SANTACROCE, Girolamo
– Le notizie biografiche relative a questo grande scultore, orafo e architetto napoletano sono scarse e di interpretazione problematica. La più antica citazione di lui si deve all’erudito Pietro Summonte, il quale lo dice «di anni circa ventidue» in una lettera del 1524 all’indirizzo di Marcantonio Michiel. Summonte ricorda anche la formazione da orefice di Santacroce, che si sarebbe successivamente «voltato in marmo», e gli assegna una medaglia fusa per il poeta umanista Iacopo Sannazaro, insieme a un perduto Apollo in marmo (Nicolini, 1925, p. 168). In uno scampolo biografico inusualmente elogiativo, Giorgio Vasari ricorda la morte dello scultore napoletano «d’anni trentacinque», avvenuta nel 1537 (Vasari, 1568, IV, 1976, p. 418). La perfetta corrispondenza tra le testimonianze di Summonte e Vasari, tra loro indipendenti, ha indotto la critica a collocare la data di nascita verso il 1502 (Naldi, 1997, p. 13).
Oltremodo complessa si è rivelata la questione della formazione di Santacroce. L’ipotesi di un apprendistato da orefice sembra comprovata non solo dai possibili legami con una famiglia di orafi documentati a Napoli nell’ultimo quarto del Quattrocento (Filangieri, 1891, pp. 417 s.), ma anche da un gruppo di opere di oreficeria già ricordate da fonti letterarie e documenti d’archivio. La medaglia del poeta Iacopo Sannazaro – conosciuta in molteplici esemplari, di cui il più importante nella collezione Parkes Weber al British Museum di Londra (Hill, 1917, pp. 100-105) – fu commissionata dalla marchesa di Mantova Isabella d’Este tra il 1516 e il 1519, come si ricava da una missiva spedita l’11 giugno 1519 da Iacopo Perillo, persona di fiducia della marchesa a Napoli (Naldi, 2007b, pp. 217-221). Quella di Andrea Carafa conte di Santaseverina, pure al British Museum nelle collezioni del re Giorgio III, è stata datata invece ai primi mesi del 1524 (Hill, 1917, pp. 100-105); un altro interessante esemplare della medaglia carafesca si conserva presso la Wallace Collection di Londra. La «patena» in oro che Ferrante Rota commissionò al Santacroce, «di tanta bellezza che fu donata dal signore Alfonso Rota [fratello minore di Ferrante] all’illustrissimo signor marchese del Vasto per una delle più belle cose di quei tempi; e poi dal detto signor marchese a Carlo V imperador nostro» (Rota - Ammirato, 1726, pp. 178 s.), non è stata identificata, ma va forse datata verso il 1528-35 (Naldi, 1997, p. 57). Sembra plausibile ritenere, pertanto, che per lunga parte del suo percorso artistico Santacroce abbia svolto l’attività di orefice parallelamente a quella di scultore.
Parte della critica otto-novecentesca legò i primi passi dell’artista allo studio delle cappelle Piccolomini-d’Aragona, di Antonio Rossellino, e Correale di Terranova, di Benedetto da Maiano, in S. Maria Monteoliveto (ora S. Anna dei Lombardi) a Napoli. L’ipotesi seguiva un’erronea indicazione dell’erudito Cesare Capaccio, che vuole Girolamo allievo del Rossellino, morto però nel 1479. Altri ritennero Santacroce seguace dei Malvito, una famiglia di scultori comaschi operanti a Napoli tra gli ultimi due decenni del Quattrocento e il primo quarto del Cinquecento (Morisani, 1947, pp. 71 s.).
