Savonarola, Girolamo
Nato a Ferrara nel 1452, nipote di Michele (→ Savonarola, Michele), entrò nell’ordine domenicano nel 1475. Fu lettore a S. Marco, in Firenze, dal 1482 al 1487, e vi tornò nel 1490, diventando il priore del convento, che ottenne la sua autonomia dalla provincia lombarda: «la quale cosa – scrive Francesco Guicciardini nelle Storie fiorentine – lo fermò a Firenze e gli tolse l’aversi a mutare, come el più delle volte di anno in anno fanno e’ frati» (Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, 1998, p. 218). Predicava la riforma della Chiesa e futuri flagelli mandati da Dio, e, secondo Guicciardini, si era «acquistato nel popolo credito di dottrina e santità». Dopo la cacciata di Piero de’ Medici nel novembre 1494, S. ebbe un ruolo determinante nella scelta della nuova forma istituzionale di Firenze, ispirata al modello veneziano: il Consiglio grande aperto a più di tremila cittadini. Inoltre predicò la pace interna e l’unione della città, ottenendo che i filomedicei (i «bigi») non fossero perseguitati. La riforma politica di Firenze veniva presentata da S. come uno strumento per la riforma della Chiesa. Ben presto la città si divise; ai predicatori riformati di S. Marco si opponevano quelli che S. chiamava «i tepidi», cioè gli altri ordini religiosi e il clero secolare (anche per incitamento della curia romana e di papa Alessandro VI); tra i seguaci del frate (i «piagnoni») e gli «arrabbiati» (antimedicei e antisavonaroliani) si aprì uno scontro durissimo. Una trama di Piero de’ Medici per riprendere il potere e l’esecuzione (agosto 1497) di cinque cittadini accusati di complicità ruppero l’accordo implicito tra «piagnoni» e «bigi». Al culmine delle polemiche interne al clero, i francescani ottennero che fosse organizzata dalla Signoria l’8 aprile 1498 una ‘prova del fuoco’ tra loro e i domenicani di S. Marco; nessuno dei contendenti entrò nel rogo, ma fra il popolo, che da S. si aspettava un miracolo, la delusione fu grandissima. Quando, il giorno seguente, gli «arrabbiati» presero d’assalto il convento dei domenicani, nessuno si mosse per difenderli. S. e due dei suoi frati, fra Domenico e fra Silvestro, furono arrestati. Dopo un doppio processo, religioso e civile, vennero condannati a morte, impiccati e bruciati il 23 maggio 1498.
«Viene secondando e tempi, et le sua bugie colorendo» (M. a R. Becchi, 9 marzo 1498). La presenza del frate e della sua azione politico-religiosa è cospicua negli scritti di M., il quale ha vissuto la propria formazione politica, tra i venti e i trent’anni, nella Firenze savonaroliana. Oltre al celebre passo del Principe vi 21-23, S. viene nominato in Discorsi I xi, xlv, lvi e III xxx, in diverse lettere, nonché nel primo Decennale, vv. 154-65.
La prima notizia di S. negli scritti di M. si trova nella lettera che il 9 marzo 1498 inviò a Ricciardo Becchi per dare a quest’ultimo, acceso antisavonaroliano che era stato pochi mesi prima oratore di Firenze a Roma (cfr. Becchi Ricciardo, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 7° vol., 1970, ad vocem), «intero avviso de le cose di qua circa al frate, secondo el desiderio vostro» (Lettere, p. 5). M. riferisce il tenore delle prediche sull’Esodo a cui ha assistito («delle quali cose, perché mi trovai presente, qualcuna brevemente ritratterò», p. 6) e spiega che S. ha deciso di lasciare il duomo e predica ormai in S. Marco, «a casa sua». Viene messa in rilievo la tonalità aggressiva delle prediche e il loro carattere politico e partigiano:
cominciò con spaventi grandi, con ragione a chi non le discorre efficacissime, mostrando essere ottimi e sua seguaci e gli avversari sceleratissimi, toccando tutti que’ termini che fussino per indebolire la parte avversa e affortificare la sua (p. 6).
