RORARIO, Girolamo
– Figlio di Francesco e di Bianca Dall’Oglio, di Verona, nacque a Pordenone nel 1485.
La famiglia Rorario, originaria della frazione di Roraigrande, aveva ottenuto il titolo nobiliare dagli Asburgo nel 1447 e da allora si era distinta per la sua fedeltà alla casa d’Austria, che l’aveva ricompensata anche con privilegi territoriali, come l’investitura dei beni in Poincicco, concessa nel 1487 dall’imperatore Federico III a Francesco, il padre di Girolamo.
Rimasto orfano all’età di cinque anni, Rorario rimase sotto la tutela del fratello Antonio, molto più anziano di lui. Iniziò l’apprendistato letterario a Pordenone con l’umanista Francesco Amalteo, poi proseguì gli studi a Venezia, alla scuola di Marcantonio Sabellico, e successivamente fu mandato a Padova, dove intraprese con poca passione lo studio della giurisprudenza. Conseguì comunque la laurea e, per garantirsi migliori prospettive di carriera, decise di prendere la tonsura ed entrare nel ceto ecclesiastico, anche se sarebbe rimasto sempre un chierico con i soli ordini minori.
La prima svolta della sua vita avvenne nel 1508. Nella primavera di quell’anno la Repubblica di Venezia ebbe la meglio nella guerra contro l’imperatore Massimiliano e conquistò Pordenone. Fu allora che numerosi cittadini pordenonesi, fedeli all’Austria, preferirono allontanarsi in spontaneo esilio. Tra costoro, c’erano anche Rorario e suo fratello Antonio, che si diressero verso Vienna. Qui vennero introdotti nella corte imperiale dall’altro loro fratello Ludovico, che si era già acquistato le grazie di Massimiliano, e da monsignor Luca De Renaldis, influente consigliere del governo austriaco nonché cognato della sorella di Girolamo, Diamante, che aveva sposato Nicolò De Renaldis. Ben presto anche Rorario si guadagnò il favore dell’imperatore: fu inviato in Germania e in Francia con l’incarico di reclutare leve per la guerra della Lega di Cambrai e nel 1516 fu mandato alla corte di Napoli, per sorvegliare che non vi fossero problemi alla successione al regno, ove Carlo d’Asburgo, nipote di Massimiliano, saliva al trono dopo la morte di Ferdinando. Avendo Rorario dato prova di grande abilità e destrezza, l’imperatore lo incaricò, nel 1517, di mettere pace tra papa Leone X e Francesco Maria Della Rovere duca di Urbino, e in questa sua prima missione alla corte di Roma Rorario incontrò anche il favore del pontefice, che lo insignì del titolo di protonotario apostolico.
Per le missioni diplomatiche che gli furono affidate, Rorario compì numerosi viaggi tra la Francia, la Germania, l’Italia e la Spagna, dove si trovava nel 1519 (precisamente a Barcellona) al seguito di Carlo d’Asburgo quando l’imperatore Massimiliano morì e Carlo fu eletto imperatore con il nome di Carlo V. Il nuovo sovrano lo nominò consigliere e commissario imperiale, cariche di cui era già stato insignito precedentemente il fratello Antonio. Con un diploma, datato 14 febbraio, concesse inoltre ai due fratelli, Girolamo e Antonio, il titolo di conti palatini e il diritto di inserire l’aquila imperiale nel loro stemma gentilizio.
In questi anni Rorario non si dedicò soltanto al promettente esordio della sua carriera diplomatica, ma anche all’attività letteraria, scrivendo i Dialoghi in latino su modello di Luciano, autore greco, caro a un importante filone del nostro umanesimo, da Leon Battista Alberti (Intercenali) a Giovanni Pontano (Dialoghi), filone di cui Rorario riprende il tono moralistico, e anzi può essere considerato l’epigono.