La critica recente tende ad agganciare l’educazione artistica di Santacroce a una fase di collaborazione giovanile con gli scultori spagnoli Bartolomé Ordóñez e Diego Silóee sulla scia di una nota di Vasari, il quale assegna a Girolamo il S. Giovanni Battista stante in una nicchia dell’altare dell’Adorazione dei Magi della cappella Caracciolo di Vico in S. Giovanni a Carbonara. L’opera, eseguita «a concorrenza d’uno spagnuolo» (Ordóñez), deve considerarsi la prima del catalogo di opere in marmo del giovane napoletano: la tabula ansata posta sul varco marmoreo di accesso al sacello ricorda infatti che la «cappella cum ara» fu dedicata il 6 gennaio 1516 (giorno dell’Epifania). Il forte accento spagnolo che caratterizza la figura del Precursore di Cristo si coglie soprattutto nell’intonazione drammatica dell’espressione e nella sofisticata rappresentazione del movimento, insieme rotatorio e proteso verso lo spettatore, che richiama la sensibilità del S. Matteo e l’angelo di Ordóñez in S. Pietro Martire a Napoli (Naldi, 1997, p. 13). La statua del Battista, trafugata nel 1977, è stata recentemente rinvenuta a Bruxelles e attende di essere riposta in chiesa nella sua collocazione originaria (Farnesina, ministero degli Affari esteri, 15 dicembre 2016).
Allo scultore è stato ascritto anche il rilievo marmoreo del S. Marco, nella parte bassa dell’altare Caracciolo, dotato dello «stesso timbro di gracilità pungente, di grazia ansiosa» del Battista (Bologna, 1950, p. 165). L’attribuzione trova sostegno nelle parole del biografo Bernardo de Dominici, secondo il quale Santacroce «fecevi ancora le statue di S. Giovanni e un altro santo» (de Dominici, 1742-1745, I, 2003, p. 599). La precocità cronologica del S. Giovanni Battista e del S. Marco Caracciolo, eseguiti dall’artista appena quattordicenne, ha suggerito di anticipare la data di nascita dell’enfant prodige di qualche anno (Abbate, 1992, p. 167).
È rimasta ai margini del dibattito critico un’annotazione forse non troppo peregrina di de Dominici, che vuole Girolamo allievo di «un tal maestro Matteo, mediocre scultore di marmi, ma però molto pratico e che molti lavori conduceva per abbellimento di varie chiese» (de Dominici, 1742-1745, I, 2003, p. 591). Tale scultore dovrà forse identificarsi con Matteo Pellizzone da Milano, detto Matteo Lombardo (Caglioti, 2015). Le analogie di composizione e disegno che legano parte della produzione di Santacroce antecedente al 1524 al catalogo di Pellizzone sembrano comprovare la notizia dell’erudito. Nell’ancona dell’altare maggiore della chiesa di S. Aniello a Caponapoli, raffigurante la Madonna delle Grazie tra i ss. Cataldo e Aniello che presentano alla Vergine l’arcivescovo di Taranto Giovanni Maria Poderico e il signor Federico Sodorico, padre di s. Aniello, si scorgono numerose citazioni dalle opere di Pellizzone e l’adozione di schemi compositivi simili alla lunetta della Vergine delle grazie tra il papa e il cardinale Niccolò Fieschi sovrapposta al sepolcro del pontefice Innocenzo IV nel duomo di Napoli, al rilievo raffigurante Il cardinale Lorenzo Cybo presentato da s. Lorenzo alla Vergine in S. Cosimato a Roma e al tondo marmoreo della Vergine con Bambino murato in un pilone di S. Caterina a Formello a Napoli.
