LION, Girolamo
Figlio di Marino di Andrea, del ramo di S. Stae, e di Nobile Rangon, di Girardo da Cesena, nacque a Venezia tra il 1447 e il 1449. Il padre, che si era sposato nel 1445, lo aveva presentato il 17 febbr. 1467, quando il L. aveva già superato i diciotto anni di età, all'avogaria di Comun al fine di consentirgli, in caso di estrazione della balla d'oro, l'ingresso in Maggior Consiglio prima del compimento del venticinquesimo anno. In quell'occasione il L. non fu fortunato, e sfavorito dalla buona sorte fu pure il fratello minore, Giovanni Andrea, presentato in avogaria il 23 nov. 1472. Negli Arbori di Barbaro non si menzionano altri fratelli e si trascurano ovviamente le eventuali sorelle.
Di tutto rispetto il cursus honorum del nonno Andrea, procuratore di S. Marco, che in diverse occasioni era arrivato a sfiorare il dogado, venendone escluso, più che per demeriti propri, per quella complessa rete di alleanze e rivalità interne al patriziato veneziano, che non di rado stavano alla base dell'elezione dogale. Altrettanto di rilievo appare la carriera politica del padre, Marino, più volte membro del Senato, del Consiglio dei dieci, del Minor Consiglio, ambasciatore presso il papa Alessandro VI, capitanio di Padova, procuratore di S. Marco.
Mentre la famiglia paterna, ammessa in Maggior Consiglio fin dall'ultimo decennio del XIV secolo, si era distinta per aver offerto alla vita politica veneziana a ogni generazione protagonisti di notevole spessore, quella della madre, i Rangon da Cesena, aveva fatto dell'esercizio delle armi quasi la sua ragione di vita e in più occasioni si era posta al servizio della Serenissima, costantemente alla ricerca di condottieri leali e abile nel coinvolgerli attraverso un'accorta politica di matrimoni nell'ambito del patriziato. Come già il padre, anche il L. cercò moglie tra le famiglie dei condottieri più o meno stabilmente assoldati dalla Repubblica. Nel 1469 sposò Caterina, figlia del bresciano Brunoro Gambara, uno tra i più fidati uomini d'arme di Venezia. Non sembra che da questo matrimonio il L. abbia avuto figli, almeno maschi. A questo proposito gli Arbori non offrono indicazioni di sorta.
Non va confuso con il L. un altro Girolamo Lion, di Andrea, figura di secondo piano della vita politica e amministrativa veneziana nella seconda metà del XV secolo, ricordato quale signore di notte tra il 1484 e il 1486, giudice del Forestier nel 1487, podestà di Torcello nel 1490.
Nulla è noto della giovinezza, degli studi, degli interessi del L., anche se è assai probabile che - com'era consuetudine per i giovani del patriziato marciano - egli si fosse formato alternando gli studi teorici al commercio marittimo e ai traffici internazionali.
Il L. dovette in ogni caso muovere i primi passi nella vita pubblica all'ombra del prestigio politico del nonno, e soprattutto sotto l'ala protettiva del padre.
Il primo impegno politico del L. di cui si abbia notizia certa risale al febbraio 1470, quando assunse l'incarico di avvocato presso i giudici del Procurator.
L'ufficio, modesto quanto a contenuti politici, presupponeva in ogni caso che gli aspiranti, generalmente alla loro prima esperienza nella macchina di governo della Repubblica, possedessero almeno una preparazione giuridica di base, che avrebbe consentito loro di destreggiarsi con sufficiente disinvoltura tra le intricate maglie del sistema giudiziario. È da ritenere quindi probabile, anche se non è documentato, che il L. abbia intrapreso studi di diritto presso l'Università di Padova, per quanto certamente non portati a termine con la laurea. Eccetto questa prima apparizione sulla scena politica, le fonti non offrono la possibilità di seguire il cursus honorum del L., che comunque deve essere stato di non minima rilevanza.
Il 22 marzo 1486 il padre del L., membro ordinario del Consiglio dei dieci, fu temporaneamente allontanato per conflitto d'interessi.