M. sottolinea il carattere politico e fazioso degli interventi di S.: «[...] fece dua stiere, l’una che militava sotto Iddio, e questa era lui e sua seguaci, e l’altra sotto el diavolo, che erano gli avversari»; «cominciò a squadernare e libri vostri, o preti, e trattarvi in modo che non n’arebbono mangiato e cani»; «e disse che Dio gli aveva detto ch’egli era uno in Firenze che cercava di farsi tiranno e teneva pratiche e modi perché gli riescissi, e che volere cacciare el frate, scomunicare el frate, perseguitare el frate, non voleva dire altro se non volere fare un tiranno; e che s’osservassi le leggi» (p. 7). L’analisi di M. si fonda su un quadro preciso dei rapporti di forza e delle varie mosse degli attori politici, in seno alle istituzioni e fuori: la nuova Signoria, entrata in funzione il 1° marzo, pare a S. «più che e dua terzi inimica» (p. 5) e il frate teme che sia «al nuocergli inconsiderata» (p. 6). Resosi conto che, invece, «la Signoria [ha] scritto in suo favore al papa» (p. 7), S. cambia tono, non parla più di tiranno, cerca di unire tutti i fiorentini contro il papa e «quello ne dice che di quale vi vogliate sceleratissimo uomo dire si puote» (p. 8). Il confronto con le prediche sull’Esodo mostra che la lettura di M. non prende in considerazione la parte propriamente teologica e filosofica delle prediche, a eccezione di due punti della prima predica fatta a S. Marco, donde M. trae la definizione della prudenza come «recta cognitio agibilium» e riassume il modo in cui le «tribulationi» fanno crescere i buoni, in spirito e in numero (in questo caso semplifica molto il ragionamento di S.). D’altronde, le «coltellate» e «mazzate» date da S. al papa, ai prelati e ai «religiosi tepidi», anche se non prendevano molto spazio nella predica, erano di una violenza verbale incontestabile: «Ecco le bastonate: lascia tu sacerdote e prelato la concubina, li cinedi e la gola [...]» (VIII, 4 marzo, in Prediche sopra l’Esodo, a cura di P.G. Ricci, 1° vol., 1955, p. 232); «Non si dice ora più “li miei nipoti”, ma “el mio figliuolo” e “la mia figliuola”. Vanno ora in San Piero le meretrici [...]» ( XII, 8 marzo, in Prediche sopra l’Esodo, cit., 2° vol., 1956, p. 16). M. si schiera quindi dalla parte del «diavolo» contro i seguaci di S. e volge lo sguardo verso un agire politico, di cui non condivide i principi, ma vede e teme l’efficacia: le «bugie» di S. sono espresse con ragioni «efficacissime»; S. «va secondando i tempi», e M. sa appunto che la capacità di adattarsi alla «qualità de’ tempi» è necessaria a qualsiasi attore politico. S. non è ancora il «profeta disarmato» ma è già il «frate versuto» (cioè astuto), capace di insegnare ai fiorentini «la via di andare a casa il diavolo» della lettera del 17 maggio 1521 a Francesco Guicciardini (Lettere, p. 372). Quando nel primo Decennale M. cita S., lo fa insistendo sulle divisioni introdotte a Firenze per colpa sua, facendo capire che la situazione era tale che doveva finire con l’eliminazione di una delle parti in lotta: «Ma quel che a molti molto più non piacque / e vi fe’ disunir, fu quella scuola / sotto il cui segno vostra città giacque: / io dico di quel gran Savonerola» (vv. 154-57); e, pochi versi dopo: «non si trovava a riunirvi loco, / se non cresceva o se non era spento / el suo lume divin con maggior foco» (vv. 163-65; chiara allusione al rogo del 23 maggio 1498). Ma mette anche in evidenza una caratteristica (l’efficacia della profezia e della parola profetica) sulla quale tornerà più volte: «[...] quel gran Savonerola, / el qual, afflato da virtù divina, / vi tenne involti con la sua parola» (vv. 157-59).
