GIUSTINIAN, Girolamo
Primogenito di Pietro di Girolamo e di Marina Giustinian di Daniele di Antonio, nacque a Venezia il 24 ag. 1611.
Questi due rami della casata avevano una comune origine, seppure lontana nel tempo, e risiedevano anche in palazzi vicini, prossimi a Ca' Foscari sul Canal Grande (forse questo contribuisce a spiegare una certa frequenza di matrimoni fra le due famiglie). Essi venivano comunemente distinti con il soprannome: il ramo del G. con quello di "budelle d'oro", icastico omaggio al patrimonio di vaste proprietà nel Trevigiano; quello della sposa con quello "dai vescovi". Vescovo, a dire il vero, prima di Vicenza e poi di Bergamo, sarebbe divenuto un fratello del G., Daniele, mentre un altro, Marcantonio, addirittura doge; e ciò basta a far comprendere il grado di ricchezza e prestigio della famiglia.
Anche la vita del G. dipese in gran parte dalla disponibilità economica lasciata dal padre, unico maschio superstite del suo ramo, morto quando il G. aveva solo dieci anni e cinque fratelli minori. Trovatosi a essere il capofamiglia, decise di dedicarsi alla politica, riservando al fratello Francesco il compito di assicurare la continuità del ramo. Nel 1638, infatti, Francesco sposò Elena Michiel di Sebastiano di Antonio, da cui ebbe una numerosa prole. A quel tempo il G. aveva già iniziato il suo cursus honorum nel modo più dispendioso: era ambasciatore, e si può dire che trascorresse il resto della vita all'estero rappresentando la Repubblica presso le maggiori corti europee, conseguendo onori e fama ma, ovviamente, profondendovi un fiume di ricchezze.
Eletto savio agli Ordini il 17 sett. 1636, giusto a ridosso del venticinquesimo compleanno, a distanza di poco più di un mese (24 ottobre), con progressione fulminea si ritrovava destinato ambasciatore in Olanda. Lasciò Venezia un anno dopo in compagnia del fratello Giovanni, rimasto con lui per tutto il corso della legazione; il primo dispaccio, datato 3 sett. 1637, fu spedito da Trento, poi passò a Innsbruck, ad Augusta e a metà ottobre giungeva a destinazione.
Le Province Unite si trovavano in guerra con la Spagna, appoggiate dalla Francia del Richelieu; le operazioni militari ristagnavano nelle Fiandre, a Saint-Homère, attorno alle fortezze assediate. Ma soprattutto sul commercio marittimo doveva appuntarsi l'attenzione ammirata del G., su quel mare che ora rappresentava la fortuna degli Olandesi, dall'Indonesia alle Americhe, come un tempo aveva costituito, in ambiti più ristretti, il fulcro della potenza veneziana. Impossibile, al momento, confrontarsi con loro; ormai remoto il ricordo di quando, un quarto di secolo avanti, il Senato aveva dibattuto sul concedere la cittadinanza veneziana ai mercanti delle Province Unite che l'avevano sollecitata. Necessariamente modesti, nelle commissioni del G., gli obiettivi della Serenissima, limitati a qualche cauto sondaggio precauzionale presso quel governo per ottenere vascelli e munizioni, in caso di ritorsioni turche per l'affondamento di alcune galere barbaresche nella baia di Valona a opera di Marin Antonio Cappello (7 ag. 1638); e, soprattutto, volti alla speranza di incrementare il commercio dei vini di Candia con quegli Olandesi che erano ormai saldamente inseriti nei traffici mediterranei, dai terminals carovanieri del Levante siriaco a Cadice e Siviglia, ove potevano operare con la connivenza di funzionari corrotti e la copertura degli stessi feudatari spagnoli che in teoria avrebbero dovuto tutelare i diritti della Corona. Per Venezia si trattava di non farsi emarginare del tutto dai flussi mercantili del Mediterraneo e conservare almeno il controllo sull'Adriatico; donde gli sforzi del G. - da lui illustrati come notabile impresa, il 21 maggio 1638 - di persuadere il giurista Theodore Graswinckel a non dare alle stampe il suo Mare clausum (che si richiamava apertamente al Mare liberum di H. Grotius), ritenuto pregiudizievole ai diritti veneziani sul "Golfo". Non aveva nient'altro da offrire, Venezia, né altro da chiedere all'Olanda, se non l'impegno a corrispondere con l'invio di un ambasciatore tra le lagune ai riguardi che essa le dimostrava con la presenza, appunto, del G.: forte di questa promessa, il diplomatico prese congedo dagli Stati Generali a fine marzo del 1641 e il 9 aprile partì alla volta di Parigi.