Il temuto organo giudiziario, infatti, si trovava in quel momento impegnato in una delicatissima inchiesta che coinvolgeva direttamente il condottiero Galeotto Pico della Mirandola, sospettato di voler passare al servizio del nemico e quindi trattato con diffidenza e ovviamente tenuto lontano dai domini veneti, e il suo cancelliere, Francesco da Fino, particolarmente inviso al governo veneziano. Dalle prime indagini, ma soprattutto dalle ammissioni di F. da Fino, sottoposto a tortura, era emersa evidente l'implicazione di due segretari del Senato, Girolamo Moretto e Chimento Tealdini, e di alcuni patrizi, accusati di aver comunicato al cancelliere informazioni riservate la cui diffusione, a giudizio dei Dieci, avrebbe potuto compromettere gli interessi e più ancora l'onore della Repubblica. Tra i patrizi direttamente coinvolti, tutti appartenenti al rango senatorio, oltre a Giovanni Da Lezze, il maggior indiziato, e a Giovanni Diedo, figurava anche il Lion. Per garantire l'indipendenza di giudizio del Consiglio, il padre del L. fu quindi temporaneamente sospeso dal suo incarico.
Il 6 maggio, quando ormai tutta la complessa vicenda cominciava a emergere con chiarezza, almeno nei tratti essenziali, e le maggiori responsabilità venivano individuate, il Consiglio dei dieci ordinò l'arresto e la carcerazione del L., probabilmente chiamato in causa da qualcuno degli imputati, e ne dispose l'immediato interrogatorio, prevedendo la possibilità di ricorrere alla tortura. Il 19 maggio gli avogadori di Comun, ritenendo sufficientemente provate le accuse mosse al L., proposero, come di rito, che il Consiglio dei dieci procedesse nei suoi confronti. L'iniziativa non raggiunse tuttavia i consensi necessari e fu pertanto lasciata cadere, senza che nulla venisse deciso né a favore né contro il Lion. Il giorno successivo gli avogadori Giovanni Morosini e Bernardo Bembo tornarono alla carica con lo stesso intendimento. Questa volta la "parte" ottenne l'esito cercato e il Consiglio approvò la proposta del doge, dei consiglieri ducali e dei tre capi dello stesso Consiglio di condannare il L. alla medesima pena inflitta il giorno precedente a Diedo, ossia la privazione per un triennio di tutti i pubblici uffici, senza possibilità di grazia o di remissione.
La condanna - soprattutto se rapportata alla gravità dell'accusa e all'impegno profuso dagli avogadori di Comun nel perseguire gli imputati - appare estremamente mite. Forse le prove emerse a carico di Diedo e del L. non furono così determinanti da convincere il Consiglio dei dieci a comminare loro pene più severe, come invece fu nei confronti di Da Lezze, bandito a vita a Retimo (Creta); forse il coinvolgimento dei due era stato solo marginale e tale da assumere i contorni di un comportamento incauto piuttosto che doloso. Meno convincente l'ipotesi che Marino Lion - immediatamente riammesso una volta conclusosi il processo - abbia esercitato sui colleghi determinanti pressioni a favore del figlio. In ogni caso rimane forte il sospetto che il L. - che ancor prima di completare il triennio riuscì a conseguire il suo primo e prestigiosissimo incarico diplomatico - fosse stato trascinato nella vicenda da qualche infondata delazione: un simile immediato rientro ad altissimo livello nella vita politica veneziana potrebbe configurarsi come una sorta di tangibile risarcimento per una condanna dovuta presumibilmente alla ragion di Stato. Non fu così, invece, per Diedo, che, una volta scontata la pena, ottenne solamente incarichi di basso profilo, appena il necessario a garantirgli una dignitosa esistenza.
Con il richiamo alla vita politica si aprì così per il L. un'intensa fase segnata da una serie di incarichi diplomatici, talora semplicemente "d'occasione" o "di complimento" ( ma non per questo di minor prestigio), altre volte invece di "negozio" e quindi di più marcata rilevanza politica, che lo tennero a lungo lontano da Venezia e che gli assicurarono onori e riconoscimenti, ma che in più di un'occasione gli procurarono anche non pochi fastidi e momenti di amarezza.