«Di qui nacque che tutti e profeti armati vinsono e li disarmati ruinorno» (Principe VI 21). Quando, nel cap. vi del Principe, M. parla degli «innovatori», dei fondatori di «principati al tutto nuovi», introduce una distinzione opponendo i «profeti armati» ai «disarmati», proprio perché «conviene essere ordinato in modo che, quando [i populi] non credano più, si possa fare loro credere per forza» (§ 22). S. viene allora presentato come l’esempio moderno del profeta disarmato, dell’innovatore che non poté «fare credere per forza»:
Moisè, Ciro, Teseo e Romulo non arebbono potuto fare osservare loro lungamente le loro constituzioni, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra Ieronimo Savonerola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli: e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a fare credere e’ discredenti (§ 23).
Vari aspetti della questione, qui solo accennati, vengono approfonditi nei Discorsi I xi, xlv e III xxx. Bisogna innanzitutto esplicitare il riferimento ai ‘profeti’, perché, nel senso proprio della parola, solo Mosè e forse S. sono profeti, non però Ciro, Teseo e Romolo. Ma per M. non c’è differenza, per quanto concerne l’azione politica, tra Mosè e gli altri tre introduttori di «nuovi ordini e modi»: «se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì grande precettore» (Principe vi 9). E in Discorsi I xi, che tratta «della religione de’ Romani», M. enuncia la sua tesi sull’utilità e la necessità politica della religione:
E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimente non sarebbero accettate; perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere ad altrui. Però gli uomini savi che vogliono tòrre questa difficultà ricorrono a Dio (§§ 11-12).
Si può allora capire che, molto probabilmente, appunto perché parla di agire politico e dell’uso politico della religione, adoperando la parola «profeti» M. si riferisce a ogni ‘introduttore’ di «nuovi ordini e modi» il quale faccia ricorso a Dio per «persuadere ad altrui»: ciò che intereressa M. nella profezia è soltanto la forza persuasiva di novità.
Tornando a S., l’accenno al momento in cui «la moltitudine cominciò a non credergli» viene chiarito in Discorsi I xlv, dove M. spiega che «è cosa di malo esemplo non osservare una legge fatta, e massime dallo autore d’essa» (§ 1). L’unico esempio di questo errore è la violazione della legge dell’appello al Consiglio grande nell’agosto 1497: l’appello era stato negato (in particolare, a opera del capo della parte fratesca, Francesco Valori) ai cinque cittadini accusati di complicità con Piero de’ Medici. M., che ricorda il fatto anche nel primo Decennale («E quel condusse in su le vostre mura / el vostro gran rebel; onde ne nacque / di cinque cittadin la sepultura», vv. 151-53), è persuaso che il non aver osservato la legge, da lui stesso promossa, «tolse più riputazione a quel frate che alcuno altro accidente: perché se quella appellagione era utile, e’ doveva farla osservare, se la non era utile, non doveva farla vincere» (Discorsi I xlv 10). Il rifiuto di consentire all’appello scoprì «l’animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione e dettegli assai carico» (§ 12).
Quanto all’osservazione che S., poiché disarmato, «non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a fare credere e’ discredenti», conviene rifarsi a Discorsi III xxx: qui M. difende la tesi secondo la quale l’attore politico deve «spegnere l’invidia», perché «è molte volte cagione che gli uomini non possono operare bene, non permettendo detta invidia che gli abbino quella autorità la quale è necessaria avere nelle cose d’importanza» (§ 11). In certe circostanze, l’invidia si spegne da sola, quando «ciascuno, veggendosi perire, posposta ogni ambizione, corre volontariamente a ubbidire a colui che crede che con la sua virtù lo possa liberare» (§ 12). L’esempio che dà M. di questo primo modo è quello di Camillo, al quale gli altri tribuni cedettero «la somma dello imperio» (§ 3), per il bene e la salvezza di Roma; ma si tratta di un «accidente forte e difficile», cioè di una congiuntura politico-militare eccezionale; inoltre, una tale situazione può avvenire solo quando la città non è corrotta, come era il caso della Roma repubblicana. Quando invece la città è corrotta e quando, per questo, il consenso generale in favore del bene comune non si realizza, «a vincere questa invidia non ci è altro rimedio che la morte di coloro che l’hanno» (§ 15). M. mette a confronto l’esempio positivo di Mosè e quelli, negativi, di S. e di Piero Soderini:
E chi legge la Bibbia sensatamente vedrà Moisè essere stato forzato, a volere che le sue leggi e che i suoi ordini andassero innanzi, ad ammazzare infiniti uomini, i quali non mossi da altro che dalla invidia si opponevano a’ disegni suoi. Questa necessità conosceva benissimo frate Girolamo Savonerola; conoscevala ancora Piero Soderini, gonfaloniere di Firenze (§§ 17-18).
