LIPPOMANO, Girolamo
Nacque a Venezia nel 1460, nella parrocchia di S. Fosca, dal patrizio Tommaso di Nicolò e da Paola Cappello di Vettore di Giorgio.
Il padre, personaggio di notevole rilievo, sommò a una prestigiosa carriera politica fortunate iniziative nel campo economico e finanziario; mentre la famiglia della madre avrebbe fatto società proprio con i Lippomano fondando uno dei più cospicui banchi della Venezia rinascimentale. Rimasto vedovo della Cappello, Tommaso si risposò (1469) con la vedova di Bulgaro Vitturi, e infine in terze nozze (1486) con una figlia di Alvise Diedo; intanto, nel 1480 i Cappello sciolsero la ditta, che rimase di esclusiva ragione dei Lippomano e conobbe un forte incremento (ma anche una notevole esposizione con lo Stato) in occasione della guerra del Polesine.
Al compimento dei 18 anni, il 4 dic. 1478, il L. fu presentato alla Balla d'oro da Pietro Priuli, non dal padre, che forse si trovava fuori Venezia. Il 12 dic. 1486 il L. iniziò la carriera politica in una magistratura di natura finanziaria, ma poco prestigiosa: ufficiale al Cattaver, a cui fece seguito (24 sett. 1491) quella di ufficiale alle Rason vecchie. Poi, nient'altro. Avrebbe occupato un posto di rilievo nella società veneziana a cavallo dei secoli XV e XVI, ma non per meriti politici; il suo destino si giocò infatti fra il 1488 e il 1489: nel primo anno sposò la ricchissima Paola Vendramin di Bartolomeo del doge Andrea, perfezionando così una strategia matrimoniale iniziata nel 1482, allorquando una sorella del L., Maria, aveva sposato Daniele Vendramin, fratello di Paola; nell'ottobre 1489, poi, morì il padre del L., lasciando ai figli la gestione del banco. Questo significava in pratica la fine delle aspirazioni politiche (se pur vi furono) del Lippomano.
Il 12 luglio 1490 fu fra i testimoni di un pagamento effettuato dai camerlenghi di Comun a beneficio di Gaspare Sanseverino; il 7 ott. 1495 figura tra i mallevadori di un prestito accordato dalla Signoria a Piero de' Medici, il cui figlio Lorenzo - futuro duca di Urbino - risulta ospitato proprio in casa Lippomano, dove risiede ancora il 29 febbr. 1500. Politica e finanza costituiscono dunque i parametri della vita del L., i cui interessi sembrano gravitare prevalentemente verso la Curia pontificia, dove il fratello maggiore Nicolò, protonotaro apostolico, stava percorrendo una cospicua carriera. Invano, tuttavia, il 4 sett. 1497 il L. intervenne in Collegio a favore di costui, che aspirava al patriarcato aquileiese; la diocesi fu affidata al più prestigioso e influente Domenico Grimani, mentre Nicolò Lippomano dovette accontentarsi, nel 1512, del vescovato di Bergamo.
Si avvicinava il cruciale anno 1499, che vide la rovina dei più accreditati banchi veneziani; in gennaio fallì il Garzoni, poi fu la volta del Lippomano. Questa la testimonianza di Marin Sanuto, fonte principale della vicenda: "Adì 16 mazo [1499]. In Colegio. In questa matina el banco di Lipomani falite, el qual fo levato dil 1480. […] Et gran brigata era reducti al banco, et fo gran mormoration […], siché fo gran vergogna a questa terra" (II, col. 723).
Benché il governo non fosse direttamente responsabile, il dissesto del banco fu dovuto ai troppi crediti accordati all'Erario statale, e aumentati eccessivamente negli ultimi anni: in tutto, i debiti sommavano a 120.000 ducati. Si interpose il Consiglio dei dieci che accordò al L. e ai suoi fratelli minori, Bartolomeo e Vettore, un salvacondotto, mentre i creditori si riunivano in consorzio; tra proposte di accordo e controproposte passò un anno. Il 4 maggio 1500 i Lippomano si impegnarono a rateizzare il debito: un terzo subito, un altro terzo a fine anno, il restante entro ventiquattro mesi; i pagamenti ebbero inizio il 9 luglio, ma i creditori riuscirono ugualmente a farli incarcerare come insolventi (agosto 1500).
