DURAZZO, Girolamo Luigi Francesco
Nacque a Genova il 20 maggio 1739, terzo figlio di Marcello (Marcello Giuseppe, detto Marcellino) e di Maria Maddalena Durazzo: apparteneva dunque, per parte di padre e di madre, al ramo della famiglia discendente da Gerolamo (1597-1664), che si estinguerà proprio con lui.
Compi gli studi nel Collegio Romano, forse avviatovi dallo zio Gerolamo, gesuita; e li strinse amicizia con due futuri apostoli del giansenismo italiano, Pietro Francesco Foggini e Scipione de' Ricci. A quest'ultimo resterà a lungo affezionato, intrattenendo con lui per molti anni rapporti epistolari e considerandolo spesso guida spirituale negli affari di religione. Cattolico fervente, ma come molti allievi dei gesuiti divenuto presto antigesulta, il D. raggiungerà posizioni vicine a quelle dei giansenisti liguri e toscani, senza tuttavia mai fare parte integrante del loro gruppo.
Ricevette un'educazione raffinata e vasta, quale conveniva al rampollo di una famiglia ricchissima e molto presente nella vita culturale della sua città. Il padre, che l'ambasciatore francese a Genova giudicava superstizioso e "un peu sauvage" (Rotta, p. 239), era in realtà buon letterato, politico di prestigio, grande appassionato di teatro. Possedeva, nel suo palazzo di strada Balbi, la sala del Falcone, e acquistò anche il teatro delle Vigne e quello di S.Agostino: di quest'ultimo, a partire dal 1770, sarà lo stesso D. a curare la ristrutturazione fino alla sua riapertura, il 27 dic. 1790, con un sontuoso allestimento de Il falegname di Cimarosa. Ma se il teatro. fu un precoce e duraturo amore del D. (gli capitò anche di calcare le scene negli spettacoli realizzati in villa dalla zia Clelia), i suoi interessi variavano dalla filosofia all'economia e alle scienze esatte, né gli mancava il gusto per le belle arti, testimoniato dalla sua appartenenza alla Accademia ligustica.
Ascritto al Libro d'oro l'11dic. 1760, due anni dopo si sposò con Angelina Serra. Non ricopri cariche pubbliche di rilievo, ma acquistò singolare prestigio come intellettuale e mecenate, e diventò un punto di riferimento per i gruppi che a Genova erano aperti alla cultura dei lumi.
Ne sono buon indizio le molte opere che gli vennero via via dedicate: nel 1773 l'anonima traduzione, l'unica settecentesca, del secondo trattato lockiano (Ilgoverno civile di Mr. Locke tradotto nell'italiano idioma e dedicato a s. e. il signor G. D., Amsterdam 1773), forse stampata a Genova e certamente eseguita per conto di personaggi genovesi; nel 1774 le due orazioni De regiae potestatis origine, recitate l'anno prima alla Sorbona dal padre G. M. Priani, amico di F. Galiani e di A. Genovesi, che qualificava il D. "contubernalis inter geometras et philosophos", alludendo probabilmente ai suoi rapporti con scienziati quali il matematico bolognese S. Canterzani ed il naturalista C. Ranzani. Tre anni prima, "quale devoto tributo al più grande amico dell'umanità", gli era stata offerta l'operetta Lo spirito dell'umanità e la presente felicità dell'uomo e delle nazioni, nella quale l'abate Andrea Tosi, esule dalla Repubblica di Venezia per avervi difeso la legittimità dei beni ecclesiastici, celebrava con accenti russoviani le riforme dei governi illuminati in campo civile e religioso ("mille superstiziose idee di religione bandite …"), sosteneva la necessità di fissare limiti alla giurisdizione ecclesiastica, affermava l'incompatibilità di cristianesimo e tirannia, anzi la sua conformità al vero patriottismo. Ancora al D. fu dedicato un anonimo Saggiodel patriottismo civile (Genova 1785), nel quale tornava il parallelo tra buon cristiano e vero patriota; ma al patriottismo repubblicano l'autore attribuiva ormai contenuti sociali più avanzati, affermando che per promuoverlo occorreva "mantenere per quanto il comporta la costituzione dello Stato la naturale uguaglianza" ed "aprire tutte le vie, per le quali ciascun cittadino può arrivare a perfezionarsi" (Rotta, pp. 241-245). Un tema, quest'ultimo, al quale il D. fu certamente sensibile, visto che all'epoca si trovava già da anni impegnato nel campo della pubblica istruzione.