Dal 1° febbr. 1640, infatti, gli era stato addossato il peso di questa nuova missione (accompagnato dall'onorifica elezione al saviato di Terraferma, per il quale, secondo prassi, si riservò "il loco", ossia il diritto di ottenerlo al rientro in patria). Giunse nella nuova sede il 29 apr. 1641, sempre accompagnato da Giovanni, cui si sarebbe unito a Parigi un altro fratello, Marcantonio, che a sua volta sarebbe stato ambasciatore in Francia tra il 1665 e il 1668, prima di assurgere al dogato. Il G. fu presentato a Luigi XIII dal predecessore Angelo Correr, personaggio di grande levatura; riuscì a sua volta a dimostrarsi all'altezza della situazione, agevolato anche dal fatto che Venezia non era impegnata nella guerra dei Trent'anni e si adoperava manifestamente per quella pacificazione generale che nel '48, a Münster, avrebbe posto fine al lungo conflitto europeo.
La Francia era alleata con Olanda, Svezia e il principe Bernardo di Weimar contro Spagna, Impero e la Lega dei principi protestanti; le operazioni militari sulle quali si incentrò l'attenzione del G. si svolgevano soprattutto in Lorena e Piccardia. Taluni suoi dispacci sono pezzi di bravura nel descrivere dettagliatamente le battaglie di maggior risonanza, alle quali assistette da vicino seguendo il re in varie campagne: spicca quello del 16 luglio 1641, minuzioso ma vivacissimo resoconto della sconfitta dei Francesi a La Marfée presso Sédan, dove trovò la morte Luigi di Borbone-Soissons, principe di sangue reale passato a militare nel campo avversario. L'anno dopo, tra febbraio e agosto, il G. fu con la corte a Perpignano, dove Luigi XIII pose il campo per controllare le operazioni militari contro gli Spagnoli, in appoggio alla rivolta catalana.
Defilata la politica italiana, appena increspata dalle mire pontificie sul ducato di Castro, che avevano spinto la Repubblica a unirsi a Modena e alla Toscana; ne erano seguiti scontri con le truppe di Urbano VIII in Polesine, donde gli sforzi del G. per rassicurare il cardinale Richelieu che gli equilibri nella penisola non si sarebbero alterati in favore degli Spagnoli, e la richiesta della mediazione francese per la soluzione della vertenza, poi conclusa appunto in tal modo negli ultimi mesi della permanenza parigina del Giustinian. Intanto alla fine del 1642 era sopraggiunta la morte del Richelieu, preannunciata da una lunga malattia: "È riuscita la di lui morte", scriveva il G. il 5 dic. 1642, "benché preveduta di lunga mano altrettanto improvvisa però, quanto inopportuna allo stato presente delle cose, parendo che la mancanza di questo gran ministro ch'era il primo mobile delle azioni in Europa, dove versava il suo spirito in ogni parte con un supremo genio di felicità, sia quasi un'eclissi della fortuna di questo regno". Più attenta e ricca di particolari la descrizione della scomparsa di Luigi XIII, riferita qualche mese dopo, il 15 maggio 1643. Sentendosi mancare, il sovrano si era rivolto alla moglie "con gran tenerezza", onde la regina "cadé in accidente", mentre il figlio si mostrava "addoloratissimo"; l'indomani il re "restò come morto, perduta la parola, il polso e il colore", ma poi inaspettatamente "rinvenne", sicché "ripresa la parola in assai buon tuono chiamò il medico". Finalmente cadde in agonia pronunciando, a detta del G., tre o quattro storiche sentenze, e morì lo stesso giorno in cui era mancato il padre. La scomparsa, in così breve lasso di tempo, di due protagonisti della politica europea non comportò nell'immediato modifiche di rilievo nella linea politica della Francia, come potevano appurare gli ambasciatori straordinari Giovanni Grimani e Angelo Contarini, che tra la fine di novembre e la metà di dicembre 1643 furono a Parigi per congratularsi dell'elevazione al trono di Luigi XIV; benché, scrisse il G., la nazione fosse "avvezza a non acquietar che nell'inquietudine", la rapida ascesa del cardinale G. Mazzarino prevenne possibili intrighi della nobiltà o dei Parlamenti, allettati dalla minorità del nuovo sovrano: in uno dei suoi ultimi dispacci, il 19 apr. 1644, scrisse infatti che "l'elevazione del favore del cardinale Mazarino appresso la regina, e la confidenza con la maestà sua si fa sempre maggiore ad esclusione di chi si sia".