Quando gli nacque il figlio Giovanni (12 nov. 1500), il L. era in prigione da vari mesi, ma prima di recuperare la libertà avrebbe dovuto passare ancora quasi un anno, fino a quando, cioè, lui e i fratelli decisero di evadere, per porre fine alle lentezze di un procedimento complesso, con numerosi attori e infinite implicazioni. Il 6 sett. 1501 i Lippomano, con la complicità dei familiari, si fecero arrivare dei dolci, "e, averto la porta" - così Sanuto - "a colui che portava la torta, ussite fuora sier Hironimo Lipomano et, messo il mantello in capo al guardian, si dice con el coltello a la gola, tolseli la chiave, et cussì […] monto[ro]no in tre barche armate e […] fuziteno nel monasterio di Santa Lena […]; et fenno bene, perché aliter havendo a far con li capi di creditori […], mai sariano ussiti" (IV, col. 108).
Il benevolo giudizio di Sanuto riflette l'atteggiamento del governo, che cercò in ogni modo di favorire un aggiustamento tra i titolari del banco e i creditori; pertanto il 13 marzo 1503 fu concesso loro un salvacondotto per sei mesi, più volte prorogato, finché si creò una commissione arbitraria che procedette alla vendita del patrimonio dei Lippomano (tra cui un prezioso copricapo tempestato di gioie, che era stato dell'imperatore Massimiliano I d'Asburgo) e al parziale saldo dei loro debiti. Su questa base l'annosa vicenda si avviò a conclusione. Ricevuto in Collegio il 15 ott. 1503, il L. - scrive ancora Sanuto - "fé gran compassion a tutti, dicendo volea dar il tutto pur li restasse la vita e un pocho da viver" (V, col. 171). Naturalmente non era vero, perché l'uomo disponeva ancora di notevoli risorse e di influenti protezioni. È ancora Sanuto a informarci, in data 20 nov. 1504: "In questi giorni el legato dil papa andò in Colegio a dir haver lettere de Sua Santità, che 'l desidera che sier Hironimo Lipomano […], fratello dil prothonotario, ch'è in Corte, vadi a Roma, perché el desidera di vederlo" (VI, col. 99).
Preso atto dell'impossibilità di avviare ulteriori iniziative economiche, della difficoltà di intraprendere con qualche prospettiva di successo la carriera politica, dell'ostilità infine di troppi concittadini, il L. scelse l'opzione romana, cercando di inserire la propria famiglia nel novero delle cosiddette "dinastie ecclesiastiche", che traevano ricchezza e prestigio dalla titolarità di benefici legati alla S. Sede. Andò dunque a Roma; sappiamo che nel gennaio 1507 si trovava a Bologna, forse per affari personali, dal momento che avrebbe soggiornato a lungo, e in più riprese, nella città emiliana; in ogni caso, doveva trattarsi di questioni legate alla Curia pontificia, visto che il 21 febbr. 1509 il papa Giulio II concesse a un figlio del L., Pietro, che proprio a Bologna avrebbe portato a termine gli studi, un ricco canonicato a Padova, benché il beneficiato non avesse allora che cinque anni.
Venne il disastro di Agnadello (14 maggio 1509) e per molti mesi il nome del L. più non compare né fra i documenti pubblici, né nelle cronache. Solo quando Giulio II e Venezia si trovarono alleati in funzione antifrancese, il L. tornò alla ribalta come uno dei principali informatori di Sanuto.
Il 6 ott. 1510, infatti, il L. accompagnò gli ambasciatori veneziani che si recavano dal papa, in Romagna; sarebbe rimasto sei mesi presso Giulio II, seguendolo nel suo peregrinare tra Bologna, Bondeno, Mirandola e Ravenna. Evidentemente c'era in gioco la carriera del fratello Nicolò, che infatti di lì a poco avrebbe ottenuto il vescovato di Bergamo.