Nel 1773, dopo lo scioglimento della Compagnia di Gesù, il D. entrò a far parte di una "giunta dell'asse ex-gesuitico", incaricata di amministrare e liquidare i beni dei soppresso Ordine, nonché di provvedere alle necessità della pubblica istruzione. I gesuiti, in questo settore, avevano fino ad allora detenuto a Genova un vero monopolio: il loro allontanamento poneva il problema di sostituirli, ma offriva anche l'occasione di rinnovare gli studi superiori. Il D., con grande generosità, donò alla Repubblica il palazzo di strada Balbi già sede del collegio gesuitico, che a lui sarebbe spettato per diritto di reversione, e si adoperò per crearvi una vera università, appoggiandosi soprattutto ai padri scolopi. Nel 1778 fu lui a redigere il nuovo regolamento dell'università di Genova, ed anche in seguito, tra il 1780 ed il 1797, con pochi altri aristocratici illuminati continuò ad interessarsi al miglioramento degli studi.
Intanto segui il cursus honorum abituale per gli uomini del suo ceto. Nel 1775.76 fu governatore di Novi, sede periferica abbastanza gradita perché la sua famiglia vi possedeva terre e case, ed era popolare tra gli abitanti. Il D. vi lasciò un buon ricordo, grazie alla generosità con cui elargiva elemosine, organizzava spettacoli, abbelliva la piccola città. I sudditi di Novi, al termine dei suo ufficio, gli dedicarono una raccolta di poesie che ne elogiavano le virtù morali e "la bella avidità di rendere felici i popoli a lui commessi" (Tributo di riconoscenza, p. 42). A partire dal 1779 fu nella deputazione del Commercio, organo consultivo del governo in materia economica, e vi restò per circa vent'anni, ricoprendone anche la presidenza.
La deputazione del Commercio riuniva numerosi aristocratici attenti alla cultura e alla realtà economica dei paesi più avanzati d'Europa, impegnati nella promozione di nuove manifatture: un gruppo che si sarebbe ritrovato a far parte, qualche anno dopo, della Società patria delle arti e manifatture.
Nel 1780 fu deputato al magistrato delle Galere. Nel maggio 1781 il Senato lo designò come inviato straordinario alla corte imperiale, affidandogli le solite istruzioni che da tempo Genova ripeteva stancamente ai plenipotenziari a Vienna: curare che le investiture dei feudi spettanti alla Repubblica venissero rinnovate senza aggravi e senza che si dovesse "dimandare la conferma all'imperadore di certi antichi privileggi"; osteggiare "la pretensione imperiale che sia Sanremo un feudo dell'Impero" (Arch. segreto, 2716). Ma ormai il vero problema, per il governo genovese, non era trattare con l'imperatore, bensi trovare dei patrizi che accettassero legazioni dispendiose e mal retribuite come quella di Vienna. L'assenso del D. a tale ufficio suonò perciò come una dimostrazione di patriottismo ed egli venne esplicitamente ringraziato, anche se in verità si trattava di un patriottismo senza troppi slanci: egli era riuscito ad ottenere, a parità di appannaggio, che la missione durasse solo due anni anziché il solito triennio, e la residenza presso la corte imperiale gli servi anche per curare gli interessi della sua famiglia, che aveva forti legami finanziari con gli Asburgo.
