TAGLIAZUCCHI, Girolamo
– Nacque a Modena il 12 novembre 1674, figlio di Carlo.
Avviato dal padre agli studi giuridici, ottenne la laurea, ma rinunciò alla professione forense, e vestì l’abito sacerdotale nel 1701. Il 1° aprile dello stesso anno prese servizio come cancelliere nella Segreteria di Rinaldo I d’Este. Negli anni della guerra di successione spagnola, e dopo che i francesi avevano occupato Modena, si trasferì con la corte a Bologna, per fare ritorno in patria nel febbraio del 1707.
Risalgono a questo periodo un epigramma greco (con traduzione latina) per la festa di s. Geminiano patrono di Modena, l’oratorio L’ultima persecuzione di Saule contro Davidde (Modena 1708) e svariati componimenti poetici d’occasione, in cui si alternavano esempi di lirica devozionale con esperimenti giocosi alla maniera di Francesco Berni. Tagliazucchi poeta «faceva del Cinquecento e dell’Arcadia un incognito indistinto ove non mancava lo sbattito de’ martelliani» (Carducci, 1871,1909, p. 116). Del resto, in famiglia l’esercizio del verso era diffuso: il nipote Giampietro fu dal 1752 poeta di corte a Vienna (e poi a Berlino, Dresda, Monaco), e la moglie di questo, Veronica Cantelli, poetessa d’Arcadia.
Nel 1710 fu chiamato a insegnare lingua greca al collegio dei nobili a Modena; ma coltivò anche studi di matematica. Fra il 1714 e il 1720 partecipò alle riunioni settimanali dell’accademia di poesia istituita a Modena dal conte Carlo Cassio, e nel 1723 curò un’importante raccolta poetica per il «dottorato delle leggi» del luganese Francesco Saverio Riva, stampata a Como, cui collaborò anche Giambattista Vico.
Nel dicembre del 1723 si spostò a Milano, presso Pio Avogadro, già suo discepolo, e aprì una scuola privata di retorica, greco, filosofia, matematiche, avendo tra gli allievi il bergamasco Giacomo Antonio Calisto (poi editore a Bergamo delle opere di Dante, Bembo, Poliziano) e la giovanissima Maria Gaetana Agnesi, studiosa di algebra e calcolo infinitesimale, poi aggregata all’Accademia delle scienze di Bologna.
Nel 1729 rinunciò alla nomina a rettore del Collegio mariano (o della Misericordia) a Bergamo, e accolse l’invito a coprire la cattedra di eloquenza (e poi anche quella di lingua greca) all’Università di Torino, oggetto allora delle riforme volute da Vittorio Amedeo II e (in una prima fase) dal ministro Francesco d’Aguirre. Al periodo dell’insegnamento a Torino risalgono le sue opere più significative, ivi pubblicate: la prolusione per l’apertura degli studi del 1733, una Orazione panegirica a Carlo Emanuele III re di Sardegna (1735), la Raccolta di prose e poesie a uso delle regie scuole (1735), un volume (Orazione e poesie) per l’istituzione dell’Accademia di disegno, pittura, scultura e architettura militare e civile (1736). Nella ristampa della Raccolta (I-II, Torino 1744) vedeva la luce il suo scritto teorico di maggiore consistenza, un Discorso della maniera d’ammaestrare la gioventù nelle umane lettere, composto nel 1741 e in seguito pubblicato anche in veste autonoma (ebbe molte edizioni anche nell’Ottocento).
Rifacendosi alla trattatistica classica e a Quintiliano, e muovendo da prospettive di razionalismo muratoriano, Tagliazucchi argomenta che la maniera migliore di istruire la gioventù è quella che obbedisce a tre principi: «il Precetto, o sia la regola, l’Esempio, o sia la lettura, l’Esercitazione, o sia lo spiegare e il comporre». Ma più di ogni altra cosa il metodo dev’essere conforme alla ragione, «intendendo io per ragione la potenza dell’anima», capace di classificare le idee, e di ispirare una condotta che non imponga nulla agli scolari, ma li addestri e li indirizzi «all’ottima maniera di scrivere», abituandoli a «liberare, e sprigionare la loro ragione, e accostumarli a farne uso» (il rilievo accordato da Tagliazucchi all’importanza di «scriver bene» piacque a Giacomo Leopardi, che inserì un brano del Discorso nella Crestomazia italiana della prosa, del 1827; cfr. l’edizione a cura di G. Bollati, Torino 1968, pp. 483 s.). Di qui l’invito a guardare alla natura (cioè «l’essere, o i modi proprj d’operar delle cose») e a seguire gli «ottimi autori in ciascun genere»: Cicerone, Virgilio, Dante, Petrarca, Boccaccio purgato «da ogni scostumatezza», Ariosto, Bembo, Della Casa (del quale veniva proposto integralmente il Galateo, diffuso nella pratica didattica del Settecento per l’apprendimento dei primi elementi della lingua), Castiglione, Castelvetro, poi «i due Tassi» e Galilei. Nella conclusione, Tagliazucchi ribadisce il proprio fastidio per contese e «cavillazioni»; dichiara di avere cercato di «dissipare le tenebre», additando «la strada dell’onesto e del convenevole», e si definisce cittadino di tre repubbliche («l’una d’Uomini, l’altra di Cristiani, la terza di Letterati»).