La possibilità di un apprendistato giovanile presso la bottega di Pellizzone sembra confermata dai rapporti condivisi con la committenza, in particolare i Carafa di Santaseverina, per i quali Santacroce eseguì la medaglia esemplata sull’effigie tombale di Andrea Carafa, già in S. Domenico Maggiore (oggi in S. Eligio) a Napoli, di Pellizzone (1513 circa); e i Galeota, i quali affidarono a Lombardo un altare eucaristico a Squillace in Calabria e al suo allievo una perduta tomba alla Ss. Annunziata di Napoli. Non è un caso, infine, che sia stato restituito a Pellizzone il busto dell’orefice romano-lombardo Giovan Pietro Crivelli, già in S. Lucia del Gonfalone a Roma (Caglioti, 2015, pp. 117, 121 n. 5), acquistato dal Museo di Capodimonte nel 2004 come ritratto di un ignoto a opera di Santacroce (Naldi, 2007b, pp. 225-231). Si dovrà ritenere pertanto che a una fase di avviamento presso la bottega di Pellizzone, da cui Girolamo «imparò i primi principii della scultura» e con cui «si portò tanto innanzi che nel disegno ei superava di gran lunga il maestro medesimo» (de Dominici, 1742-1745, I, 2003, p. 591), sia seguita l’aggregazione presso la bottega di Ordóñez, verso il 1516-17 (Bologna, 1950, pp. 164 s.).
La pala di S. Aniello, alla quale Girolamo lavorò verso gli anni 1517-24, fu commissionata dall’arcivescovo di Taranto nell’ambito dei lavori di ampliamento della chiesa primitiva, che divenne transetto di un corpo di fabbrica più esteso collegato al capocroce. La commissione si legava alla politica di rafforzamento dell’immagine dei Poderico, i quali si consideravano discendenti di s. Aniello, uno dei principali patroni di Napoli. L’ancona, rimaneggiata nel XVIII secolo, recava un tempo una predella con Storie della Passione (Vivaldo, 1596, p. 111) e «otto statuette di alcuni santi nostri tutelari e patroni» sulla trabeazione (Chiarini, 1856, I, p. 656), ancora visibili in una vecchia foto del 1953. Tanto la predella quanto sei degli otto busti originari sono andati perduti in seguito (Naldi, 1997, p. 27).
La critica ha messo in risalto l’abbandono del classico schema tripartito di ascendenza rosselliniano-maianesca, composto da un mezzo rilievo centrale affiancato da nicchie con statue; lo scultore riunì invece le figure in un’unica composizione scolpita a mezzo rilievo (p. 18). È stata sottolineata inoltre la precoce apertura santacrociana alle novità della cultura raffaellesca e leonardesca; si sono richiamati a modello l’organizzazione sintattica della Madonna di Foligno di Raffaello e del polittico del Battesimo di Cristo di Cesare da Sesto nell’abbazia di Cava dei Tirreni e gli «effetti quasi atmosferici» del rilievo della Madonna col Bambino di Diego Silóee nella cappella Tocco del duomo di Napoli (ibid.).
A Santacroce sono state restituite anche due statue di S. Giovanni Battista e di S. Benedetto, oggi nella Collezione Alana di Newark (Delaware). I due marmi, commissionati dall’abate napoletano Giovan Battista de Angelis verso il 1519, erano sistemati nelle nicchie laterali dell’altar maggiore della chiesa di S. Benedetto, oggi dell’Immacolata Concezione, a Capua (Caglioti, 2004; Id., 2011).
I numerosi rimaneggiamenti che investirono l’arredo della chiesa in seguito all’occupazione francese (1806-15) colpirono anche l’altare, che fu privato delle due statue; al loro posto furono posti due busti di Profeti, un tempo alloggiati nei due oculi rimossi che sormontavano le nicchie, secondo il modello dell’altare Piccolomini-d’Aragona in S. Maria di Monteoliveto. L’altare senza le due statue fu successivamente ricoverato nella cappella di S. Paolo del palazzo arcivescovile di Capua, dove tuttora si conserva. I Profeti sono stati attribuiti a Giovan Giacomo da Brescia, il rilievo della Natività al centro a un anonimo collaboratore di Ordóñez (Naldi, 1996).