Composti tra il 1513 e il 1520, i Dialoghi sono un’opera letteraria ed erudita, che rifugge da quell’acre tono satirico che adotteranno gli umanisti d’Oltralpe, primo fra tutti Erasmo da Rotterdam (comunemente riconosciuto autore del dialogo satirico Iulius exclusus, attribuito per errore a Rorario dallo studioso friulano Pio Paschini). Tuttavia, dietro una patina di riferimenti, richiami, allusioni, involuti e oscuri ai non esperti, si nascondono cenni e accuse ad avvenimenti concreti e a persone in carne e ossa con cui Rorario era venuto in contatto in quei primi anni della sua carriera diplomatica. Carriera che proseguì con successo verso ranghi più alti.
Nell’estate del 1521, grazie alla pace di Worms tra Impero e Repubblica di Venezia, Rorario poté rientrare in possesso dei suoi beni e godere del rientro concesso ai fuoriusciti nelle località passate sotto un nuovo dominio; lasciò subito dopo il servizio degli Asburgo per assumere (9 gennaio 1522) l’incarico di segretario apostolico presso la Curia papale assegnatogli dal nuovo papa Adriano VI, già precettore e consigliere di Carlo V.
Nel 1523, morto Adriano VI ed eletto papa Clemente VII (Giulio de’ Medici), fu creato cameriere ed ebbe nuovi e importanti incarichi. Accompagnò come segretario il cardinale Lorenzo Campeggi, nunzio apostolico in Germania dal 1524 al 1527 per risolvere l’annosa questione luterana. Una volta tornato a Roma, nel 1525 fu insignito del titolo di conte del Sacro Palazzo.
Con l’elezione al soglio pontifico di papa Paolo III Farnese iniziò per il nunzio pordenonese un periodo denso di incarichi diplomatici: grazie alla sua particolare posizione di rappresentante del papa e di fedele servitore degli Asburgo, fu più volte inviato in Ungheria per mettere pace tra Ferdinando d’Asburgo e Giovanni Zápolya, già re di Transilvania, che si contendevano il trono di quel paese dopo la morte di Luigi II Jagellone nella battaglia di Mohács del 29 agosto 1526. L’invio di Rorario, nel dicembre 1534, presso Giovanni Zápolya per cercare di convincerlo a sostenere le sorti della cristianità, suscitò la reazione del governo di Vienna, che accusava il papa di appoggiare le pretese dello Zápolya sull’Ungheria, con l’aiuto di Francia e Inghilterra. Rorario corse persino il rischio di essere arrestato qualora fosse capitato in territorio imperiale. Fortunatamente l’incidente si risolse senza gravi ripercussioni: Rorario fu richiamato a Roma dal papa e, grazie all’intercessione dell’influente cardinale di Trento, Bernardo Cles, chiarì le sue posizioni. In compagnia del cardinale di Cles si recò poi a Napoli dall’imperatore Carlo V per fornire delucidazioni sulla sua ultima missione diplomatica e testimonianza della sua indiscussa fedeltà agli Asburgo.
Nonostante questo insuccesso, che aveva cominciato a far vacillare la sua carriera negli ambienti pontifici, gli fu affidata nell’estate del 1539 un’altra missione in Ungheria e Polonia. Rorario avrebbe dovuto promuovere la pace tra Ferdinando d’Asburgo, Giovanni Zápolya e re Sigismondo di Polonia e favorire un’alleanza cristiana tra il papa e i tre sovrani contro i turchi. Una parte della missione si svolse con successo e nella primavera del 1540 Rorario, a nome del pontefice, consegnò a Sigismondo di Polonia lo stocco e il pileo benedetti, regali solitamente dati ai re che dovevano combattere i nemici della fede cristiana. L’incarico in Ungheria, dove Rorario avrebbe dovuto consegnare le bolle apostoliche di nomina dei vescovadi ungheresi e raccogliere denaro contro i turchi, fu invece un completo fallimento: per ordine di Ferdinando d’Asburgo egli disattese le istruzioni del papa e nell’estate del 1540 fece ritorno a Pordenone, ponendo così fine definitivamente alla carriera nella Curia romana.
