GRAZIANI, Girolamo
Nacque a Pergola, nell'Urbinate, il 1° ott. 1604 da Antonio e da una Lavinia di cui non si conosce il cognome. A Ferrara, dove il padre era uditore di rota, trascorse l'infanzia e l'adolescenza e intraprese i primi studi di belle lettere. All'età di dodici anni scrisse i primi versi e sedicenne, nel 1621, pubblicò il suo primo canzoniere a Parma: Rime di Girolamo Graziani della Pergola al sereniss. sig. e padrone il sig.re principe d'Urbino, con dedica al duca di Urbino Federico Ubaldo Della Rovere.
Si tratta di una raccolta di 106 sonetti di argomento amoroso. Degni di nota sono i due dedicati a un famoso personaggio femminile dell'epoca, Flaminia, comica della compagnia degli Accesi, cioè Orsola moglie di Pier Maria Cecchini detto Fritellino, direttore della stessa. La silloge contiene anche un epitalamio in ottava rima intitolato Il bagno di Venere, in onore delle nozze di Federico Ubaldo Della Rovere con Claudia de' Medici, avvenute nel 1621; due panegirici, ancora in ottave, uno dedicato alla principessa Giulia d'Este, l'altro, Il sogno di Florido, per il principe Alfonso d'Este, e alcuni madrigali, sempre di argomento amoroso.
Nel maggio del 1619 il G. si era trasferito con l'intera famiglia a Modena, dove il padre aveva ottenuto l'ufficio di podestà, per poi ricoprire, dal 1624 al 1635, l'incarico prestigioso di consigliere di giustizia dei duchi Cesare e Francesco I d'Este. In questo periodo il G. continuò i suoi studi, spostandosi tra l'altro a Parma e a Bologna e ottenendo la laurea in giurisprudenza oltre a quella in lettere umane. Nell'estate 1624 fu protagonista di un misterioso episodio. Sembra si fosse trovato immischiato in una rissa tra il conte Baldassarre Boschetti e tale Giovanni Francesco Livizzano, e che, per atto di difesa, uccidesse, o contribuisse all'uccisione, di Alessandro Forni, mettendosi così contro una delle più potenti famiglie di Modena. Fu insomma costretto all'esilio e a tornare nella città natale, Pergola, nonostante le richieste di franchigia inoltrate al principe ereditario di Modena, Alfonso, al quale tra l'altro inviò nel 1626 alcune rime in morte della principessa Isabella di Savoia, sua consorte. Da allora si moltiplicarono lunghe e intricate trattative, finché nel 1628 il G. poté tornare a Modena. Con la morte, nel dicembre dello stesso anno, del duca Cesare e la successione di Alfonso III la sorte cambiò definitivamente, e il G. venne nominato segretario dei principi, cioè dei figli cadetti, con uno stipendio di 53 lire al mese. Anche quando, qualche mese dopo, il trono passò al duca Francesco I, avendo Alfonso abdicato per farsi cappuccino, il G. mantenne l'incarico, conservandolo fino al giugno 1632. In quell'anno passò al servizio personale del principe Obizzo, fratello di Francesco, che nel 1640 venne eletto vescovo di Modena. Agli anni 1633 e 1634 si fa risalire l'inizio della sua attività diplomatica per conto del Ducato estense.
Tra la fine degli anni Venti e i primissimi Trenta il G. scrisse le sue prime opere di una certa rilevanza: la canzone L'Iride, per le nozze serenissime di Maria Farnese principessa di Parma, e Francesco d'Este duca di Modena (Reggio Emilia 1631) e, soprattutto, il poema epico La Cleopatra (Modena 1631; ampliato Bologna 1653).
L'opera ebbe molto successo all'epoca e venne lodata da numerosi letterati celebri, tra cui Fulvio Testi. Di trama essenziale, densa di scene patetico-sentimentali, si trascina stancamente verso il finale scontato: Cleopatra si toglie la vita, dopo avere assistito al suicidio di Antonio. Unico particolare di un certo interesse è la profezia di Proteo che vaticina la discendenza da Augusto dei signori di Modena.
Alla fine degli anni Trenta un nuovo episodio venne a turbare la vita del Graziani. La sera del 29 ag. 1639, infatti, un misterioso attentatore gli esplose contro un colpo di pistola, ma il proiettile per sua fortuna non partì. L'identità del sicario rimase a lungo incerta, ma in una lettera del 16 febbr. 1641 il G. si dice certo che il mandante fosse il conte Rinaldo Ariosti. In effetti, ormai da tempo il G. appoggiava il principe Obizzo nel suo tentativo di divenire cardinale. Il duca suo fratello, Francesco, osteggiava al contrario questo progetto, preferendogli l'altro fratello, Rinaldo, che ebbe alla fine la porpora (1641). È verosimile che l'Ariosti, schierato contro Obizzo, non fosse dunque estraneo all'attentato. Comunque stessero le cose, i due si sfidarono a duello, ma non sappiamo se ebbe mai luogo. Quel che è certo è che il G. venne costretto per qualche tempo al domicilio forzato all'interno del vescovado e che alcuni mesi dopo, nel 1641, abbandonato l'incarico di segretario di Obizzo, dovette lasciare Modena. Si stabilì così di nuovo a Pergola, dove rimase sino al 1647.
