PANDOLFI, Girolamo
PANDOLFI, Girolamo (Girolamo da Casio, Girolamo Casio de’ Medici). – Nacque a Bologna il 16 novembre 1467, figlio del proprietario terriero Marchione, originario di Castel di Casio nella collina bolognese, e di Elisabetta Banzi, sposata in seconde nozze.
Il padre era già morto nel 1475, mentre la madre visse a lungo, se in un sonetto Pandolfi parla della sua «matura e dolce morte» (Cronica, [Bologna], [post 1527], c. 55r). Da un precedente matrimonio del padre erano nati tre figli: il primogenito Antonio, notaio, che dal 1461 al 1502 rogò fra Camugnano, Casio e Carpineta, quindi molto legato al luogo di origine della famiglia; Pietro, morto prima del 1489; Francesco, drappiere, che risulta già morto nel 1503.
Pandolfi fu avviato alla mercatura probabilmente dal fratello Francesco, maggiore di circa vent’anni. Nel 1488 sposò Camilla Bocchi, da cui ebbe tre figlie – Veronica, Elena e Dorotea – e, dopo il ritorno da un pellegrinaggio in Terrasanta nel 1497, due maschi, Giacomo e un altro, morto in tenera età. Il viaggio al S. Sepolcro fu particolarmente avventuroso, poiché la nave veneziana sulla quale si trovava Pandolfi rimase coinvolta in uno scontro fra greci e turchi e i pellegrini furono tratti prigionieri, come egli stesso racconta nella Clementina (pubblicato insieme con la Cronica, cit., c. 118r) e come confermano i Diarii di Marino Sanuto (1879, I, p. 702).
Riacquistata fortunosamente la libertà per un intervento diplomatico di Venezia (raccontato nella Clementina, c. 101r) e ritornato in patria, divenne una figura di rilievo della corte bentivolesca: nel 1499 fece parte della ristretta cerchia che accompagnò Annibale II Bentivoglio a Milano a «visitare et honorare el re de França» (Fileno Dalla Tuata, 2005, I, p. 406); forse in quell’occasione prese gli accordi con il pittore Giovanni Antonio Boltraffio, al quale l’anno successivo, insieme con Laura, moglie del fratello Francesco, diede l’incarico di eseguire una pala d’altare per la cappella di famiglia, nella chiesa di S. Maria della Misericordia a Bologna.
La tavola (Pala Casio), attualmente al Louvre, è ricordata già nella Graticola di Bologna del pittore Pietro Lamo (circa 1560). Nella configurazione originaria Pandolfi era ritratto con una catena attorno al corpo, segno della prigionia subita, ma successivamente il motivo fu occultato e fu invece aggiunta sulla testa la corona poetica, con un mutamento iconografico ritenuto più consono alla figura ‘pubblica’ del dedicante, lasciando come unico ricordo del pellegrinaggio il berretto crociato tenuto fra le mani. Il dipinto, oggetto di innumerevoli studi, è considerato «tra gli esempi più precoci di pala moderna realizzati in Italia» (Romano, 1981, p. 45), snodo importantissimo perché «Boltraffio trasforma la tradizionale pala d’altare con la Madonna in trono fra i santi e i committenti in una sorta di sacra conversazione all’aperto» (Ballarin, 2010, p. 697). Nella stessa chiesa, l’anno precedente era stata collocata sull’altare maggiore l’Adorazione del Bambino commessa a Francesco Francia da Anton Galeazzo Bentivoglio (ora alla Pinacoteca nazionale di Bologna), dipinto anch’esso legato a Pandolfi, forse ritratto nel pastore sulla destra, ma che soprattutto non fu estraneo al programma iconografico, se si pensa ai versi da lui indirizzati al pittore, nei quali raccomanda come modelli membri della famiglia Bentivoglio: «Se brami, Franza mio, nella pittura / de’ moderni e de’ antichi haver onore / [...] non ti partir, compar, da quella Corte / a cui è propitio ogni stella e ogni fato» (Vite dei santi, [Bologna?], [1524?], c. 55v).
L’anno giubilare 1500 segnò un punto di svolta per la carriera di Pandolfi, che si fece ritrarre più volte dall’amico Boltraffio: due almeno i ritratti sicuri, uno ora a Milano, Pinacoteca di Brera, e l’altro nella collezione Devonshire di Chatsworth.