Le mosse degli eserciti, i disegni politici, le ambizioni dei cardinali, le manovre dei cortigiani, ma soprattutto la vigorosa figura di Giulio II, che domina la scena con la sua prorompente personalità, costituiscono l'oggetto della fitta corrispondenza intrattenuta dal L. con il fratello Vettore, che poi non mancava di consegnarla a Sanuto. Vivacissima, in particolare, la descrizione dell'assedio di Mirandola, nel gennaio 1511; nonostante la dura congiuntura climatica, con "neve grandissima, alta a mezo il cavallo", il pontefice è in prima linea, visita le truppe, urla, comanda, rimprovera: "Il papa" - così Sanuto, nel riportare una lettera del L. datata 6 genn. 1511 - "è tanto disposto, che non se potria dir più; è più inanimato contra questi francesi che 'l fusse mai. E, quando el si partì di Bologna, disse: Vederè, si averò sì grossi li coglioni, come ha il re di Franza!" (XI, col. 722).
Dopo la caduta di Mirandola (20 genn. 1511), la condotta del pontefice si fece meno decisa e le operazioni ristagnarono; in febbraio il L. seguì il papa a Ravenna, ma senza più le speranze che aveva coltivato; nell'ennesima lettera al fratello (29 marzo 1511), si diceva stanco, disilluso e desideroso di tornarsene a casa.
Arrivò a Venezia il 6 apr. 1511, giusto in tempo per ricevere l'ingente patrimonio ereditato dalla sorella Maria, morta senza figli: con questi soldi fu facile per il L. accasare una sua figlia, peraltro bellissima, con Nicolò Venier, il 21 giugno 1512. Inoltre, nella seconda metà dell'anno il L. riscosse finalmente il premio del suo prodigarsi per la causa pontificia: il 16 luglio il fratello Nicolò ottenne il ricco vescovato di Bergamo; il 1° ottobre il suo primogenito, Andrea, fu eletto dal papa priore della chiesa e del monastero della Ss. Trinità, a Venezia, da secoli appannaggio dei tedeschi.
Fu, quello del L., un autentico scippo, contro il quale non mancarono di levarsi forti proteste non solo da parte dei monaci, ma anche dello stesso imperatore Massimiliano: ovviamente, questa volta il L. ebbe l'appoggio sia del governo sia dell'intero patriziato, solidali nell'incamerare a vantaggio di un veneziano uno dei più appetibili benefici della città.
L'elezione di papa Leone X contribuì a rafforzare le fortune romane del L., "ch'è tutto de' Medici", come testimonia una lettera di Vettore al L., dell'11 marzo 1513 (XVI, col. 36). Nell'udienza prontamente accordatagli, il nuovo pontefice si espresse in termini oltremodo rassicuranti: "Missier Vetor, noi siamo molto obligati a caxa vostra […]; se aricordaremo de voi" (ibid., col. 40). Per godere i frutti di questa felice congiuntura, uno dopo l'altro i fratelli Lippomano si portarono a Roma: dopo il vescovo Nicolò fu la volta di Vettore e poi dello stesso Lippomano. Ma va detto che un grave colpo ai suoi interessi l'aveva arrecato l'incendio di Rialto, ove nel gennaio 1514 alcune botteghe di gran pregio erano andate distrutte.
Rifece l'itinerario un anno dopo, per sostenere i diritti del figlio Andrea, come riporta Sanuto in data 20 marzo 1515: "Questa mattina partì sier Hironimo Lipomano q. sier Tomà fo dal banco, per Roma per staffeta, chiamato dal papa, et è forte suo amico. Etiam el fiol, prior de la Trinità è sta cità in Rota da li alemani, però bisogna andar a Roma a difender le raxon sue" (XX, col. 67). Sistemata a proprio favore la questione, il L. tornò a Venezia verso la fine dell'anno per accasare la figlia Morosina con Benedetto Bernardo, mercante ricchissimo e titolare di un banco, pur continuando a mantenere frequenti rapporti con la S. Sede, al punto che il 2 marzo 1517 fu convocato dal Collegio, che desiderava informazioni circa la presa di Fano da parte del duca di Urbino, quel Lorenzo de' Medici che a lungo aveva soggiornato nella sua casa.