Partito da Genova ai primi di maggio del 1781, passò per Mantova, Padova e Venezia, dove si trattenne qualche giorno con lo zio Giacomo Durazzo, da molti anni al servizio del governo cesareo e ora ministro imperiale nella Repubblica veneta. Prosegui quindi per Vienna, dove arrivò il 6 luglio con il cugino Ippolito Durazzo - appassionato naturalista che egli si associerà nella legazione - e con l'amico medico C. N. Canefri. Due giorni dopo pranzò col Kaunitz, antico protettore di suo zio, che lo accolse con grande cordialità. Il 18 agosto fu ricevuto da Giuseppe II e trattato con i riguardi che competevano all'esponente di una famiglia che vantava crediti enormi néi confronti della corte imperiale.
A Vienna, dove lo zio Giacomo si era cosi bene inserito fino a diventare uno degli uomini più in vista, il D. si trovò a disagio. "Io vado per ragione adattandomi a questo soggiorno - confidava all'amico Scipione de' Ricci - col treno di vita che per me è gravoso assai: poco rimane di tempo per pensare a sé; … fo una vita alla quale non ero inclinato per principio, e non mi vo' accustumarmene alla medesima, finito il mio tempo che avrò soddisfatto al dovere verso la patria, me ne ritorno a casa" (Codignola, I, pp. 545, 549). In realtà la legazione non lo teneva troppo occupato: il suo efficiente segretario Allegretti, che in passato aveva già svolto le funzioni di ambasciatore, era perfettamente in grado di sbrigare gli affari correnti; e i rapporti diplomatici tra l'Impero e la piccola Repubblica non presentavano in quegli anni serie difficoltà. L'alleanza franco-asburgica aveva tolto ogni pericolo di ingerenza negli affari di Sanremo ed anche la questione dei feudi non appariva più spinosa come un tempo: quando, nella primavera del 1782, la Repubblica si preoccupò della possibile "unione de' feudi imperiali… della Lunigiana al Granducato di Toqcana e di quelli della Liguria al ducato di Milano", il D. si affrettò a tranquillizzare il suo governo, assicurando che il re di Prussia sarebbe stato contrario a "qualunque minima variazione" in proposito (Arch. segreto, 2606).
Fin dai primi mesi del soggiorno viennese egli si impegnò a stendere "un'esposizione dello stato attuale di questa monarchia dopo la morte dell'imperatrice" (Codignola, I, p. 546). Intanto seguiva con grande attenzione la politica ecclesiastica di Giuseppe II, ne approvava i principi ("Il sovrano a cui ho l'onore di- far la mia corte - scriveva il 26 nov. 1781 - è pieno di religiosità, ma per quella mal regolata non vuole abusi nel suo Stato" [ibid., p. 548]), e volentieri ne avrebbe visto una qualche applicazione anche in patria, in ciò trovandosi abbastanza d'accordo con i serenissimi Collegi, che gli chiedevano di tenere gli occhi aperti su quella materia e di informarne la giunta di giurisdizione per gli aspetti "che fossero addattabili alle circostanze e diritti della nostra Repubblica" (Arch. segreto, 2606).
Accanto ai temi religiosi gli stavano a cuore quelli commerciali: d'accordo col plenipotenziario russo principe D. M. Galitzin cercò di favorire l'apertura di un'ambasciata russa a Genova e l'invio di un rappresentante genovese a Pietroburgo, ricordando al Senato quanto sarebbe stato vantaggioso stringere buoni rapporti "con una corte, che tanto di parte ha nella bilancia politica di Europa, e che cerca di estendere il proprio commercio" (ibid.). Ilporto di Genova, suggeriva, sarebbe potuto diventare un centro di diffusione delle merci russe nel Mediterraneo, grazie a un trattato commerciale al quale il governo della zarina sembrava interessato. Sempre in materia economica, metteva in guardia il Senato circa lo "stabilimento di commercio che si sforza S. M. il re di Sardegna di attirare al porto di Nizza", il suo proposito di "ridurre più agevole la strada del colle di Tenda" per migliorare le comunicazioni tra quel porto e la pianura padana, i grandi lavori stradali e fluviali che egli progettava, i suoi tentativi di stipulare accordi doganali con Milano, Parma e Modena, pratiche tutte che "anderebbero al danno notabile della piazza di Genova" (ibid., 2607). Erano avvertimenti che, nelle intenzioni del D., avrebbero dovuto spingere i Collegi ad uscire dall'immobilismo, ad imitare il dinamismo del sovrano sabaudo.
