GARIMBERTO (Garimberti), Girolamo
Nacque a Parma il 5 luglio 1506, da Ilario (altre fonti sostengono dal conte Garimberto) e da Angiola, di cui non si conserva il cognome.
Il casato dei Garimberti era emerso attraverso l'esercizio di importanti cariche pubbliche nel corso del sec. XIV, quando il "popolo" reggeva il Comune di Parma; i Garimberto avevano nondimeno acquisito già durante il sec. XV titoli nobiliari e aderito alla fazione della potente famiglia aristocratica Rossi e alla parte cosiddetta guelfa.
Il G. fu avviato agli studi umanistici; quindi si trasferì a Roma. Mentre ancora tentava di intraprendere la carriera nella Curia pontificia, nel 1527 si trovò ad accompagnare Clemente VII a Orvieto durante la sua fuga da Roma, sconvolta dal sacco. Durante il pontificato di Paolo III entrò nell'entourage del cardinal nipote Alessandro Farnese e fu probabilmente nel 1538 in Provenza nella legazione pontificia che tentava di stabilire la pace tra Carlo V e Francesco I. Gli anni del pontificato farnesiano coincisero altresì con l'avvio di una intensa attività culturale: il G. allacciò contatti con Claudio Tolomei e con il filosofo Antonio Bernardi, entrò in corrispondenza con Bernardo Tasso e con Pietro Aretino; nello stesso torno di anni intraprese una produzione letteraria di rilievo. Pubblicò un dialogo di argomento politico, dal titolo De' regimenti publici de la città (Venezia, G. Scotto, 1544), un trattato Della fortuna (ibid., M. Tramezzino, 1547) e un'opera di divulgazione filosofica, i Problemi naturali e morali (ibid., V. Valgrisi, 1549).
Intorno alla metà del Cinquecento, la personalità del G. si precisò. Dimostrò infatti uno straordinario interesse per gli oggetti d'arte e per l'antiquaria. Nel 1550, il suo alloggio presso la residenza romana del cardinal Niccolò Gaddi (a Montecitorio) venne visitato da Ulisse Aldovrandi, che menziona il G. nel suo Delle statue antiche (edito nel 1556). Inoltre, il G. pubblicò nel 1551 (dedicandoli a Tolomeo Gallio, futuro cardinale e capo della segreteria di Pio IV e Gregorio XIII) i Concetti divinissimi… per scrivere familiarmente (Roma, V. Valgrisi, e Venezia, G. Bonelli): una compilazione (destinata a largo eco) di locuzioni, modi di dire, esempi tratti dai classici, indirizzata ai segretari e al pubblico colto. Quindi, indirizzò a Ottavio Farnese, duca di Parma, un trattato di argomento politico-militare, Il capitano generale (Venezia, G. Ziletti, 1556). Nel contempo, il G. entrò al servizio del cardinale Otto von Truchsess, vescovo di Augusta, e si distinse anche come informatore politico del cardinale Rodolfo Pio di Carpi.
L'elezione di Pio IV, alla fine del 1559, segnò una svolta nella carriera del Garimberto. Dopo essersi infatti impegnato come conclavista per il già menzionato cardinale Otto von Truchsess, il G. fu ammesso tra i canonici di S. Pietro. Quindi (il 17 marzo 1563) fu consacrato dal neoeletto pontefice vescovo della diocesi di Gallese nel Lazio, istituita nell'occasione. Fu lo stesso G. ad annunciare che la nomina era stata corredata da "trecento scudi di dote e duecento di pensione" (a Cesare Gonzaga, Roma, 20 marzo 1563, cit. in Brown, 1993, p. 70). L'attività pastorale del G. rimase tuttavia assai limitata: la carica di vicario della basilica di S. Giovanni in Laterano, che tenne fino al 1575, anno della morte, lo obbligava infatti a risiedere a Roma; inoltre, "come vescovo sgangherato" si astenne "dal viaggio del Concilio" (ibid.) riunito in Trento e solo di rado si recò "a visitare il campanile di Gallese" (31 maggio 1563: ibid.). Inoltre, il G. mostrò di adattarsi con molta fatica al nuovo clima che gli anni immediatamente successivi alla conclusione del concilio portarono nella corte di Roma. Infatti, nei primi anni del pontificato di Pio V (eletto nel 1566), rigoroso fautore della riforma, specie nei confronti dei vertici ecclesiastici, il G. ironizzò spesso sull'attività di quelli che egli definiva "i Reverendissimi Riformatori de la Santa Riforma di Roma" (lettera al cardinale Alessandro Farnese, Roma 9 ag. 1566: ibid., pp. 66 s., n. 6).