Due mesi dopo, il 6 maggio 1517, il L. giunse a Roma, probabilmente per sostenere la candidatura del fratello al cardinalato; ma l'aggravarsi delle condizioni fisiche di quest'ultimo e la sua repentina scomparsa, agli inizi di luglio, lo indussero a procurare il passaggio del vescovato bergamasco dal fratello al figlio Pietro, benché questi non avesse che tredici anni. Il L. non sarebbe più tornato a Venezia, mentre la sua casa romana avrebbe ospitato i concittadini più prestigiosi nei loro soggiorni, come prova la corrispondenza spesso riportata da Sanuto.
A volte si tratta di curiosità cronachistiche, come quando annuncia (2 apr. 1520) la morte di "Raphael di Urbin pyctor et architecto di Roma, zovene di anni 33, la cui morte ha doluto a tutti di Roma" (XXVIII, col. 423); ma non mancano indizi di una sicura influenza del L. presso la Curia pontificia, come avvenne il 10 apr. 1522, allorquando stava per fare il suo ingresso a Roma l'ambasceria straordinaria inviata per l'elezione di Clemente VII: "E li oratori" - è ancora Sanuto a informarci - "haveano deliberato intrar in veste ducale, tamen, a persuasione di domino Hironimo Lippomano lì existente […], deliberarono di entrar in roboni et quasi in zimare" (XXXIV, col. 208).
Con il trascorrere del tempo, le informazioni sul conto del L. si fanno sempre più sporadiche, per poi ravvivarsi d'un tratto nel cruciale 1527, che vide il sacco di Roma; un anno infausto per la famiglia Lippomano: la notte fra il 3 e il 4 febbraio un incendio devastò il loro palazzo veneziano a S. Fosca; tre mesi dopo i lanzichenecchi penetrarono nella città santa. Mentre suo figlio Pietro riusciva a riparare in Castel Sant'Angelo, il L. con l'ambasciatore veneziano e vari altri cercarono rifugio nell'abitazione della marchesa di Mantova, Isabella d'Este. A questo punto, molti riuscirono a salvarsi raggiungendo in barca il litorale ostiense, ma non così il L., che fu catturato dagli spagnoli, i quali posero sul suo capo una taglia di 3000 ducati d'oro.
Non riuscirono a riscuoterla, però, dal momento che di lì a qualche settimana (1° giugno 1527) il L. morì di peste "in la hosteria de la Lepore, in Borgo" (Sanuto, XLVI, col. 141).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti…, IV, c. 277; Segretario alle Voci, Misti, reg. 6, cc. 113r, 123v; Avogaria di Comun: G. Giomo, Indice dei matrimoni patrizi per nome di donna, I, s.v. Cappello Paola e Vendramin Paola; ibid., reg. 164: Balla d'oro, c. 216r; reg. 165: Balla d'oro, cc. 247r, 248r; Notarile, Testamenti, b. 133/458 (testamento della sorella Maria); Arch. Gradenigo rio Marin, b. 85 bis, f. 12, passim; M. Sanuto, I diarii, I-IX, XI-XXX, XXXII-XXXVI, XLIV-XLVI, LII, Venezia 1879-98, ad indices; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830, p. 456; V, ibid. 1842, pp. 259, 372, 387 s.; E. Lattes, La libertà delle banche a Venezia dal secolo XIII al XVII…, Milano 1869, pp. 16, 19; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, V, Venezia 1901, p. 317; VI, ibid. 1903, pp. 12-14; L. von Pastor, Storia dei papi, III, Roma 1942, pp. 665 s., 767, 790, 792; U. Tucci, Monete e banche, in Storia di Venezia, V, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di A. Tenenti - U. Tucci, Roma 1996, pp. 795, 798, 805; G. Gullino, Marco Foscari (1477-1551). L'attività politica e diplomatica tra Venezia, Roma e Firenze, Milano 2000, pp. 40 s., 43.