Non dovettero essere anni facili, dedicati soprattutto al tentativo di riacquistare credito presso la corte modenese. Limitata fu così l'attività letteraria. Si può ricordare La Calisto, panegirico in sesta rima alle glorie di Cristina regina di Svezia (Parigi 1644, poi Modena 1656), e, stando anche alle dichiarazioni dello stampatore Soliani, quella che può considerarsi la sua opera principale, Il conquisto di Granata, già intrapreso verosimilmente nel 1635.
Nel gennaio del 1647, alla morte di Fulvio Testi, il G. venne finalmente richiamato a Modena, per succedergli nella carica di segretario di Alfonso, figlio del duca Francesco I. Cominciò così un periodo favorevole e di grandi impegni di Stato. Nel dicembre 1648 si recò in ambasceria a Parigi, per chiedere a nome del duca aiuti nella guerra che il Ducato di Modena stava combattendo contro la Spagna. Nella capitale francese fu testimone dell'episodio della Fronda e dei travagliati momenti che seguirono; ciononostante, anche grazie all'appoggio del cardinale Mazzarino, portò felicemente a termine la missione. Nell'agosto 1649, tornato a Modena, apportò gli ultimi ritocchi al poema a cui da anni ormai lavorava, Il conquisto di Granata, che uscì a Modena nel 1650, dedicato al duca Francesco I. La dedica gli valse un importante riconoscimento in denaro: una pensione annua di 200 scudi, che si aggiunse allo stipendio mensile di 25, percepito già da tempo.
Il Conquisto è un poema epico-cavalleresco in 26 canti, nel quale si narrano le vicende riguardanti l'ultimo dei dieci anni di assedio che il re spagnolo Ferrando d'Aragona (Ferdinando il Cattolico) mise alla città, ultimo baluardo degli infedeli in Spagna. La trama risulta oltremodo intrecciata, complicata dalla serie infinita di travestimenti e agnizioni, e dall'eterno motivo degli amori e dei contrasti tra personaggi appartenenti agli opposti schieramenti. Il re infedele Baudele raduna il consiglio e decide di richiamare Almansorre, campione moro. Questi piomba nel campo cristiano. Ferrando, dotato da Dio di una spada magica, riesce a resistere e dopo alterne vicende gli aggressori sono ricacciati indietro. A questa prima vicenda si intreccia quella d'amore tra Elvira, figlia di Baudele, a sua volta riamata inutilmente da Hernando, e Consalvo, campione cristiano, che ama invece la lontana Rosalba. Elvira viene rapita e il re moro manda Almansorre in cerca della figlia. Nel frattempo Granata vacilla. Il demonio Hidragorre chiama in aiuto Orgonte, che sopraggiunge con un possente esercito. Si scatena una tremenda battaglia. Elvira si perde intanto nelle selve, fino a che non incontra Rosalba, e apprende che ella è l'amante di Consalvo. Sopraggiungono dei corsari che rapiscono le due donne, ma dopo alterne vicende tutti i protagonisti si trovano riuniti e il lettore può scoprirne assieme con essi le reali relazioni di parentela fino ad allora inimmaginabili, soprattutto quella che lega Consalvo alle sorelle Rosalba ed Elvira. Prima della conclusione il G. inserisce due riferimenti propagandistici di natura politica e religiosa. Nel primo un eremita profetizza che Consalvo diverrà il liberatore di Corfù e di Samo e dell'intero Regno di Napoli, offrendo a Ferdinando il Cattolico il dominio dell'Italia tutta. Nel secondo l'inaspettato sopraggiungere di Cristoforo Colombo consente di esaltare la diffusione della verità cattolica in tutto il mondo e la sua forza di conversione. La vicenda può a questo punto chiudersi: Granata è conquistata e il re moro convertito.
Il Conquisto di Granata è stato variamente giudicato dalla critica, che però è complessivamente concorde nell'individuare in esso la prova più riuscita di poesia epica seicentesca successiva alla Gerusalemme liberata. A ciò concorre senza dubbio la tessitura stilistica, assai poco concettosa, e la notevole abilità dell'autore di gestire la complessità della trama. Interessante appare, inoltre, a dispetto delle stroncature degli interpreti primonovecenteschi, il registro patetico sviluppato dal G., che si inquadra nella capacità di fondere tendenze diverse: dal romanzesco all'epico, dal magico allo storico. Secondo A. Belloni, inoltre, il Conquisto servì come fonte al Leopardi del Consalvo, e ciò non solo per l'ispirazione dei nomi (quelli di Consalvo ed Elvira, appunto), ma anche per i possibili calchi tematici: ad esempio l'episodio degli ultimi istanti di vita del cavaliere Osmino, assistito dall'amante Silvera (XVII, 62-65), che somiglia al canto leopardiano.