Nel secondo dipinto la tendenza ad abbellire i tratti somatici (ricordata dallo stesso Pandolfi in un tetrastico della Cronica, c. 46r: «L’unico alievo del Vinci Leonardo, / Beltraffio, che col stile e col pennello / di natura faceva ogni uom più bello») diventa quasi pura astrazione. Degno di nota anche il verso del dipinto, che raffigura un teschio con la didascalia «Insigne sum Ieronymi Casii»: esso sta a significar l’altra faccia del verseggiatore d’amore, rappresentato sul retto, cioè il poeta di epitaffi, che costituiscono la maggior parte della sua produzione poetica. Nelle Vite dei santi (Bologna, B. Faelli, 1525) egli riferisce che fu lo stesso Leone X a esortarlo a tale produzione, con queste parole: «Hieronimo il scrivere de Amore non è a te più conveniente suietto, et ancor troppo in ciò troverai superiori. Ma scrivendo de le cose divine et de epitaphii, non tanti, perché manchi sono quilli che scriveno dil Cielo, et di Morte, che quegli di Amore» (cit. in Caprara, 2000, p. 74).
Nel 1501 ospitò nella sua casa, a pochi passi dalla basilica di S. Stefano, Giuliano de’ Medici duca di Nemours, che gli concesse di aggiungere il cognome Medici a quello paterno, probabilmente come ricompensa per avere contribuito a salvare i beni della famiglia durante il periodo burrascoso della Repubblica fiorentina, grazie alle sue entrature di mercante, esperto di gioielli e intermediario con le botteghe orafe di Bologna e Roma. Fu poi inviato come oratore dei Bolognesi presso Cesare Borgia, e l’anno successivo a Roma e a Napoli; nel 1503 andò in missione diplomatica per conto di Giovanni II Bentivoglio a Mantova, e divenne uno dei maggiori corrispondenti di Isabella d’Este, alla quale rimase sempre molto legato.
Grazie alla protezione dei Medici restò indenne dal crollo dei Bentivoglio, anzi la sua fortuna si accrebbe con l’elezione di papa Leone X, che nell’ottobre 1513 lo inserì fra i Quaranta del Reggimento bolognese. Il Senato si oppose, protestando le umili origini della famiglia («perché invero suo padre steva a Chaxi et era vilan chome li altri e pagava le cholte», scrive il cronista Fileno dalla Tuata, 2005, II, p. 6809), e si appellò al papa, che fu costretto a ritirare la nomina («lui se scusò e dise chredre fuse nobele e chosì romaxe oxelado, benché sia lui zentil persona, ma è tropo borioso», ibid.). Pandolfi tentò di correre ai ripari, rivolgendosi ripetutamente, con la mediazione dell’amico pittore Lorenzo Costa, anche a Francesco Gonzaga, e accompagnando le sue richieste con l’invio di un dono prezioso («il Spirito Santo intagliato in una pietra, quale ha gli ragi di foco naturali»), che però il marchese di Mantova rispedì al mittente con la frase sdegnosa: «Noi ce intendemo meglio de cavalli et arme che de intagli» (Luzio - Renier, 2005, p. 197).
Il lavoro principale di mercante d’arte lasciò a Pandolfi il tempo per alcuni incarichi pubblici, come la podesteria di Castelbolognese del 1520, l’anzianato dell’anno seguente e ancora la podesteria a San Giovanni in Persiceto nel 1522 (Cavicchi, 1915, p. 11). La massima ascesa sociale fu raggiunta durante il papato di Clemente VII, che nel 1523 gli concesse i titoli di cavaliere aurato e di poeta laureato, attirandogli per sempre l’odio dei letterati contemporanei, testimoniato da Pietro Aretino nella Cortigiana (atto II scena 11), da Agnolo Firenzuola nella Prima veste dei discorsi degli animali, da Paolo Giovio nel Dialogo dell’imprese militari e amorose (che racconta il gustoso aneddoto della gemma portata sul berretto da Pandolfi), ma soprattutto da Francesco Berni, che lo scelse come bersaglio polemico del suo Dialogo contra i poeti.
In vista del giubileo del 1525 fece collocare una pregevole acquasantiera in pietra e marmi policromi in S. Maria dei Servi (a poca distanza dalla sua abitazione), che fu certamente mostrata con orgoglio al legato Innocenzo Cybo alla sua entrata in Bologna il 4 agosto. Nel poema Bellona Pandolfi descrive gli otto archi trionfali allestiti nell’occasione lungo strada Maggiore: in quello presso il «canton del Casio» il poeta aveva appeso dei biglietti contenenti versi dedicati al legato e altri ne gettò dalle finestre di casa al suo passaggio. Altro evento pubblico di grande risonanza nelle cronache cittadine fu l’incoronazione di Carlo V del 1530: in quell’occasione la casa di Pandolfi rivaleggiava con quella di Veronica Gambara come punto di ritrovo per letterati, artisti, prelati, dame e uomini d’arme giunti da altre città (cfr. Giordani, 1842, pp. 76 s.).