Nel luglio il G. prese congedo dal re, che lo fece cavaliere, e nel settembre partì per la Spagna, la cui ambasceria gli era stata appoggiata sin dall'11 giugno 1643. L'accoglienza non fu calorosa: la tradizionale politica antiasburgica della Repubblica e la provenienza del G. da una corte nemica lo rendevano sospetto a Madrid, sicché dovette ricorrere a tutta la sua abilità per rovesciare l'iniziale "mala impressione". Seguì Filippo IV nelle campagne militari, ripetendo quel che aveva fatto con Luigi XIII nel '42: "a me ha toccato - scriverà nella relazione - far due campagne in Spagna, e come in Francia passai al confin di Spagna, così in Spagna passai a quel di Francia, cioè nella Navarra, accompagnando il re".
Quattro anni sarebbe durata la permanenza iberica del G., che spedì da Madrid il suo ultimo dispaccio il 21 nov. 1648; lesse la relazione l'11 febbr. 1649. Il documento, ricco di notizie, preciso nell'introspezione psicologica dei personaggi, vivace nell'espressione, rientra nella grande tradizione degli scritti politici veneziani, di cui ricalca fedelmente la struttura. Anzitutto presenta la figura del quarantatreenne sovrano: "Il temperamento è flemmatico e melancolico. La natura aggiustata, il corpo gracile e proporzionato, faccia proclive al lungo, amabile e grave. Delineamenti austriaci, bianchi con pelo biondo e con un labbro all'austriaca e che sopraffà l'altro. Comincia esser soggetto alla calvizie, che però non detrae alla venustà. Gode complessione così bilanciata nella proporzione, che non lo fa patir frequente indigestione, anzi goder di pasto abbondante". Inespresse, però, le capacità politiche, avendolo un tempo escluso da ogni pratica il conte-duca d'Olivares, come si ricava dalla precisa analisi del tarlo che rodeva la monarchia spagnola: "Godè nel tempo del conte duca le dolcezze della gioventù più che le notizie del suo governo, onde rimasto senza esperienza, non sa far prove di sé medesimo. Non risolve il re cosa alcuna né di governo, né di politica. La caduta del conte duca […] lo lasciò investito delle sole apparenze del governo, ritenendo i ministri per sé la sostanza […]. Sta tenace in questa servitù per esser inclinato al timor della propria coscienza, onde con sottoscriver all'opinion d'altri, crede esimersi dai rimproveri". Per cui "l'indole che prevale in Sua Maestà è la pietà", che lo spinge a ricusare "risoluzioni gagliarde", ad aborrire "l'esecuzion di sangue", ma che infine "ha dato passo all'impunità". Così il sovrano è poco amato dal popolo, alla qual cosa aggiungendosi la mancanza di eredi maschi, il G. s'induce ripetutamente a pronosticare "mali successi" per l'intero paese. Era la vecchia polemica mirante a distruggere la credibilità morale e politica della monarchia spagnola, che a Venezia trovò sempre favorevole uditorio, e che il G. riprese stigmatizzando le ingiustizie e gli eccessi perpetrati a danno dei nativi dai viceré delle Americhe, che "si saziano d'oro e ritornan ricchissimi", per cui "le cose dell'Indie sono in grandissima declinazione" e quei popoli "minaccian molte ribellioni, le quali quando seguano, per l'immensa distanza, non avran rimedio".
Il G. era stato in Francia e in Spagna, conoscendone punti di forza e debolezze; fra queste ultime l'orgoglio e l'ambizione, la cupidigia di potenza che incessantemente spingevano entrambe le monarchie alla guerra. La rivolta catalana "è un veleno che rode le viscere agli Spagnoli". Quanto alla Francia, le sue armate lottano su troppi fronti: nella Franca Contea, nelle Fiandre, in Navarra, nel Rossiglione; le sue flotte sono impegnate nell'Atlantico e nel Mediterraneo. Il confronto, scritto tra le righe, è con la moderazione della Serenissima, che coltiva la giustizia, che conserva la pace ai propri sudditi; donde una conclusione inaspettatamente ottimistica: "Però Dio non vuole che i francesi, né gli spagnuoli siano padroni del mondo, perciò gli uni travaglia con la miseria e son gli spagnuoli, e gli altri con la felicità come francesi; felice chi potesse conservarsi tra due così gran torrenti in asciutto".