Il 2 ottobre 1522 Santacroce dette procura insieme a Giovan Giacomo da Brescia e allo scalpellino Domenico di Iacopo Vannelli da Torano per il recupero di crediti vantati nei riguardi degli eredi di Bartolomé Ordóñez a saldo di alcuni lavori avviati a Carrara (Campori, 1873, p. 324). Il documento non specifica le singole prestazioni dei tre scultori né quando essi fossero giunti a Carrara. Da un passo dell’Autobiografia di Raffaello da Montelupo, tuttavia, si ricava che Santacroce e Giovan Giacomo da Brescia, sicuramente in città nell’autunno del 1521, furono ingaggiati per il completamento di «quatro Dotori della Chiesa di 4 palmi alti, a sedere» (Autobiografie..., 1863, p. 99). Questa precisazione ha consentito di legare le prestazioni dei due artisti al completamento del sepolcro dell’arcivescovo di Toledo Francisco Jiménez de Cisneros nella cappella del Colegio Mayor de S. Ildefonso de Alcalá de Henares in Spagna, l’unico dei lavori avviati da Ordóñez nel quale compaiano i Padri della Chiesa, precisamente agli angoli del basamento. A Santacroce è stato riferito particolarmente il S. Girolamo (Migliaccio, 1995-1996, p. 95).
L’esperienza carrarese fu per Girolamo occasione di aggiornamento sulle opere dei principali artisti contemporanei operanti a Firenze. Un breve soggiorno nell’Urbe dovette inoltre costituire un passaggio obbligato sulla via del ritorno da Carrara a Napoli. L’altare della Vergine con Bambino tra i ss. Pietro e Paolo di patronato Del Pezzo in S. Maria di Monteoliveto evidenzia l’immediata ricezione delle suggestioni derivate, in particolare, dal S. Giacomo Maggiore di Jacopo Sansovino in S. Maria del Fiore a Firenze, dalla Madonna con Bambino di Andrea Sansovino in S. Agostino a Roma e dal S. Matteo di Michelangelo. La data 1524 che si scorge nell’epigrafe dedicatoria dell’ancona olivetana costituisce uno dei pochi punti fermi nella cronologia di Santacroce e si riferisce chiaramente alla messa in opera, se è vero che già nel 1525 la stipula di un contratto per la decorazione di una cappella nel duomo di Amalfi si richiamava all’altare napoletano, da poco consegnato, e che il suo committente, Pirro Del Pezzo, morì solo nel 1556 (Naldi, 1995a, p. 36).
Secondo Vasari, l’opera fu eseguita «a concorrenza di Giovanni da Nola», cui spetta l’altare gemello dei Ligorio, sistemato en pendant a destra dell’ingresso del santuario. Il tema della «concorrenza» con Giovanni da Nola ha generato fraintendimenti, avendo assunto il significato riduttivo di un ‘certame’ tra i due artisti, nello stesso giro d’anni, avvalorato dalla stretta somiglianza tipologica (ma non stilistica) dei due altari. Si sono pertanto attribuiti i Santi Del Pezzo e Ligorio a Santracroce, le due Madonne al Nolano (Weise, 1977, pp. 61 s.), come pure si è ipotizzato il completamento dell’altare Del Pezzo da parte del Nolano (Abbate, 1992, pp. 158 s.). Tuttavia, la datazione più tarda dell’altare Ligorio (ante 1532) esclude la contemporaneità delle due opere, mentre suggerisce lo sforzo massimo di avvicinamento di Giovanni da Nola ai modi di Santacroce (Rolfs, 1905, pp. 154 s.). Sembra dunque opportuno ritenere che per «concorrenza» Vasari intendesse quel proficuo spirito di reciproca emulazione fra personalità artistiche di primo piano che reca vantaggio allo sviluppo delle arti e all’imitazione delle generazioni successive (Naldi, 1997, p. 169).