Morì a Roma nel 1533, ricordato soltanto nella Descriptio totius Italiae di Leandro Alberti (Cavicchi, 1915, p. 12): destino beffardo per chi di epitaffi era vissuto.
Il patrimonio probabilmente sfumò in fretta, perché pochi anni dopo il figlio Giacomo chiese e ottenne dal cardinale legato Guido Ascanio Sforza un impiego come soprastante alle guardie di palazzo. Forse per lo stesso motivo, la sua collezione di antichità fu acquistata dal pittore Primaticcio per il re di Francia Francesco I (Agosti, 2005, p. 149).
La produzione letteraria di Pandolfi – oltre ai citati Cronica, Clementina, Vite dei santi, il poema Bellona, i Fasti, la Vita e morte de miser Iesu Christo, una Canzon ove si narra la strage, e il sacco di Roma e altri opuscoli – è stata illustrata già da Giovanni Fantuzzi (1783), alcune aggiunte si devono a Carlo Malagola (1878). Sebbene ampia e varia, non ha attirato l’attenzione degli studiosi, che ne hanno sempre sottolineato lo scarso valore poetico. Innegabile invece l’alto interesse per le vicende artistiche, che caratterizza anche le numerose lettere private, sue e dei suoi corrispondenti, di cui tuttora però manca un censimento e un’edizione complessiva (la scelta più ampia fu pubblicata da Luzio - Renier dal copialettere di Isabella d’Este all’Archivio di Stato di Mantova).
Definire Pandolfi poeta o umanista o antiquario significa fermarsi a una parte della sua attività, dimenticando l’impegno che lo assorbì negli anni migliori, cioè il commercio di opere d’arte italiane nel primo squarcio del Cinquecento. Fu un tramite importantissimo fra le corti padane e Firenze: si pensi all’acquisto a Firenze del blu oltremarino per Francesco Francia in procinto di dipingere un’allegoria per lo studiolo di Isabella Gonzaga, su programma iconografico suggerito da Paride Ceresara (1505), o all’invio alla stessa marchesa di «un quadro di frutti» di Antonio da Crevalcore (una precocissima natura morta), insieme con una più tradizionale Maddalena di Lorenzo di Credi (1506).
In lui emergono i tratti inconfutabili di un innovatore nel gusto artistico, che finì per imporre le sue scelte presso i committenti più prestigiosi. Il Libro intitulato Cronica ove si tratta di epitaphii di amore e di virtute composto per il Magnifico Casio Felsineo Cavaliero e Laureato: versi tremillia e cinquecento, oltre ai versi per Mantegna, Leonardo, Raffaello, contiene numerosi componimenti su artisti minori come Antonio da Crevalcore, l’oscuro Ombrone da Fossombrone, Giovanni Antonio Boltraffio, l’orafo e pittore Francesco Francia, gli orafi Angelo da Pasquino, Annibale e Agostino Mosca, lo scultore Gian Cristoforo Romano, l’architetto Donato Bramante; ma si sofferma anche su altri attori della scena artistica, cioè committenti, collezionisti, antiquari, soprattutto di ambiente bolognese: Antonello Averoldi, Giacomo Giglio, Giovan Francesco Aldrovandi (ospite bolognese di Michelangelo).
Esiste poi tutto un filone sui personali interessi figurativi di Pandolfi e sulla sua attività come committente, che passa per i contatti con Francesco Francia e con suo figlio Iacopo (che eseguì per lui un’Ascensione di Cristo già in S. Petronio, andata distrutta), i plurimi rapporti con Boltraffio, amico di una vita, la commissione a Giuliano Bugiardini del San Giovanni Battista attualmente alla Pinacoteca di Bologna (1523-25), i legami con Ludovico Mazzolino che per lui dipinse il Tributo della moneta ora al Museo nazionale di Poznań. Inoltre vanno menzionati gli interessi antiquari, la promozione di raccolte poetiche (per la morte di fra Mariano da Genazzano), imprese editoriali come la pubblicazione dell’Epigrammaton libellus di Giovanni Capitoni, le xilografie che adornano il Libro dei fasti (Bologna, B. Faelli, 1528) il frontespizio della Cronica (ibid. post 1527) inciso da Amico Aspertini.