Tornato a Venezia dopo undici anni di lontananza, il G. entrò subito a far parte dei savi alla Mercanzia (vi era stato eletto sin dal 31 ott. 1648), quindi divenne savio del Consiglio per il primo semestre del 1649 e conservatore del deposito in Zecca dal 25 settembre dello stesso anno; ancora savio del Consiglio per il primo semestre del 1650 (in tale veste cercò di favorire l'aggregazione al patriziato della famiglia Barberini), fra il 1650 e il 1651 fu inoltre commissario sopra i confini del Vicentino, provveditore in Zecca, alla Giustizia Vecchia, alle Fortezze. Dopo di che dovette intraprendere una quarta ambasceria, alla quale era stato eletto il 16 ag. 1650; stavolta si trattava di rappresentare la Repubblica presso l'imperatore. Può stupire che accettasse, dopo avere insistito nella relazione di Spagna sull'enormità delle spese sostenute, che avevano minato il patrimonio domestico; evidentemente non era così, oppure gli era stata fatta balenare qualche valida contropartita, presente o futura (si spiegherebbe in tal modo, ad esempio, l'elezione ducale del fratello Marcantonio, privo di particolari meriti).
Lasciata Venezia insieme con il segretario Ferdinando Vianol il 1° luglio 1651, si recò a Vienna per la Valsugana e il Trentino. La missione, durata sino al gennaio '55, fu meno faticosa e difficile delle precedenti, pur essendo Venezia ormai da molti anni impegnata nella guerra di Candia e quindi bisognosa di aiuto: ma l'Austria, nonostante avesse i Turchi a due passi, in Ungheria, non era in grado di muovere loro guerra, né direttamente né in altro modo. Tutto questo il G. lo sapeva benissimo e se ne fece una ragione: la relazione conclusiva, letta in Senato il 25 febbr. 1655, tace sugli sforzi esperiti per muovere Ferdinando III contro gli Ottomani, e si limita a ritrarre la figura del sovrano, le caratteristiche del governo, i principî ispiratori della politica interna ed estera, quasi a confezionare una sorta di memorandum fruibile in un futuro meno chiuso a una eventuale collaborazione veneto-imperiale.
Si distinguono nel documento molte e talora splendide pagine dedicate al sovrano, duramente colpito dalla prematura morte del figlio ed erede. Ha appena quarantasei anni Ferdinando, eppure appare al veneziano di "età declinante", di "salute debole", di "assai delicata complessione". La causa della senescenza precoce è individuata, appunto, nell'"accidente gravissimo" della morte del re dei Romani, per cui l'imperatore si dimostra "alienissimo […] da impegni d'armi" e nel contempo "annoiato dalle cure politiche" e poco sensibile "all'emergenze d'Europa". Ovvio corollario, per quanto attiene alle circostanze in cui versa la Serenissima, è che "il miglior antemural che habbi l'imperatore al presente contro il Turco, e miglior bastion di quella frontiera è l'esser il Turco impegnato in guerra con la Republica. Onde non complirà mai a' cesarei veder la pace tra Vostra Serenità et il Turco". A Vienna poi Venezia non è amata, persuasi come sono gli Imperiali che "venendo occasione, sempre la Republica sii per adderire a' nemici di casa d'Austria"; vi era inoltre chi soffiava nel fuoco della reciproca diffidenza, perché "Spagnuoli vomitan qui in Germania tutto quel veleno contro Vostra Serenità che tengono occulto in Spagna, e fan come li scorpioni, che lo trasmettono nella coda"; e tra Madrid e Vienna è "tutto un sangue, tutta una pasta".
In mancanza di argomenti, dunque, il veneziano indulge a valorizzare il suo scritto con ricercatezze e pezzi di bravura stilistica, come nel descrivere la versatilità dell'imperatore ("Possiede molte lingue, la italiana perfettamente, la latina francamente, la spagnuola bastantemente, e naturalmente l'allemana"), oppure il suo atteggiamento verso i principi tedeschi ("Con Magonza confida, con Colonia scansa, con Treveri scorre, con Sassonia si corrisponde, con Brandeburg dissimula, con Baviera s'intende e col Palatin temporeggia").