Agli stessi anni all’incirca dell’altare olivetano si deve riferire anche una Madonna col Bambino in tondo incastonata tra quattro cherubini e murata lungo la parete destra della chiesa del Rosario a Radicena di Taurianova in Calabria (Negri Arnoldi, 1997, p. 186). Sebbene la sua forte impronta sansovinesca e raffaellesca ponga inequivocabilmente il tondo nell’orbita di Santacroce, permane qualche dubbio circa il grado d’autografia esecutiva riservato a un’opera che, dovendo essere spedita in provincia, poteva al solito rinunciare alle estreme finezze dei marmi scolpiti per i santuari della capitale del Regno (Caglioti, 2002, p. 1025).
Tutt’altro che incerta è invece la paternità del sepolcro parietale di Carlo Gesualdo (morto nel 1523), su cui concordano le fonti. La tomba, oggi custodita presso le sale del Quarto del Priore nel Museo di S. Martino di Napoli, proviene dalla distrutta cappella cinquecentesca di S. Giovanni Battista nella chiesa della certosa (Ammirato, 1651, pp. 10 s.), dalla quale verso il 1631 venne trasferita nella chiesetta delle donne, esterna al complesso conventuale, e verso il 1947 nelle sale del museo. La sistemazione secentesca coincise con un restauro curato da Cosimo Fanzago, del quale si conosce una stima del 1656 (De Cunzo, 1967, p. 106).
Sono state considerate parti autografe di Santacroce la figura del giacente, la lastra epigrafica, la coppia di putti reggiscudo e due lastre con festoni decorati a panoplie nei fianchi del basamento. Spettano invece all’intervento di Fanzago gli inserti in bardiglio nelle cornici, l’inversione rispetto al sarcofago della coppia di putti reggiscudo, ricollocati nella parte alta del monumento, e la rimozione della tradizionale cornice architravata in cui il sepolcro doveva essere inscritto un tempo. Un’idea piuttosto chiara del progetto originario si ricava dal confronto con la sepoltura del giurista catalano Jeroni Descoll nel Museo diocesano di Barcellona, forse eseguita a Napoli proprio sul modello della tomba Gesualdo. La critica ha riconosciuto nell’effigie di Gesualdo un episodio di altissimo virtuosismo, che si ravvisa particolarmente in «quella delicatezza estrema di modellatura che si vede nella fronte e nelle mani [...], sì che il marmo s’illumina e colora come avorio» (De Rinaldis, 1918, p. 21). È quasi passata sotto traccia invece l’interpretazione manierata che Santacroce dette del tipo demi-gisant di tradizione sansovinesca: il sereno dormiente, recumbente sull’omero, poggia infatti il capo pesante sull’elmo, con la mano che cerca di attenuare, a mo’ di cuscino, l’impatto con la dura superficie metallica (Naldi, 1997, p. 59).
Un perduto strumento notarile menzionato da Angelo Borzelli, che poté leggerlo ancora nel 1924, ricorda che il 7 febbraio 1525 Santacroce e i collaboratori Antonino de Marco e Giovan Giacomo da Brescia s’impegnarono, per un «prezzo considerevole» non meglio specificato dallo studioso, a condurre a compimento la decorazione di una «cappella di marmo nella chiesa di S. Domenico, nella cappella del Crocifisso», rilevando una commissione già affidata, nel 1522, a un «mastro Bernardino» e a un «mastro Giovan Battista del Duca» (Borzelli, 1924, p. 15).
La cappella è stata identificata con quella di patronato Del Doce già dedicata all’arcangelo Raffaele, ben nota alle fonti per aver custodito fino al XVII secolo la Madonna del pesce di Raffaello; l’arredo marmoreo comprendeva anche il sepolcro del fondatore, Rainaldo Del Doce, e quello del figlio-committente Giovan Battista (Bologna, 1950, p. 176). Borzelli verosimilmente interpretò per errore l’abbreviazione di «magnifico» con «maestro», e scambiò il concessionario della cappella, Giovan Battista del Doce, con un ignoto artista (Naldi, 1997, p. 105 nota 57).