Invece, il G. continuò a dedicarsi instancabilmente alla sua opera di procacciatore d'affari nel ramo delle collezioni d'arte, soprattutto a stretto contatto di personaggi d'alto rango quale Cesare Gonzaga, signore di Guastalla. Riuscì così a divenire uno dei principali collezionisti di Roma. Già nel 1565 aveva acquistato parte della collezione di statue di Francesco Lisca, mercante milanese attivo in Roma, da poco defunto; e aveva facetamente denunciato la propria intenzione di fare acquisti "tuttavia più ingordamente" (lettera a Cesare Gonzaga, Roma, 1° luglio 1565: ibid., p. 107). Dichiarò altresì che solo lo "spavento di questi Reverendi Riformatori" lo tratteneva dall'investire tutte le sue disponibilità finanziarie nell'attività di collezionista (allo stesso, Roma, 8 apr. 1572: ibid., p. 119). Alla fine del secolo, la sua collezione di statue antiche, bronzetti, quadri, libri di pregio e medaglie era nota a tal punto da essere inclusa da Giovan Battista de' Cavalieri nelle tavole del suo libro Antiquarum statuarum Urbis Romae tertius et quartus liber (Romae 1594).
Ma in questo torno di anni era anche proseguita la produzione letteraria. La più importante opera è quella dedicata alle Vite dei pontefici e dei cardinali (La prima parte delle vite, overo Fatti memorabili d'alcuni papi, et di tutti i cardinali passati, Venezia, G. Giolito de' Ferrari, 1567). Si tratta di una vera e propria galleria di esempi di carriere ecclesiastiche nella corte di Roma. Fu però proprio quella del G., nel mutato contesto del pontificato Ghislieri, a subire una brusca battuta d'arresto: nel maggio 1566 il G. dovette cedere la propria diocesi (destinata a essere soppressa entro pochi anni, nel 1569) al teologo domenicano Gabriele de Alessandri, anche se ottenne di poter mantenere il titolo di vescovo di Gallese.
Gli ultimi anni del G. furono occupati quasi interamente dal collezionismo d'arte. Il G. sembrò però allentare i propri legami con i Gonzaga: si legò a membri di casa Savoia, strinse di nuovo contatti con il cardinale Alessandro Farnese, suo antico "padrone". Morì a Roma il 28 nov. 1575 e venne seppellito nella basilica di S. Giovanni in Laterano.
Alla morte del G., che aveva ottenuto dal pontefice un'ampia facultas testandi già nel 1565, la sua collezione, passata al nipote Giovan Francesco, conobbe una rapida dispersione. Di sicuro alcune opere passarono ai Farnese. Somiglianze si notano tra il Filosofo, la Venere e il Cupido di proprietà del G. e opere dallo stesso soggetto appartenenti alla collezione del marchese Vincenzo Giustiniani nel 1631. Non sono invece confermati passaggi di pezzi della collezione del G. a quella Borghese. Infatti, la parte più cospicua passò nel 1583, per il tramite di Orazio Muti, cognato di Giovan Francesco Garimberto, ai Savoia. Nessuna notizia si ha invece della sua biblioteca, ricca già nel 1572 di circa 2000 volumi. Alle opere già menzionate, l'erudito parmense Ireneo Affò aggiunge un Compendio istorico della famiglia Rossi di Parma, rimasto manoscritto.
Nel tracciare un bilancio dell'attività culturale del G., si deve innanzi tutto ricordare la rimarchevole fortuna di alcune sue opere: i Concetti divinissimi conobbero infatti, dopo la prima uscita contemporanea a Roma e a Venezia del 1551, almeno altre sedici edizioni, fino al 1609. I Problemi naturali e morali ebbero una traduzione francese a cura di J. Louveau (Lyon, G. Roville, 1559). L'opera in sei libri Della fortuna, più volte ristampata, fu tradotta in castigliano da J. Mendez de Avila con il titolo Theatro de varíos y maravíllosos acaecímientos de la mudable fortuna… (Salamanca 1572).