Ma il motivo del suo ritiro definitivo dalla carriera diplomatica fu sicuramente un altro: già da alcuni anni egli viveva clandestinamente con Camilla Savina, pordenonese ma originaria di Parma, e aveva avuto da lei tre figli, Claudio, Fulvio e Rutilio, una situazione familiare che regolarizzò con il matrimonio e la rinuncia agli ordini minori. Questo gli costò anche non pochi problemi economici per la perdita di tutti i benefici ecclesiastici accumulati durante la sua carriera romana, come il vicariato imperiale nel capitolo di Aquileia o la parrocchia di Cormons.
In questi ultimi anni di ritiro pordenonese Rorario si dedicò alacremente all’attività letteraria, a cominciare dalla satirica Oratio pro muribus, dedicata al giurista padovano Ottonello Pasini, unica opera edita in vita dell’autore (Augsburg, Ph. Ulhardt, 1548). Nel 1543 compose l’Heroica historia in ventuno libri, una ripresa in latino delle leggende del ciclo carolingio, ma anche dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto.
Sempre nel 1543-44 fu scritta l’opera di gran lunga più famosa di Rorario, il trattato in due libri Quod animalia bruta ratione utantur melius homine, grazie alla riscoperta e all’edizione fatta nel 1648 a Parigi dall’erudito francese Gabriel Naudé e ristampata in Olanda e Germania nel 1654, 1666, 1702, 1728. L’interesse destato dallo scritto deriva dalle discussioni sull’anima degli animali riaccese all’epoca dalle teorie di Cartesio. Ad accrescere la fama dell’opera contribuì poi Pierre Bayle, che dedicò a Rorario una lunga voce nel suo Dizionario storico-critico del 1697.
Alle originali posizioni filosofiche Rorario unisce un sapiente uso delle fonti classiche (Plutarco, Plinio il Vecchio) e aneddoti e personaggi derivanti dai suoi numerosi viaggi. L’opera si conclude con una lunga difesa della lingua latina contro la «bestialità» e l’inferiorità della lingua volgare, che è una posizione non solo letteraria ma anche politica. L’attaccamento ai dettami dell’umanesimo latino si accompagna infatti in Rorario alla fedeltà alla casa d’Austria e all’anacronistico sogno degli Asburgo di un universale impero cristiano.
Sugli ultimi anni di Rorario le notizie sono molto scarse. Il 16 febbraio 1549 figura tra i testimoni in casa della famiglia Mantica della donazione dei beni che il vescovo di Capodistria, Pier Paolo Vergerio, suo antico compagno di nunziatura, ricercato dall’Inquisizione perché convertitosi alla fede luterana, fece ai nipoti. Ma non vi è motivo per supporre che egli simpatizzasse per le idee riformate.
Morì a Pordenone alla fine del 1555 o nel 1556.
Di Rorario sono disponibili in edizione moderna la ristampa anastatica di Quod animalia bruta ratione utantur melius homine, Parigi 1648, a cura di M.T. Marcialis, Lecce 2001, e Le opere, a cura di A. Scala, Pordenone 2004.
Fonti e Bibl.: G.G. Liruti, Notizie delle vite ed opere dei letterati del Friuli, II, Venezia 1762, pp. 245-285; P. Paschini, Un pordenonese nunzio papale del secolo XVI, in Memorie storiche forogiuliesi, 1934, vol. 30, pp. 169-216; M.T. Marcialis, Alle origini della questione dell’anima delle bestie. I libertini e la ragione strumentale, in Saggi sull’Illuminismo, a cura di G. Solinas, Cagliari 1973, pp. 319-412; S. Cavazza, G. R. e il dialogo Julius exclusus, in Memorie storiche forogiuliesi, 1980, vol. 60, pp. 129-164; M.T. Marcialis, Filosofia e psicologia animale. Da R. a Leroy, Cagliari 1982; S. Cavazza, G. R., umanista pordenonese, in Società e cultura del Cinquecento nel Friuli occidentale, a cura di A. Del Col, Pordenone 1984, pp. 331-353; A. Scala, G. R.: un umanista diplomatico del Cinquecento e i suoi «Dialoghi», Firenze 2004; S. Cavazza, G. R., in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, a cura di C. Scalon et al., II, L’età veneta, Udine 2009, pp. 2163-2168.