Nel dicembre del 1782 egli temette di dover lasciare anticipatamente Vienna per assistere il padre malato, e se ne doleva perché ormai si era ambientato bene. Non riusciva tuttavia a perdonare alla nobiltà viennese il lusso smodato, al quale essa indulgeva persino in tempo di quaresima, e pensava che le "persone distinte" avrebbero dovuto dare "miglior esempio osservando i precetti della Chiesa" (Codignola, I, p. 560). Quanto a lui, coltivava scrupoli religiosi anche formali e a più riprese poneva quesiti all'amico de' Ricci "circa la promigenità de' cibi in giorno di magro" (ibid., p. 599), il che non gli avrebbe evitato le critiche degli amici giansenisti per qualche sua inclinazione alla vita mondana. A il caso di Paolo Marcello Del Mare, che il 13 dic. 1785 scriveva al de' Ricci con toni preoccupati per la salute spirituale del D.: questi conduceva, è vero, una vita "irreprensibile" e professava "massime giustissime", ma "tutte queste belle doti sono incombinabili colla scoperta protezione per il pubblico casino nella villeggiatura della Polcevera", luogo dove "tutto spira mollezza e licenza", dove si ballava e si giuocava, dove "il lusso vi è all'eccesso", tantoché molti ormai cominciavano a chiamare il D. "Signor Inconseguenza, giacché non v'è maggiore inconseguenza quanto il fare il giansenista, il frequentare ogni otto giorni i sacramenti, profondere il suo in sollievo de' poveri, e poscia dichiararsi antesignano di una casa di debosce" (ibid., pp. 419 s.).
Tornato a Genova nell'agosto 1783, il D. ebbe poco tempo per godersi l'otium pregustato a Vienna: il 27 dicembre venne eletto senatore. La carica gli riusci poco gradita, anche perché ne sperimentò l'inutilità. Il 9 luglio 1785 scriveva al de' Ricci: "Finirò la mia toga, se vivo, a dicembre prossimo desolato di non aver potuto far nulla di bene in materie in ispecie che esiggono riordinamento: ma le contraddizioni dei pusillanimi, le opposizioni dei lodatori dei tempi andati mi farà [sic] romper a poco a poco le braccia" (ibid., p. 578). Tuttavia era riuscito, nel settembre 1784, a far eleggere neologo della Repubblica" il giansenista G. B. Molinelli, con soddisfazione dei sacerdoti facenti capo ad Eustachio Degola. E nel febbraio dello stesso anno aveva ottenuto un prestigioso attestato di stima quando l'imperatore Giuseppe II, in viaggio verso Roma, era venuto a fargli visita a Genova, ospite del suo palazzo e del suo palco al teatro S. Agostino.
Nel 1785, con i cugini Gian Luca e Giacomo Filippo Durazzo e con il doge Gian Carlo Pallavicini, fu tra i primi e più illustri azionisti di una banca di sconto sorta per impulso di nobili e borghesi intraprendenti, che volevano creare a Genova un istituto creditizio di tipo nuovo; ma la banca, dopo un avvio promettente, naufragò in brevissimo tempo. L'anno seguente partecipò alla fondazione della Società patria delle arti e manifatture, organismo di promozione economica e tecnico-scientifica dove personaggi della cultura e del mondo produttivo collaboravano, senza barriere di ceto, per rinvigorire ed ammodernare le manifatture della Repubblica. Alla direzione della Società, che almeno fino al 1793 rappresentò l'espressione più concreta del movimento riformatore genovese e del "patriottismo civile", il D. restò per tutto il quadriennio 1786-89, anche se pian piano il suo impegno diminui per il sopraggiungere di altre incombenze.