Si preservano i soli documenti relativi ai progetti per la decorazione della cappella di Tommaso Oliviero alla Ss. Annunziata e per l’esecuzione della «cona magna» di S. Agostino alla Zecca. Un rogito del 15 maggio 1526 attesta che i maestri dell’Annunziata concessero a Oliviero un muro della tribuna della chiesa, da decorarsi sulla base di un disegno di Santacroce. L’arredo marmoreo con pitture comprendeva un tabernacolo per il Ss. Sacramento, un altare e due tombe a sedile, destinate allo stesso Oliviero e a suo padre. Le opere sono andate distrutte durante l’incendio che devastò il santuario dell’Annunziata nel 1757 (Naldi, 1997, p. 195, doc. 2).
Il 19 novembre 1527, invece, Santacroce firmò il progetto per il perduto retablo in legno indorato destinato all’altare maggiore della chiesa di S. Agostino alla Zecca. Polidoro Caldara da Caravaggio e Bartolomeo Guelfo da Pistoia avrebbero dipinto l’ancona. L’intelaiatura complessiva, di notevoli dimensioni (m 11×5,50 circa), prevedeva due ordini, l’inferiore ionico, il superiore corinzio; vi sarebbero state colonne, una predella con incorniciatura e una lunetta semicircolare per coronamento circondata da puttini e angeli scolpiti. Tutte le modanature, i fregi e i putti sarebbero stati indorati. Non è dato sapere quanto del progetto fu eseguito, perché presto Polidoro abbandonò Napoli alla volta di Messina, dove è attestato il 7 ottobre 1528; la pala di Santacroce fu sostituita da un maestoso polittico di Marco Cardisco nel 1533 (Zezza, 1994, pp. 137 s.; Cerasuolo, 2009, pp. 66 s.)
Le opere di Santacroce seguite alla breve collaborazione con Polidoro a S. Agostino evidenziano una forte virata proto-manieristica. La solidità strutturale delle figure sembra attenuarsi, lasciando posto a forme più emaciate e allungate; le espressioni si fanno inquiete, le stoffe leggere, lo stile minuziosamente descrittivo. L’altare dell’Incredulità di s. Tommaso nella cappella di Tommaso Siniscalco in S. Maria delle Grazie a Caponapoli (1528 circa), assegnato a Santacroce già dalle guide antiche, deve ritenersi una primizia del dialogo figurativo intercorso con Caldara (Naldi, 1995a, p. 47). Il tema rinnovato della «concorrenza» con Giovanni da Nola, che per la cappella dei Giustiniani nella medesima chiesa eseguì l’altare della Deposizione dal sepolcro, sembra contraddetto anche in questo caso dal trentennio circa che separa le due opere.
L’altare della Natività in S. Maria la Nova, dal 1621 di patronato Mascaro, è stato restituito a Santacroce sulla base delle stringenti analogie stilistiche con l’Incredulità di s. Tommaso. Anche in questa opera, «la più polidoresca tra le sculture del Santacroce» (Abbate, 2001, p. 112), si ritrova quella tendenza alla trattazione pittorica dei valori di superficie, propria delle opere di oreficeria, e alla resa della mutevolezza della luce attraverso l’uso di punte sottilissime che accartocciano e spiegazzano le superfici marmoree (Naldi, 1995a, p. 47).
Del sepolcro di Antonio de Gennaro sono sopravvissuti il sarcofago con la figura, oggi custodito sotto una sorta di arcosolio nel lato destro del transetto della chiesa di S. Pietro Martire a Napoli, e le statue allegoriche della Prudenza e della Giustizia, sistemate su due tronconi di colonne marmoree presso l’antisacrestia sin dal XVIII secolo (di Gennaro, 1623, pp. 56 s.). Le Virtù vennero separate dalla tomba verso il 1632-33, quando la primitiva cappella, che era la prima a sinistra entrando nel santuario, «fu disfatta per farvi la porta piccola che sta dalla parte dell’Evangelo» (Celano, 1692, 2009, Giornata quarta, p. 44). In sostituzione i de Gennaro ottennero il muro di testa del transetto destro.