Il G. ebbe ingegno pronto, una solida cultura di stampo umanistico, vasti interessi e spregiudicatezza di giudizio. Intese sempre raggiungere il vasto pubblico colto con le sue opere, come appare chiaramente non solo dall'impianto dei Concetti divinissimi, ma anche dal proposito espresso nei Problemi naturali e morali di "giovar al Volgo […] e dilettando invitar loro a leggere" (Dedica, carte non numerate). Anche lo stesso sottotitolo delle Vite (Fatti memorabili d'alcuni papi, et di tutti i cardinali passati) richiama il titolo di uno dei capisaldi della più accessibile cultura umanistica, i Factorum ac dictorum memorabilium libri IX dello scrittore latino Valerio Massimo, raccolta di motti e fatti esemplari tratti dalla cultura classica, opera più volte ristampata, tradotta e molto diffusa.
L'interesse del G. a un aperto dibattito tra i cultori delle lettere lo portò tuttavia a commettere dei passi falsi. Egli non solo citò espressamente brani di Nicolò Machiavelli nel Della fortuna e nel Capitano generale, ma ne richiamò copertamente le tesi anche nell'opera De' regimenti publici de la città. Certo, la definitiva condanna da parte delle autorità ecclesiastiche del Machiavelli doveva ancora essere pronunciata (fu espressa nell'Indice del dicembre 1557). Ma la familiarità con le opere di un autore già molto sospetto intorno al 1550 non poteva gettare buona luce sul G. presso la corte pontificia. A ciò si deve aggiungere l'aperta denuncia contenuta nelle Vite di "quella corruttela nella religione, c'hoggidì non potemo veder senza lagrime" (Vite…, cit., p. 499), causata, secondo il G., dalle scandalose pratiche diffuse anche ai livelli più alti in corte di Roma. E si devono anche ricordare, nella stessa opera, non solo critiche agli eccessi "temporali" di Giulio II e Leone X, ricalcati sul giudizio che Francesco Guicciardini aveva espresso nella Storia d'Italia, ma anche elogi dedicati a personaggi dalla memoria ormai piuttosto sospetta come i cardinali Reginald Pole e Gasparo Contarini. Ciò non è ovviamente abbastanza né per porre il G. tra gli esponenti del cosiddetto "evangelismo italiano", né per confermare la tesi (enunciata dal solo Affò) di un ritiro forzato delle Vite dal mercato editoriale. Piuttosto, al G. si deve riconoscere coerenza nel tentativo di conservare libertà di giudizio e ampia facoltà di azione culturale in un contesto, la Roma dei primi anni della Controriforma, radicalmente mutato rispetto ai decenni centrali del Cinquecento.
Fonti e Bibl.: Per le fonti manoscritte si rimanda a C.M. Brown, Our accustomed discourse on the antique. Cesare Gonzaga and G. G. Two Renaissance collectors of Greco-Roman art, New York - London 1993, che contiene anche una ricca bibliografia. Si segnala inoltre: Archivio segreto Vaticano, Fondo Pio 55, cc. 76r-83v (lettere del G. al cardinale R. Pio di Carpi); ivi, Armadio LII, t. 3, c. 101r (facultas testandi concessa nel 1565 da Pio IV al G.). I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, IV, Parma 1793, pp. 137-144; D. Cantimori, Le idee religiose del Cinquecento. La storiografia, in Storia della letteratura italiana, V, Il Seicento, Milano 1967, pp. 59-62; M. Mastrocola, Note storiche circa le diocesi di Civita Castellana, Orte e Gallese, III, I vescovi dalla unione delle diocesi alla fine del concilio di Trento, Civita Castellana 1972, pp. 124 s., 136, 168 s.; N. Longo, De epistola condenda. L'arte di componer lettere nel Cinquecento, in Le "carte messaggiere". Retorica e modelli di comunicazione epistolare: per un indice dei libri di lettere del Cinquecento, a cura di A. Quondam, Roma 1981, p. 199; M. Rosa, Carriere ecclesiastiche e mobilità sociale: dall'Autobiografia del cardinale Giulio Antonio Santoro, in Fra storia e storiografia. Scritti in onore di Pasquale Villani, a cura di P. Macry - A. Massafra, Bologna 1994, pp. 572-577; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell'età moderna, Roma-Bari 1995, p. 73; G. van Gulik - C. Eubel, Hierarchia catholica, III, Monasterii 1923, p. 200.