Le edizioni a stampa delle opere di Pandolfi sono censite in EDIT16, ancora molto incerto per datazioni e nomi dei tipografi. E. Lamma, I codici Trombelli della R. Biblioteca Universitaria di Bologna, in Il Propugnatore, n. s., II (1893), pp. 265-274 pubblica versi del Casio o a lui indirizzati nella raccolta per Mariano da Genazzano dal ms. 2618 della Biblioteca universitaria di Bologna.
Fonti e Bibl.: Bologna, Arch. arcivescovile, Battesimi, anno 1467; Arch. di Stato di Bologna, Notarile, not. Alberto Argelata, 15 ottobre 1488; Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Mss., B.849: B. Carrati, Battesimi, c. 131; P. Aretino, Commedie, a cura di G. Petrocchi, Milano 1971, pp. 137, 658; M. Sanuto, Diarii, I, Venezia 1879, p. 702; A. Firenzuola, Le novelle, a cura di E. Ragni, Roma 1971, p. 287; P. Giovio, Ragionamento dell’imprese militari e amorose, a cura di M.L. Doglio, Roma 1978, p. 44; F. Dalla Tuata, Istoria di Bologna, a cura di B. Fortunato, Bologna 2005, I, p. 406; II, pp. 680, 692; P. Lamo, Graticola di Bologna, a cura di M. Pigozzi, Bologna 1996, pp. 63 s.; G. Fantuzzi, Notizie degli scrittori bolognesi, III, Bologna 1783, pp. 130-140; G. Giordani, Della venuta e dimora in Bologna di Clemente VII per la coronazione di Carlo V imperatore, Bologna 1842, pp. 76 s. e App., pp. 52 s.; C. Malagola, Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro. Studi e Ricerche, Bologna 1878, pp. 248-252, 503; G. Geremia, Sulla vita e sulle opere di Girolamo Casio, Palermo 1902; F. Cavicchi, Girolamo da Casio, in Giornale storico della letteratura italiana, LXVI (1915), pp. 1-51, 356-405; M. Reggiani Rajna, Un po’ d’ordine fra tanti Casii, in Rinascimento, n.s., II (1951), pp. 337-383; G. Romano, Verso la maniera moderna: da Mantegna a Raffaello, in Storia dell’arte italiana, Parte II, II, 1, Torino 1981, pp. 5-85; C. Vecce, Leonardo, Roma 1988, pp. 196, 203; C. Franzoni, Le raccolte del “Theatro”di Ombrone e il viaggio in Oriente del pittore: le “Epistole” di Giovanni Filoteo Achillini, in Rivista di letteratura italiana, VIII (1990), pp. 302-305; F.M. Molza, Novelle, a cura di S. Bianchi, Roma 1992, pp. 7, 21; A. Reynolds, Renaissance human-ism at the court of Clement VII: Francesco Berni’s “Dialogue Against Poets” in context, New York-London 1997, ad ind.; E. Berselli, Un committente e un pittore alle soglie del Cinquecento: Girolamo Casio e Giovanni Antonio Boltraffio, in Schede umanistiche, XI (1997), 2, pp. 123-143; G. Agosti, Scrittori che parlano di artisti, tra Quattro e Cinquecento in Lombardia, in B. Agosti et al., Quattro pezzi lombardi (per Maria Teresa Binaghi), Brescia 1998, pp. 55 s., 63, 89; M.T. Fiorio, Giovanni Antonio Boltraffio: un pittore milanese nel lume di Leonardo, Milano 2000, pp. 40-54 e ad ind.; F. Caprara, Girolamo Casio e il ritratto a Bologna, fra religione, moda e letteratura, in Il carrobbio, XXVI (2000), pp. 61-82; G. Agosti, Su Mantegna, Milano 2005, pp. 125, 148 s.; A. Luzio - R. Renier, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d’Este Gonzaga, a cura di S. Albonico, Milano 2005, ad ind. (ed. or. 1899-1903); A. Buitoni - G. Paltrinieri, L’acquasantiera di S. Maria dei Servi e altre committenze bolognesi di G. P. da Casio, in Strenna storica bolognese, LVIII (2008), pp. 39-66; S. Hickson, ‘To see ourselves as others see us’: Giovanni Francesco Zaninello of Ferrara and the portrait of Isabella d’Este by Francesco Francia, in RenaissanceStudies, XXIII (2009), pp. 288-310; A. Ballarin, Leonardo a Milano. Problemi di leonardismo milanese tra Quattrocento e Cinquecento. Giovanni Antonio Boltraffio prima della pala Casio, I, Verona 2010, pp. 692-697.