Piero Soderini «credeva potere superare quelli tanti che per invidia se gli opponevano, sanza alcuno scandolo, violenza e tumulto; e non sapeva che il tempo non si può aspettare, la bontà non basta, la fortuna varia e la malignità non truova dono che la plachi» (§ 21). S. invece sapeva quello che bisognava fare ma non poté farlo
per non avere autorità a poterlo fare [...] e per non essere inteso bene da coloro che lo seguitavano, che ne arebbero avuto autorità. Non pertanto per lui non rimase, e le sue prediche sono piene di accuse de’ savi del mondo e d’invettive contro a loro: perché chiamava così quegli invidi e quegli che si opponevano agli ordini
suoi (§§ 19-20).
Insomma, S., come religioso, non aveva l’autorità politica per agire direttamente a Firenze; e i suoi seguaci non avevano una sufficiente «virtù dello animo» per agire e «spegnere l’invidia», togliendosi dinanzi gli oppositori. Si aggiunga che S. stesso si era rifiutato di pensare con radicalità il tema della forza e delle armi, scrivendo nel Trattato circa el reggimento e governo della città di Firenze: «E perché qualche volta per forza delle arme si fa el tiranno, e alla forza non si può resistere con ragione, circa a ciò non possiamo dare altra instruzione» (III i); inoltre, nelle prediche sull’Esodo, offriva come modello i profeti, apostoli e martiri che ottennero le loro vittorie «combattendo solo con la lingua contro a l’arme» (VII, 3 marzo, in Prediche sopra l’Esodo, cit., 1° vol., pp. 192-93).
«Vi tenne involti con la sua parola» (primo Decennale, v. 159). Abbiamo visto, nel passo citato dei Discorsi (III xxx 20), che M. conosceva le prediche del frate; in Discorsi I xlv 9 aveva già fatto notare che gli scritti di S. «mostrono la dottrina la prudenza e la virtù dello animo suo». Ci sono altri luoghi nelle opere che dimostrano l’interesse che M. aveva per la parola del frate. Si pensi a Principe xii 9, dove M., con un’evidente allusione a S., afferma che «chi diceva come e’ n’erono cagione e’ peccati nostri, diceva il vero: ma non erano già quegli ch’e’ credeva, ma questi che io ho narrati»; oppure l’inciso in una lettera a Francesco Vettori (26 ag. 1513, Lettere, p. 287) – «io credo al frate che diceva “Pax, pax, et non erit pax”» (espressione frequente nelle prediche di S. e che M. aveva potuto udire nella predica del 1° marzo 1498). Non è dunque un caso se, nei Decennali, M. presenta i fiorentini come «involti con la sua parola». Questo legame tra S. e Firenze viene indagato nel cap. xi del I libro dei Discorsi:
Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo; nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s’egli era vero o no, perché d’uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza; ma io dico bene che infiniti lo credevono, sanza avere visto cosa nessuna straordinaria da farlo loro credere, perché la vita sua, la dottrina, e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede (§§ 24-25).