Il 20 febbr. 1489 il L. fu incaricato di ricevere a Rovereto (con Girolamo Barbaro, Domenico Grimani, futuro cardinale e grande elettore di papa Giulio II, e Carlo Trevisan) l'imperatore Federico III; dal sovrano, al momento del commiato, il L. ricevette le insegne di cavaliere. Nel 1490 fu inviato a Mantova insieme con Zaccaria Contarini e Francesco Cappello a rappresentare lo Stato veneziano in occasione delle nozze del marchese di Mantova Francesco II Gonzaga con Isabella d'Este. Al rientro fu nominato ambasciatore a Milano con il compito impegnativo di carpire i disegni di Ludovico Sforza, detto il Moro, che reggeva il Ducato milanese.
Ritornato in patria, fu chiamato in Senato prima come membro ordinario, poi tra i Sessanta di zonta. Dopo questa breve parentesi veneziana durata poco più di un anno, il 7 febbr. 1492 il L. fu eletto, insieme con Giorgio Pisani, ambasciatore straordinario presso Ferdinando il Cattolico (V) re d'Aragona, per complimentarsi con il sovrano dopo la conquista del Regno di Granata. Il 17 ott. 1493 fu nuovamente associato dal Senato - che intendeva in tal modo conferire alla missione un livello più significativo - a Zaccaria Contarini, che qualche giorno prima era stato nominato ambasciatore presso Massimiliano d'Asburgo, re dei Romani, da poco succeduto a Federico III.
Nella commissione, che i due ambasciatori avevano ricevuto dal Senato il 12 novembre, veniva ordinato di congratularsi con il sovrano e manifestare le felicitazioni della Repubblica per le nozze con Bianca Maria Sforza, figlia di Galeazzo Maria Sforza e nipote ex fratre di Ludovico il Moro. In realtà, come attesta la successiva corrispondenza tra il Senato e i due diplomatici, il governo marciano era seriamente preoccupato dei possibili mutamenti della linea politica asburgica in un momento delicato per lo scenario italiano, sul quale incombeva l'impresa del re di Francia Carlo VIII. Gli emissari veneziani avrebbero dovuto, inoltre, tentare di comporre il contenzioso confinario tra i due Stati e soprattutto far emergere le reali intenzioni dell'imperatore verso la minaccia turca, ormai incalzante in Ungheria, Dalmazia e Friuli.
Fatto ritorno a Venezia, il 10 ag. 1494 il L. fu eletto in Senato come membro ordinario, ma anche in questo caso la permanenza in patria fu di breve durata: il giorno successivo fu designato come ambasciatore ordinario della Repubblica presso il duca di Milano.
In un primo tempo i rapporti del L. con Ludovico il Moro furono estremamente cordiali, al punto che il duca in persona si recò a casa del L., facendogli dono di uno smeraldo; in seguito le relazioni si guastarono, forse anche a causa di alcune espressioni troppo forti del L. non gradite allo Sforza, come osservò Malipiero nei suoi Annali (p. 394): "Geronimo Lion, Ambassador al Duca de Milan è inputà de algune parole inconsiderate usate alla persona del Duca; e pur con tutti, ma più con i Principi, bisogna esser circospetti". Le ragioni generali della crisi erano tuttavia dovute alla pace separata stipulata da Ludovico il Moro con Carlo VIII, non gradita a Venezia. Il L., incaricato dal Senato e dal Consiglio dei dieci - che in quei mesi seguiva fin nei dettagli l'evolversi dei rapporti tra i due Stati - di esprimere allo Sforza le rimostranze veneziane, aveva probabilmente urtato la suscettibilità del duca, intenzionato a rafforzare le basi non solidissime del suo potere, ed era quindi venuto a trovarsi in palese difficoltà.