Tra il Sei e Settecento le due statue furono traslocate nel refettorio e nella cantina del convento per sfuggire alle mire del viceré don Pedro Antonio d’Aragona, «assai vago cacciatore delle stesse, sicome da questa città, in gran numero per suo ordine slocate, l’assegnò in Spagna per vago ornamento dei suoi poderi» (Archivio di Stato di Napoli, Monasteri soppressi, 693, cc. 639-640, in Naldi, 1997, p. 159 nota 19). Alienate dai frati a ricompensa di un marmoraro per dei lavori eseguiti in chiesa, furono rinvenute e sistemate nella sede attuale a fine Ottocento. L’intero sepolcro con le Virtù recava in origine un’epigrafe datata al 1522 (d’Engenio, 1623, p. 462). L’evidenza stilistica, tuttavia, mette in luce il superamento del «‘fuoco’ machuchiano del modello e dei suoi giovanili furori» in favore di un «più placido e sodo classicismo, pur venato di irrequieti sorrisi e di pensose malinconie», che avvicina la tomba alla produzione dei primi anni Trenta (Abbate, 1992, p. 178).
Alla cappella cinquecentesca dei de Gennaro appartenevano anche le tavole in rilievo marmoreo della Madonna col Bambino in gloria, oggi incastonata entro l’edicola di coronamento di un altare della testata del transetto destro di S. Pietro Martire, dell’Eterno benedicente, sovrapposta a un lavabo seicentesco nell’antisacrestia, e un frammento di architrave con fregio, conservato nell’atrio d’ingresso del convento. Tali marmi componevano verosimilmente l’ancona della cappella dei de Gennaro, con la Vergine in funzione di tavola centrale, e l’Eterno di cimasa. L’affinità compositiva che lega la posa dell’Eterno a quella del S. Agostino nel polittico di S. Agostino alla Zecca, di Marco Cardisco (1532-33), induce a datare questi rilievi agli anni Trenta (Zezza, 1994, p. 140 fig. 9).
Le statue a tutto tondo della Madonna con Bambino, S. Giovanni Battista e S. Benedetto, oggi ricoverate presso la cappella del seminario arcivescovile di Capodimonte, furono commissionate dall’abate Fabrizio de Gennaro, parente del giureconsulto Antonio, per l’altare maggiore della chiesa di S. Maria a Cappella Vecchia. Assegnate a Santacroce già da Vasari, le figure, in cui lo scultore raggiunse «l’estremo di levigatezza che dà ai muscoli tesi, alle pelli segnate come delle trasparenze d’avorio», componevano quasi certamente una sacra conversazione agita da figure tonde. I tre marmi sono stati datati tra il 1532 e il 1536 sulla base di chiari riflessi, e talvolta di vivide citazioni, di Giovanni da Nola nelle statue della pala dell’altar maggiore della chiesa di S. Lorenzo Maggiore (entro il 1537) e di quelle che compongono l’altare di Fabio Arcella in S. Domenico Maggiore (1533-36; Naldi, 1997, p. 117).
