria moglie e il suo amante e il cardinale Carlo di complicità nell'omicidio.
Il 15 genn. 1561 ebbe luogo il concistoro nel quale il procuratore fiscale comunicò che l'istruzione del processo era espletata e che dopo il rapporto del governatore ai cardinali, il pontefice avrebbe emesso la sentenza. Il 3 marzo 1561 si ebbe il concistoro definitivo nel quale il F. arringò, per sette ore, i nove cardinali preposti al giudizio. Carlo Carafa e il duca di Paliano furono condannati a morte e giustiziati nella notte del 5 marzo, Alfonso dovette pagare 100.000 scudi per riottenere la libertà. La revisione del processo, che ebbe luogo nel 1566, sotto il pontificato di Pio V, stabilì che il F. aveva fornito ai cardinali una errata interpretazione dei fatti, ma il concistoro del 26 sett. 1567 riabilitò il solo cardinale Carlo.
Il 6 luglio 1562, per il reingresso di G. Cicala, il F. fu trasferito dalla diocesi di Sagona a quella di Martirano, piccola sede vescovile, suffraganea dell'arcivescovato di Cosenza, dove giunse il 7 agosto dello stesso anno. Poco dopo Pio IV lo inviò come presidente in Romagna, dove il F. rimase per circa tre anni, sforzandosi di reprimere gli abusi dei governatori. Qui il F. istituì stretti rapporti con il legato Carlo Borromeo e questi, nel 1565, lo volle con sé quando si stabilì nella diocesi di Milano. Il F. collaborò col Borromeo nella controversia, nata nel 1567, con il Senato milanese e partecipò alla visita apostolica del 1568 nel Mantovano, durata cinque mesi, dove l'arcivescovo di Milano si recò a predicare a causa delle sempre più frequenti voci di eresia.
Il 9 marzo 1569 il F. lasciò la diocesi di Martirano. nella quale fu sostituito nell'aprile successivo da Gregorio della Croce. Nel 1573 Gregorio XIII, interessato a conoscere la reale situazione religiosa degli Stati italiani, elesse il F. quale nunzio e legato a latere presso la corte sabauda, con facoltà di visitare tutte le chiese e i monasteri di ogni ordine e grado. Il F., arrivato a Torino tra fine giugno e inizio luglio 1573 sostituiva Vincenzo Lauro, vescovo di Mondovì, trasferito alla nunziatura -di Polonia nell'agosto 1572, diventando così il terzo legato di una nunziatura di tradizioni recenti, istituita stabilmente solo nel 1560.
La situazione religiosa era grave nei domini sabaudi, esposti all'influenza degli ugonotti francesi; la Provenza e il Delfinato erano periodicamente invasi dai riformati e gli ugonotti del marchesato di Saluzzo e della Dora Riparia, esclusi da Emanuele Filiberto dal beneficio della libertà religiosa, minacciavano continuamente di prendere le armi.
Dai numerosi e particolareggiati dispacci del F., indirizzati a Tolomeo Galli, cardinale di Como e segretario di Stato di Gregorio XIII, si apprende che il primo problema che egli si trovò ad affrontare fu il disaccordo tra il duca e la città di Mondovì passata, in seguito alla pace di Cateau-Cambrésis (1559), dal dominio francese a quello sabaudo.
Gli abitanti si mostravano scontenti della nuova amministrazione che li aveva gravati di imposte arrivando, nel 1572, a chiedere il due per cento del raccolto di grani, legumi e castagne. Emanuele Filiberto, al fine di ridurre definitivamente all'obbedienza la città, iniziò la costruzione nel centro di Mondovì di una cittadella fortificata. Mondovì non voleva la fortificazione, sia per timore di perdere le libertà cittadine, sia perché nella località che era stato deciso di fortificare sorgevano le sue più belle e antiche chiese, S. Domenico e S. Donato, e i resti delle trincee costruite per difendere le libertà comunali contro il feudalesimo.
Il 10 giugno 1573 il duca iniziò la demolizione delle chiese senza chiedere licenza alla S. Sede. Il papa, avvertito, dette incarico al F. di risolvere il problema dei frati e dei canonici privati delle loro chiese. Il 31 luglio il F., dopo aver verificato personalmente, con una visita alla città, lo stato delle cose, iniziò le trattative con Emanuele Filiberto che giustificò la cittadella quale baluardo contro l'eresia ugonotta. L'accordo fu raggiunto con l'assoluzione dalle censure ecclesiastiche in cui erano incorsi il duca e quanti avevano operato alla demolizione delle chiese, con la regolamentazione del risarcimento alle comunità religiose danneggiate dei domenicani e gesuiti e il trasferimento della cattedrale nella chiesa di S. Francesco.
Per il resto dei tre anni del suo mandato il F. si occupò di visitare i monasteri e le chiese dello Stato sabaudo secondo i dettami tridentini, e capì ben presto che se il problema religioso più appariscente era rappresentato in Piemonte dagli eretici, quello sostanziale era da ricercare nella decadenza dei costumi del clero secolare e regolare.