Fin dai primi giorni del novembre 1495 il L. aveva pertanto insistentemente richiesto di far rientro in patria, anche per le non buone condizioni di salute che non gli consentivano, a suo dire, di seguire con la dovuta assiduità, come avrebbe voluto, tutti i delicatissimi maneggi della corte lombarda. Il Senato, preoccupato dell'andamento di tutta la vicenda, il 23 novembre nominò in sostituzione del L. Marco Dandolo, dottore e cavaliere. Al L., al ritorno a Venezia, sarebbe stato offerto prima un posto in Senato, quale membro della zonta, e immediatamente a seguire l'incarico di savio di Terraferma. Dandolo poté partire per Milano solo il 19 genn. 1496. Il 19 febbraio il L. rientrava in Venezia, non prima però di aver subito le prevedibili angherie di Ludovico il Moro e i soprusi dei doganieri di Casalmaggiore che, avendolo trovato senza salvacondotto, non lo volevano lasciar passare. Solo l'intervento diretto del duca, a questo punto preoccupato di non irritare eccessivamente la Repubblica, valse a toglierlo dagli impacci.
Quella milanese fu l'ultima vera missione diplomatica del L., che negli anni successivi si trattenne a lungo a Venezia, ripetutamente savio di Terraferma e in zonta al Senato.
Nell'agosto del 1497 fece parte, con la moglie e un nutrito stuolo di patrizi veneziani e le rispettive consorti, del corteo che doveva accompagnare Caterina Corner da Asolo a Brescia: incarico assolutamente onorifico, ma significativo della reputazione che del L. e della sua famiglia correva a Venezia.
Ancora savio di Terraferma durante il primo semestre 1498, a partire dai primi di luglio di quell'anno fu podestà e capitanio a Crema.
Anche in questo caso si volle mettere a frutto la sua esperienza milanese e da Crema, punto di osservazione quanto mai strategico, Venezia venne tenuta costantemente informata di tutto ciò che accadeva oltre confine in ambito milanese. Occorre anche aggiungere che il L. si preoccupò subito di rinforzare le difese della città, curando soprattutto di portare a termine la rifabbrica delle mura, completata nell'agosto 1499. A Crema il L. si trattenne fino al 23 nov. 1499, quando venne a rilevarlo il successore, Girolamo Bon.
Appena rientrato a Venezia, fu eletto ancora una volta savio di Terraferma per il trimestre successivo, per consentirgli l'ingresso immediato in Senato. Designato il 6 genn. 1500 ambasciatore presso il re di Ungheria, con Marino Zorzi, il L. rifiutò la nomina, come del resto fece il collega. Il 2 giugno 1500 il L. rifiutò, dopo averla inizialmente accettata, l'elezione, fatta l'11 maggio, ad ambasciatore ordinario a Roma in sostituzione di Paolo Cappello. Anche in questo caso il L. preferì rimanere a Venezia ed evitare i disagi e i fastidi di un'ulteriore missione diplomatica, che si profilava di estrema delicatezza, considerato che nel frattempo era stato eletto anche avogadore di Comun, incarico che accettò e che ricoprì dal 15 giugno.
Il suo stato di salute dovette peggiorare progressivamente a partire dai primi di ottobre: i Diarii di Sanuto, infatti, ne documentano l'attività nella veste di avogadore per tutto il mese di settembre, ma dopo un'unica citazione relativa al 4 ottobre non ne fanno più menzione; ne riportano invece puntualmente la morte, avvenuta a Venezia il 23 ott. 1500.
Il padre era stato chiamato il 21 ottobre a far parte di una commissione incaricata di procedere all'esazione delle due ultime decime deliberate dal Senato e il giorno successivo avrebbe dovuto presentarsi in Collegio ad accettare la nomina, ma, come riferisce Sanuto (Diarii, III, col. 960), "È da saper, eri [22 ottobre] vene in Collegio sier Domenego Morexini e sier Filipo Trum, procuratori, e acetono il cargo li fo dato. Sier Marin Lion non vene perché suo fiol, sier Hironimo el cavalier, l'avogador, stava malissimo, et morse ozi [23 ottobre] a hore 2 di note".