Gli eruditi del Sei e Settecento ampliano il catalogo di Santacroce con opere controverse. Il sepolcro di Iacopo Sannazaro in S. Maria del Parto, opera documentata di Giovan Angelo Montorsoli, Bartolomeo Ammannati, Francesco del Tadda e forse Silvio Cosini tra il 1537 e il 1543, costituisce il caso più dubbio. Secondo d’Engenio, infatti, Montorsoli rilevò una commissione già assegnata a Santacroce, la cui morte improvvisa nel 1537 impossibilitò la realizzazione della tomba (d’Engenio, 1623, p. 664). Anche Carlo Celano ritiene Santacroce autore del progetto originario, e riferisce dell’esistenza di modelli successivamente donati dai familiari di Santacroce a un ministro spagnolo (Celano, 1692, 2009, Giornata nona, p. 73). Bernardo de Dominici lesse tra le carte dell’archivio di S. Maria del Parto di un contrasto tra i serviti, favorevoli a Montorsoli, e gli esecutori testamentari di Sannazaro, orientati verso Santacroce (de Dominici 1742-1745, I, 2003, p. 603). Ed è stata citata una fede di credito presso il Banco dell’Annunziata, non ancora rintracciata, secondo la quale «gli esecutori testamentarii del Sannazaro pagarono una somma a Girolamo Santacroce in conto di quel lavoro» (Marzullo, 1823, p. 74). La critica si è interrogata a lungo circa l’apporto precipuo di Santacroce, e alcuni studiosi hanno avanzato la paternità del cosiddetto rilievo dell’Arcadia (Abbate, 1992, pp. 151 s.); il marmo, tuttavia, sembra più prossimo ai modi di Silvio Cosini (Ciardi Dupré, 1961, pp. 7 s.).
Tra le opere erroneamente assegnate dalla letteratura periegetica antica a Santacroce spiccano il S. Matteo e l’angelo di S. Pietro Martire, di Ordóñez (Opere d’arte nel Salernitano..., 1955, pp. 51 s.); il sepolcro di Errico Poderico in S. Lorenzo Maggiore, di Andrea Ferrucci (Naldi, 2002, pp. 77 s.); il S. Giovanni Battista della cappella Artaldo nella chiesa di Monteoliveto, di Giovanni da Nola (Naldi, 1995b); la tavola marmorea della Schiodazione dalla croce alla Ss. Annunziata, di Annibale Caccavello (Naldi, 2007a, pp. 143 s.); la statua di S. Antonio da Padova in Monteoliveto, della bottega di Giovan Domenico d’Auria (Naldi, 2011); il perduto pulpito dell’Annunziata, di Salvatore Caccavello (Grandolfo, 2012, pp. 63 s.).
Numerose sono le opere non pervenute di Santacroce. Si ricordano i ritratti del «gran capitano» Gonzalo Fernández de Córdoba, del viceré don Pedro da Toledo (de Dominici, 1742-1745, I, 2003, p. 601) e «una statua di Carlo Quinto imperatore quando tornò da Tunisi» (Vasari, 1568, 1976, IV, p. 418); le tombe di Vincenzo Galeota, di Isabella Requesens e di Beatrice Folch de Cardona alla Ss. Annunziata di Napoli (Celano, 1692, 2009, Giornata terza, p. 96); una statua di Venere a coronamento di una fontana nell’antico Largo di Castello a Napoli (Giornata quinta, p. 12).
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori, nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, IV, Firenze 1976, pp. 416-419; A. De Rinaldis, Introduzione, note e bibliografia, in G.Vasari, Vita di Gerolamo Santaroce scultore (1568), Firenze 1918, pp. 15, 21, 35; M.A. Vivaldo, Historia amplissima della vita, e miracoli di s. Agnello abbate, padrone, e difensore di Napoli, Napoli 1596, p. 111; C. d’Engenio, Napoli sacra, Napoli 1623, pp. 462, 664 s.; F. di Gennaro, Historia della famiglia Gennara o Ianara, Napoli 1623, pp. 21 s., 56 s.; S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, II, Firenze 1651, pp. 10 s.; C. Celano, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli 1692, Napoli 2009, consultabile in http://www. memofonte.it/ ricerche/napoli.html#celano (18 settembre 2017): Giornata terza, p. 96, Giornata quarta, p. 44, Giornata quinta, p. 12, Giornata nona, pp. 72 s.; B. Rota - S. 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