Ormai la posizione economica e sociale del G. poteva dirsi consolidata. Nel luglio del 1652 venne nominato segretario di Stato e con questa carica, al seguito del cardinale Rinaldo d'Este, si recò a Roma, dove si trattenne dal dicembre 1654 all'aprile 1655, assistendo al conclave da cui uscì papa Alessandro VII. Nel 1658, in ricompensa dei suoi servigi, ricevette il feudo di Sarzano, del valore di 20.000 ducati, nel Ducato di Reggio Emilia, insieme con il titolo di conte. A questi anni risale Il colosso sacro (Parigi 1656), panegirico in sesta rima scritto in onore del cardinale Mazzarino, che era tra l'altro zio di Laura Martinozzi, moglie del duca Alfonso IV.
Con Alfonso IV, succeduto nel 1658 a Francesco I, la posizione di raggiunto equilibrio del G. nella corte estense non subì tracolli. Venne anzi nominato consigliere di Stato e anche sul piano privato conobbe un periodo felice. Nel 1663 sposò la contessa Lavinia Maleguzzi, figlia del conte Orazio, e vedova di Francesco Castelvetro: è verosimilmente questa la donna che ispira, con il nome di Lilla, molti dei sonetti amorosi che compongono la Raccolta di prose e poesie, uscita a Modena nel 1662. Da Lavinia il G. ebbe un figlio, che morì nel 1667, e due figlie, Anna e Francesca. In questi anni e nel successivo periodo, che dal 1662 al 1674 vede la reggenza della duchessa Laura, la sua attività diplomatica raggiunse il culmine: nel 1673 portò a termine il suo principale successo in questo campo, concludendo il matrimonio tra Maria Beatrice d'Este, figlia di Alfonso IV e di Laura, e Giacomo di York, che nel 1685 sarebbe diventato re d'Inghilterra.
Di particolare interesse furono in questi anni le opere scritte per Luigi XIV di Francia, che gli procurarono tra l'altro un'ulteriore sostanziosa pensione: due panegirici in sesta rima, l'Ercole gallico alle glorie della sacratissima maestà del re cristianissimo Luigi XIV (Modena 1663) e l'Applauso profetico alle glorie del re cristianissimo Luigi XIV (ibid. 1673), e soprattutto Il Cromuele (Bologna 1673).
Quest'ultimo è una tragedia in cinque atti, ambientata a Londra all'epoca della presa del potere da parte di O. Cromwell e dell'esecuzione di Carlo I (1649). Alla vicenda principale si intrecciano quelle di Elisabetta, moglie di Cromuele, da tempo innamorata del sovrano, e di Henrighetta, consorte di Carlo, che, travestita da uomo, assiste agli ultimi giorni del marito. Improvvisamente (atto V) Cromuele fa giustiziare il re e, non pago, dà ad Arturo, governatore della torre di Londra, l'ordine di uccidere Edmondo, che è in realtà Delmira, la figlia perduta di Cromuele ed Elisabetta: la tragedia termina così con l'immenso dolore del tiranno che, responsabile indiretto della morte della figlia, sconta il regicidio, che il G. aveva sin dall'inizio presentato come un parricidio.
Il Cromuele è del tutto in linea con l'abituale atteggiamento del G., che predilige l'intreccio complicato da travestimenti e agnizioni, nonché un tono compassionevole e patetico, più lirico che tragico. La tragica vicenda contemporanea della prima esecuzione di un sovrano legittimata da un Parlamento (scelta per un'opera dedicata al re Sole) viene abilmente esorcizzata dal G., che presenta il dittatore come una sorta di cospiratore, isolato e solitario, capace di abbandonarsi alle azioni più arbitrarie, compresa quella estrema del regicidio. Il sovrano, al contrario, è presentato come un individuo nobile e giusto, capace di suscitare commozione persino nei suoi aguzzini con il discorso pronunciato sul patibolo (atto V, scena III). L'astro nascente della borghesia parlamentare viene così completamente neutralizzato ed è proprio a questo motivo che si deve la fortuna dell'opera presso la corte francese.
Nel 1674, con la maggiore età di Francesco II, non si sa se per la perdita di prestigio a corte o per motivi di salute, il G. lasciò Modena e tornò, in agosto, a Pergola. Qui morì di un colpo apoplettico, l'11 settembre dello stesso anno.
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