Il brano richiede diverse considerazioni. Anzitutto, la tonalità principale non è l’ironia né verso S. né verso i fiorentini. M. si rifiuta di entrare nella discussione sulla verità o no della profezia savonaroliana, perché ciò che gli interessa (qui così come negli altri scritti che abbiamo citato) sono gli effetti politici dell’intervento del frate nella storia della città, i suoi successi e i suoi errori, le sue forze e le sue debolezze. La sospensione del giudizio ha quindi un punto di partenza ben differente da quello di Guicciardini, il quale si rifiuta, nelle Storie fiorentine, di giudicare se S. fu buono o cattivo, e conclude: «se lui fu buono, abbiano veduto a’ tempi nostri uno grande profeta, se fu cattivo, uno uomo grandissimo» (Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, 1998, p. 280). Il popolo di Firenze presume, forse a torto, di non essere «rozzo»; ma, a ogni modo, nelle analisi machiavelliane, dire di un popolo che è «rozzo», «grosso» o «montanaro», è ben lungi dall’essere solo una critica, ed è ciò che si legge in questo stesso capitolo: i Romani erano «grossi» quando Numa introdusse la religione a Roma (Discorsi I xi 15), così come sarebbe più facile introdurre una repubblica tra gli uomini montanari (ovviamente M. pensa agli svizzeri) e, in proposito, la metafora della scultura non lascia dubbi: «uno scultore trarrà più facilmente una bella statua d’un marmo rozzo, che d’uno male abbozzato da altrui» (§ 16). Il brano tende quindi a comprendere le ragioni della «persuasione»: come mai i fiorentini «usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità è corrotta», quindi non adatti a credere facilmente, furono persuasi dal frate che parlava con Dio? Come mai S. poté tenerli «avvolti con la sua parola», senza nemmeno una «cosa straordinaria, da farlo loro credere»? Veramente, M. avrebbe potuto menzionare almeno una «cosa straordinaria», cui accenna nei Discorsi: «sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fusse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII di Francia in Italia» (I lvi 3). Ma ovviamente vuole mostrare come soltanto elementi reali, legati alla personalità di «uno tanto uomo», spieghino la forza della parola savonaroliana: la vita stessa di S. (considerata da tutti i fiorentini, anche i suoi nemici, come esemplare); la dottrina (citata anche nei Discorsi I xlv 9), che fece accorrere a S. Marco alcuni fra i più noti letterati del tempo, al punto che Guicciardini scrisse, a proposito di S. Marco che «in Italia non era un convento pari, e lui in modo indirizzava e’ giovani in su gli studi non solo latini ma greci ancora ed ebrei, da sperare avessino a essere lo ornamento della religione» (Storie fiorentine dal 1378 al 1509, a cura di A. Montevecchi, 1998, p. 279); il «suggetto che prese», cioè il commento della Bibbia al servizio di un progetto di riforma politico e religioso; elementi ai quali si possono aggiungere gli altri due citati nei Discorsi I xlv 9: la prudenza e la «virtù dello animo suo», dimostrati dai suoi scritti.
Se M. può essere definito, sin dall’inizio, come chiaramente antisavonaroliano, non va trascurato il significato della serietà e delle sfumature del suo sguardo sull’attività politica del frate, che aiutò Firenze a essere «riordinata nello stato suo» (Discorsi I xlv 9).
M. insiste sugli errori politici di S., sulla debolezza cagionata dal non essere armato, dal non aver voluto proteggersi e dal non aver convinto i suoi seguaci ad armarsi per «spegnere l’invidia», ma intuisce che c’è una forza peculiare nella sua parola. Se prende in considerazione gli effetti politici della profezia savonaroliana e dell’aspirazione alla riforma religiosa di cui il domenicano era portatore (e che furono sicuramente le ragioni della sua influenza a Firenze), per altro verso M. non si interessa, e quindi non cerca di capire, le aspirazioni religiose del frate e la forma di razionalità (così distante dalla sua) che ne deriva, in particolare a proposito dell’uso o meno delle armi. La lettura di M. dell’esperienza di «uno tanto uomo» è decisamente laica e integralmente politica: lì sta la sua forza e la sua coerenza, ma forse anche il suo limite.
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