Il piglio fin troppo deciso, frutto degli insegnamenti appresi dal Borromeo, che il F. usò nell'opera di restaurazione della disciplina ecclesiastica è palese nella soluzione del caso di spiritismo accaduto nella certosa di Chiusa di Pesio. Qui un novizio elargiva profezie sulla sorte della Chiesa affermando di parlare per bocca dei santi e picchiava i monaci mostrando di essere posseduto dal demonio. Venuto a conoscenza del fatto nel dicembre 1574, il F. chiese una relazione sul caso all'Albosco, priore della certosa, che riferì la sua intenzione di condurre il novizio a Roma per sottoporre il caso al papa, non prima tuttavia di aver visitato il cardinale Borromeo a Milano. Partito alla volta di Roma, il priore fece tappa a Milano dove il suo viaggio si concluse sia per un attacco di gotta sia per il timore delle punizioni già annunciate dal nunzio. Il 13 febbr. 1575 il F. riuscì a catturare l'Albosco e il novizio. Si recò poi di persona nella certosa di Pesio dove trovò che i monaci avevano compiuto atti di adorazione intorno al novizio e alle sue cose riducendo la sua cella, con altare e torce, ad una cappella dove si recavano in processione. Il F. scoprì anche che l'Albosco aveva forzato con minacce i monaci increduli o renitenti a queste pratiche. Stabilito, grazie alla piena confessione del novizio, che la simulazione era stata istigata dal priore, il F. fece imprigionare l'Albosco che non confessò mai ed anzi, nel febbraio 1577, riusci a fuggire dalla prigione. Il novizio invece fu salvato a stento dopo aver tentato per il rimorso il suicidio.
L'arcivescovo di Torino G. Della Rovere, persuaso che lo zelo del F. interferisse con la propria potestà, se ne lamentò con la Curia romana. Il F. si difese denunciando le gravi defezioni nell'attività pastorale dell'arcivescovo e, ottenuto il pieno appoggio della S. Sede, visitò nel settembre 1575 le chiese secolari e regolari di Asti e Vercelli e nel maggio del 1576 chiese sovvenzioni alla Curia per la visita generale da tenersi in Savoia. Il 6 ag. 1576 Gregorio XIII in seguito alla morte di Antonio Garampi elesse il F. vescovo di Lodi.
La visita in Savoia iniziò ugualmente alla fine di agosto, quando risalita la Valle di Susa il F. entrò in Savoia accompagnato, tra gli altri, da G. F. Bonomi, vescovo di Vercelli. La visita ebbe termine il 6 nov. 1576 con il ritorno del F. a Torino; nella seconda metà del gennaio 1577 il F. e il Bonomi, tornato dalla visita ai maggiori centri della Valle d'Aosta, elaborarono i dati raccolti per farne relazione alla S. Sede.
Il F. si trattenne a Torino, per problemi della nunziatura prima e per malattia poi, fino al novembre 1577, prendendo possesso del vescovato di Lodi nel dicembre dello stesso anno. A Lodi, continuò l'azione intrapresa dal vescovo Garampi Rer la sistemazione delle questioni inerenti i beni della diocesi. Intraprese la visita della diocesi e privò delle loro prebende alcuni canonici ritenuti incapaci. Fece in modo che i canonici di S. Defendente e molti cittadini si unissero nell'Arciconfraternita del Gonfalone onde usufruire delle indulgenze. Nel suo rigore proibì la fiera che si svolgeva a Lodi il 5 agosto; nel 1578 concesse alla nobile lodigiana Zenobia Modegnani di seguire, con alcune fanciulle, la regola di s. Chiara delle cappuccine di Milano. Nel maggio 1579 prese parte al quinto concilio provinciale della diocesi di Milano indetto dal Borromeo.
Tornato nella sua sede in Lodi, vi morì il 6 nov. 1579. Le esequie furono celebrate da G. Ragazzoni, vescovo di Bergamo.
Nel 1577, alla fine dei tre anni di nunziatura in Piemonte, il F. pubblicò in Torino una raccolta di decreti per l'applicazione della riforma tridentina negli Stati sabaudi; il libro, Generalia decreta in visitatione edita, si articola in quattro parti: De fide catholica, de ecclesiarum culto, de iis quae ad clerum pertinent, de regularibus, ed è stato considerato di grande valore per la coerenza dell'analisi dei mali della Chiesa in Piemonte e la completezza delle soluzioni disciplinari, liturgiche, giurisdizionali, dogmatiche e pratiche per risolverli. I decreti del F. rimasero inapplicati; Emanuele Filiberto infatti accompagnò la pubblicazione del testo con una clausola restrittiva che ribadiva i privilegi concessi dalla S. Sede alla casa Savoia, riproponendo l'istituto della placitazione con cui il duca di Savoia si cautelava contro ogni lesione dei propri diritti da parte della S. Sede.
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