Rimpatriato, il G. trascorse nella sua città appena qualche mese, poiché l'attendeva ancora un'ambasceria, quella romana, cui era stato eletto mentre si trovava in Germania, il 3 nov. 1653. Spedì da Ancona il primo dispaccio della nuova legazione il 13 dic. 1655 e prima di Natale subentrò al predecessore Nicolò Sagredo. I rapporti veneto-pontifici erano allora tutti incentrati sulla guerra di Candia, entrata ormai nel suo undicesimo anno, sugli aiuti incessantemente richiesti da Venezia e subordinati da Roma alla riammissione del gesuiti nella Serenissima, dopo un esilio ormai cinquantennale. Pur "inclinatissimo ai gesuiti", nel luglio 1656 il filopontificio G. non esitò tuttavia a mandare a monte l'ennesima trattativa, formulata in termini da lui ritenuti pregiudizievoli degli interessi veneziani.
Non gli fu dato di operare molto di più; la peste che travagliava la città lo portò via all'improvviso. Morì il 15 ag. 1656, "in concetto d'huomo generoso et molto bene accostumato" (Copella politica); fu sepolto a Roma nella chiesa di S. Marco con un'iscrizione latina, voluta dai fratelli, che ne sottolineava l'immatura scomparsa: aveva solo quarantacinque anni.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia ven., 23: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti, p. 468; Segretario alle voci, Elezioni in Pregadi, regg. 13, cc. 22, 156; 14, cc. 13, 70; 15, cc. 4, 43, 68-69, 155; 16, cc. 1, 31, 35, 44, 68, 86, 89, 101, 132; 17, c. 43; Senato, DispacciSignori Stati (Olanda), filze 34-36; Senato, DispacciFrancia, filze 96-101; Capi del Consigliodei dieci, Lettere di ambasciatori, b. 11, nn. 246-251 (Francia, 1641-43); Senato, DispacciSpagna, filze 79-82; Capi del Consiglio dei dieci, Letteredi ambasciatori, b. 30, n. 146 (Spagna, 1645); Senato, DispacciGermania, filze 100-104; Senato, DispacciRoma, filze 137, 139; Capi delConsiglio dei dieci, Lettere di ambasciatori, b. 27 (Roma 1656); Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod.Cicogna, 1511: La Copella politica, c. 64v; Arch. Morosini-Grimani, b. 396 passim (ducali, copie di dispacci, minute e varie carte concernenti l'ambasceria romana); Ibid., Bibl. nazionale Marciana, Mss. it., cl. VII, 1208 (= 8853), cc. 138, 459, 575 (lettere dall'Aia e da Parigi ad Alvise Contarini di Tommaso, bailo a Costantinopoli); 2386 (= 9758), cc. 278-376 (mol-te altre lettere dalla Spagna allo stesso, plenipotenziario a Münster); Relazioni degli Stati europei lette al Senatodagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, s. III, 2, a cura di N. Barozzi - G. Berchet, Venezia 1878, p. 195; Relazioni veneziane. Venetiaansche Berichten over de Vereenigde Nederlanden van 1600-1795, a cura di P.J. Blok, 's-Gravenhage 1909, pp. 278 s., 281 ss.; Calendar of State papers and manuscripts… Venice, XXIV-XXV, a cura di A.B. Hinds, London 1923-24, ad indices (diversi dispacci del G. dall'Olanda e ducali speditegli dal Senato); Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, III, Germania (1557-1654), a cura di L. Firpo, Torino 1968, pp. 1055-1078; VI, Francia (1600-1656), ibid. 1975, pp. XXIX, 929-952 (raccolta di dispacci dalla Francia, con brevi cenni biografici); X, Spagna (1635-1738), ibid. 1979, pp. 123-190 (relazioni di Germania e Spagna).
P.L. Galletti, Inscriptiones Venetae infimi Aevi Romaeextantes, Romae 1757, p. LXXIV; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, Venezia 1827, p. 308; V, ibid. 1842, p. 209; S. Andretta, La diplomazia veneziana e la pace di Westfalia(1643-1648), in Annuario dell'Istituto storico italianoper l'età moderna e contemporanea, XXVII-XXVIII (1975-76), pp. 21, 24 s., 112 s., 126; F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secoli XVI-XVII), Venezia 1982, pp. 150 s.; G. Gullino, Il rientro dei gesuiti a Venezia nel 1657: le ragioni della politicae dell'economia, in I gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia venezianadella Compagnia di Gesù, a cura di M. Zanardi, Venezia 1994, pp. 426 s., 430; A. Pizzati, Commende e politica ecclesiastica nella Repubblica di Venezia tra '500 e '600, Venezia 1997, pp. 257-261; Diz. biografi-co degli Italiani, X, p. 8; XXIX, p. 482.