Marino, che era stato eletto procuratore di S. Marco il 16 ag. 1499 a coronamento di un brillantissimo cursus honorum, morì il 18 dic. 1502.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patrizi veneti, IV, p. 253; ibid., 74: P. Gradenigo, Memorie istorico-cronologiche spettanti ad ambasciatori della Serenissima…, cc. 76, 143, 178v, 293v-294; Avogaria di Comun, Matrimoni di nobili veneti, reg. 106/1, c. 85; Cronaca matrimoni, reg. 107/2, c. 162; ibid., Balla d'oro, reg. 163/2, c. 292; reg. 164/3, c. 210; Misc. civile, b. 177, f. 12; Consiglio di dieci, Deliberazioni miste, regg. 23, cc. 3v, 4v, 15, 19v, 20v, 42v, 144v-145v, 147, 148v, 154v, 155v, 156v, 157v-158, 160, 161, 163, 164, 165v, 168, 169, 170, 186, 190v; 24, cc. 60v, 69, 75v, 106v, 110v, 111v; 25, cc. 82v, 154v, 156; 26, cc. 8, 131v, 161v, 182, 187v, 188v, 193, 194, 195, 196; 27, cc. 1, 4, 8v-9, 14, 128v, 141v, 162, 169, 171, 172, 173v, 175v, 181v, 192, 194v, 196v, 199v, 204, 214v, 218v; 28, cc. 47, 49v, 64, 92v, 98v, 99v, 100v, 101v-102, 105, 109, 115, 116v-117, 118, 119; Maggior Consiglio, Deliberazioni, Liber Regina, cc. 17v, 141v, 142v, 143, 145, 154v, 157, 177v, 178; Liber Stella, cc. 61v, 62v, 76, 76v, 86r, 89v, 122, 138, 139, 140v, 151v-152, 153v, 154, 155v-157v, 187-188; Senato, Deliberazioni segrete, regg. 33, cc. 118, 174; 34, cc. 110v, 181v, 191, 193v, 200, 209, 211; 35, cc. 21, 199v; 36, cc. 54v, 61v, 63, 66, 67v, 82v-83, 133v, 136v; 37, cc. 8-9v, 11v, 13-15v, 18-20, 173-174v, 176, 178v, 181, 182v, 186, 187, 188, 189, 190v; 38, cc. 1, 2, 4v, 8r-9v, 12v, 26v; ibid., Deliberazioni Terra, reg. 13, cc. 42, 43, 44, 111-112v, 113v-115, 117, 119v, 121; Segretario alle voci, Misti, regg. 6, cc. 11v, 15, 92v, 106; 7, c. 2v; 9, cc. 6v-7, 9v, 11v, 132; Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. VII, 1044 (= 9608): Zaccaria Contarini, dispacci al Senato, cc. 88-121v; G. Priuli, Diarii, I, a cura di A. Segre, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXIV, 3, pp. 187, 202 s., 246; D. Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di T. Gar - A. Sagredo, in Arch. stor. italiano, s. 1, 1843, t. 7, parte 1a, pp. 310-312, 394, 478; 1844, parte 2a, pp. 679 s.; Cronaca di anonimo veronese, a cura di G. Soranzo, Venezia 1915, pp. 420, 550; M. Sanuto, I diarii, Bologna 1969, I, coll. 17, 38, 382, 668, 742, 764, 791, 926, 1107; II, coll. 12, 43, 481, 488, 563, 633, 848, 911, 941, 945 s., 1024, 1030, 1037, 1051, 1071, 1083, 1096, 1102, 1114, 1149, 1166-1168, 1187, 1262, 1308, 1334, 1678; III, coll. 73, 75, 84, 159, 272, 311 s., 340, 367, 371, 400, 471 s., 507, 580, 595, 755 s., 779, 786, 803, 806, 837, 865, 890, 960; IV, col. 551; Id., Le vite dei dogi (1474-1494), a cura di A. Caracciolo Aricò, Padova 1989, pp. 1 s., 67, 69, 114, 118.