Nel 1786 dovette sbrigare qualche pratica relativa alla successione del marchesato di Pontinvrea, presso Savona, che aveva ricevuto in eredità da Argentina Imperiale Invrea; nel febbraio 1787, alla morte di Marcellone Durazzo, fu designato a dirimere le eventuali controversie tra i figli nella divisione del ricchissimo patrimonio. Il 18 giugno dello stesso anno entrò di nuovo in Senato ed ancora una volta accettò la carica con riluttanza, lamentandosi a più riprese che la toga non lo lasciava respirare. Intanto si aggravavano le condizioni di salute di suo padre, che egli assistette con grande assiduità fino alla morte, avvenuta il 21 dic. 1791; e nel corso del 1788 si ammalò seriamente la moglie, tanto che temette di perderla.
Terminato il biennio in Senato, il D. visse più appartato e non comparve sulla scena pubblica sino al novembre del 1793, quando venne eletto in una giunta straordinaria che doveva "invigilare alla quiete e tranquillità della città" in un momento particolarmente delicato per le tensioni internazionali che investivano Genova e ne minacciavano la neutralità. La Repubblica aristocratica stava lentamente scivolando verso la fine, l'allineamento a fianco della Francia compiuto nel 1796 non fece che rinviare di poco il cambiamento di regime. Nel maggio 1797 un intempestivo moto "giacobino" ed una conseguente controrivoluzione popolare fecero precipitare la situazione. Il 22 maggio si fu costretti a formare una commissione straordinaria per la tutela dell'ordine, composta da cinque patrizi - tra i quali il D. - e cinque borghesi. Il 27 Bonaparte, preoccupato per gli interessi francesi in Liguria, inviò al governo genovese una lettera durissima, che poneva condizioni umilianti; il Senato non reagi, anzi inviò al quartier generale di Mombello una deputazione composta dal D., da Cesare Doria e dal banchiere Adamo Calvi per presentare scuse e giustificazioni. I tre vennero ricevuti malamente dal Bonaparte, che era ormai deciso ad imporre un nuovo assetto istituzionale alla Repubblica. Il D. si rese conto che era necessario cedere e scrisse al Senato in tal senso. Poi, sulla via del ritorno, pensò bene di cadere ammalato e di fermarsi in una sua villa di Novi, lontano dai tumulti che accompagnavano a Genova la nascita della nuova Repubblica democratica.
Nel settembre 1797, quando un'ondata controrivoluzionaria scosse le campagne liguri, fu tra coloro che tentarono di placare gli insorti. Ma negli anni seguenti, quando tutti gli ex nobili vennero esclusi dalle cariche pubbliche, scomparve di scena, pur mantenendo col nuovo regime buoni rapporti. A febbraio del 1800 fu infatti il primo aristocratico, con Michelangelo Cambiaso, ad entrare in quella Commissione di governo istituita alla fine del 1799 dopo lo scioglimento del Corpo legislativo: Girolamo Serra, nelle sue memorie, dirà malignamente del Cambiaso e del D. che "si sarebbero creduti i più atti a governare in tempi difficili, se non avessero governato" (Serra, p. 113).
Nell'aprile del 1800, mentre Genova era sempre più drammaticamente cinta d'assedio, rifiutò di far parte d'una ristretta Deputazione sugli Affari militari. Rifiutò del pari, dopo la capitolazione del 4 giugno, di partecipare alla reggenza imperiale creata dagli Austriaci al momento del loro ingresso a Genova. Tornati i Francesi, e ricostituitosi un governo repubblicano ma ormai totalmente privo di connotati democratici e fortemente asservito a Parigi, il D. divenne membro di una Consulta legislativa impegnata nell'opera di liquidazione dell'esperienza giacobina. L'anno dopo era nella commissione incaricata di preparare il progetto della nuova costituzione ligure, pronta ad ottobre, ma poi rivista e rielaborata dal primo console ed entrata in vigore solo nel 1802.
Tornò ad esistere con essa, quasi per adombrare il ritorno al vecchio ordine, un Senato presieduto da un doge; e a quest'ultima carica venne chiamato il D., che si insediò il 10 ag. 1802. Ma il Senato era ormai un cimitero di elefanti, nel quale vecchi democratici convertiti e vecchi illuministi delusi dibattevano questioni che essi non potevano decidere senza il consenso del padrone francese. Il D. vi prese raramente la parola, a volte per proporre quel concordato con la S. Sede che gli stava molto a cuore in questo periodo; altre volte per deplorare con accenti da bacchettone "la scostumatezza grande che è per la città, … la sfrontatezza e l'irreligione, … le massime di libertinaggio" diffuse "da quantità di libri che s'introducono clandestinamente" (RepubblicaLigure, 436).
La funzione del D. era ormai soltanto decorativa: nel 1803, a luglio, ricevette splendidamente nel suo palazzo di strada Balbi Gioacchino Murat e sua moglie Carolina Bonaparte; il 18 ott. 1804 offri un pranzo sontuoso in onore di Cristoforo Saliceti, giunto a Genova per stringere ulteriormente le catene della Repubblica Ligure. E quando, nel novembre 1803, si trovò a presiedere la deputazione che rappresentava i creditori genovesi nel confronti della Francia, non poté far nulla per evitare il destino comune a tutti gli altri creditori, cioè la liquidazione sotto forma di rendita pubblica francese, e per un terzo soltanto del capitale, oltre alla perdita di un decennio di interessi. In compenso seguitò privatamente a condurre affari finanziari e negli anni 1802-1804 figurò sempre tra i principali procuratori nei prestiti esteri "all'uso di Genova"; ma occorre dire che delle sue attività bancarie ignoriamo, quasi tutto, e non sembra che possa venire molta luce dagli sparsi documenti che lo concernono esistenti nell'archivio Durazzo di Genova.
Nel 1805 si recò con alcuni senatori a Milano per ossequiare Napoleone che veniva a farsi incoronare re d'Italia: intanto i rimanenti senatori, manovrati dal Saliceti, votavano la riunione della Liguria all'Impero francese.
Avutane notizia il 29maggio, il vecchio doge accettò il fatto compiuto e presentò il voto all'imperatore con parole di circostanza ("Veuillez nous accorder le bonheur d'être vos sujets") che suonavano false fino al cinismo. "Ma quell'uomo - dirà Girolamo Serra - d'animo veramente maraviglioso nella prontezza e nel piacere di beneficare, non avea fermezza d'animo o giudicava… che una resistenza inutile è sempre pericolosa" (Serra, p. 123).
Trasformato in "amministratore e prefetto provvisorio" del costituendo dipartimento di Genova, a partire dal 25 giugno collaborò con l'arcitesoriere Ch-Fr. Lebrun per perfezionare l'annessione. Il 27 si recò a Novi per incontrarvi Napoleone che veniva a Genova, lo accompagnò in città, lo ospitò in casa propria. Nei mesi seguenti fece giurare fedeltà ai funzionari pubblici, riuni i nuovi Consigli di dipartimento e di circondario, diffuse gli ordini riguardanti l'armamento costiero, le amministrazioni comunali, le finanze, l'alloggiamento delle truppe, la raccolta di informazioni personali. Ma non era che un passacarte di Lebrun, senza alcuna autorionlia. La sua fedele obbedienza venne premiata a novembre con la nomina a senatore e conte dell'Impero: splendida ed inutile carica che lo condusse a Parigi con gli altri genovesi analogamente ricompensati da Napoleone, mentre in patria continuava a tenere aperto il suo ricco palazzo per gli ospiti illustri, come Camillo e Paolina Borghese, che vi sostarono nell'ottobre del 1808.
Il D. morì a Genova il 21 genn. 1809.
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G. Assereto