La Raccolta, che reca in calce strumenti ritenuti utili nel contesto delle scuole sabaude (gli Avvertimenti grammaticali della Ortografia moderna italiana di Iacopo Facciolati, del 1721, e le tavole di coniugazione ricavate dai due libri Della lingua toscana di Benedetto Buonmattei, del 1643), concede ampio spazio agli autori del Cinquecento; ma non vi compare la sezione (annunciata nel titolo) delle poesie, avendo nel frattempo il carmelitano torinese Teobaldo Ceva dato alla luce presso lo stesso editore Giovan Francesco Mairesse, per incarico del magistrato della Riforma degli studi, una Scelta di sonetti con varie critiche osservazioni ed una dissertazione intorno al sonetto (1735). Ne nacque un’accesa disputa, che vide contrapposti a Ceva e ai suoi seguaci non tanto Tagliazucchi, che si tenne in disparte, quanto i suoi sostenitori, come Biagio Schiavo (cui Ceva aveva rivolto critiche nella prefazione alla Scelta) e Giuseppe Baretti, che di Tagliazucchi fu l’allievo più illustre (un elenco dei numerosi libelli relativi alla disputa è in F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia..., II, 2, Milano 1742, pp. 68 s.).
Il maestro è ricordato da Baretti come «santo Veglio», «vecchio / dotto e dabbene», «lucido speglio» di virtù nelle Piacevoli poesie (Torino 1764, p. 66), come guida del sodalizio poetico attivo fra Milano e Torino (Nicolò di Castellengo, Secondo Sinesio, Francesca Bicetti, Domenico Balestrieri, Francesca Manzoni, il funzionario imperiale Remigio Fuentes fondatore dell’Accademia dei Filodossi), come precettore tollerante e generoso, abituato a proseguire il dialogo con gli scolari in casa propria, secondo un’attitudine antipedantesca che Baretti giudicava in sintonia con i postulati della «memorabile ristaurazione della nostra università» (Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, Bari 1933, p. 81).
Il magistero torinese, orientato sulla promozione della lingua italiana, si protrasse fino al 1745, e conobbe anche momenti di disimpegno, legati alla consuetudine con gli ambienti studenteschi: di Tagliazucchi è, fra l’altro, il sonetto premesso al Bertoldo con Bertoldino e Cacasenno nella versione in venti canti in ottave (Bologna 1736), opera di altrettanti autori fra i quali Giampietro Zanotti, Carlo Innocenzo Frugoni e Girolamo Baruffaldi.
Nell’estate del 1749 Tagliazucchi, che a Torino aveva saputo raccogliere ampi consensi (il discepolo Ignazio Somis, poi medico del re di Sardegna, gli riconobbe il merito di aver contribuito alla divulgazione del pensiero di Isaac Newton), ottenne licenza di tornare a Modena. Gli successe sulla cattedra il padovano Giuseppe Bartoli, anche lui molto vicino a Ludovico Antonio Muratori; e ancora Baretti si rammaricava di un congedo avvertito come definitivo («Tutto ’l giorno n’andai a testa china, / pensando che perdiamo veramente / un uom dabbene e pieno di dottrina»; capitolo A Carlo Passeroni, vv. 34-36, in N. Jonard, Poésies inédites ou rares de Giuseppe Baretti, Paris 1965, p. 130).
Dedicò gli ultimi anni alle pratiche religiose, a opere di assistenza e di carità, all’insegnamento privato. Le condizioni di salute andarono peggiorando; in una lettera al conte Francesco Brembati del 17 febbraio 1751 parlò di una «tosse convulsiva» che lo affliggeva da tempo (Tiraboschi, 1784, p. 171).
Morì a Modena il 1° maggio 1751, e venne sepolto nella chiesa di S. Paolo, la stessa in cui era stato battezzato.
Postumi videro la luce un volume di Poesie (Bergamo 1757, con sonetti, canzoni e canzonette, due epistole in sciolti, versi latini, traduzioni da Pindaro, Virgilio, Orazio, Ovidio) e un Testamento della lingua latina in distici martelliani, nel quale la lingua latina, sul letto di morte, esalta il valore delle tre figlie (francese, spagnola e italiana); nonché un saggio (non completato) Della lirica poesia italiana (1764) con la data di Parigi, ma stampato a Venezia da Giambattista Novelli. Alcune sue poesie si leggono nel Parnaso italiano di Andrea Rubbi (Anacreontici e burleschi del sec. XVIII e Lirici filosofici amorosi, sacri e morali del sec. XVIII, Venezia 1791).
Numerosi scritti rimasero inediti: orazioni italiane e latine, discorsi sacri, volgarizzamenti (tra qui quello della Poetica di Aristotele), il dialogo Il calabrone (sulla pronuncia della lingua greca), una lezione su un sonetto di Francesco Maria Molza, la tragedia Stilicone recitata nel 1698 a Modena, il trattato Della scienza e dell’uso dell’umana parola per ben pensare e scrivere (conservato nella biblioteca dell’Accademia delle scienze di Torino; Ricuperati, 1989, p. 109).
Tagliazucchi fu in relazione con il quasi coetaneo Muratori, che affiancò nella difesa della poesia di Carlo Maria Maggi dalle critiche di Scipione Maffei (per cui cfr. L.A. Muratori, Carteggi con Mabillon... Maittaire, a cura di C. Viola, Firenze 2016, p. 214; nonché, per il carteggio, fra il 1703 e il 1745, L.A. Muratori, Epistolario, edito e curato da M. Campori, VII-XI, Modena 1904-1911, e Carteggio muratoriano: corrispondenti e bibliografia, a cura di F. Missere Fontana - R. Turricchia, introduzione di F. Marri, Bologna 2008, pp. 168, 285-287, 334), ma anche con Giampietro Cavazzoni Zanotti (che gli indirizzò la «terza parte» delle Poesie nel 1745), con Eustachio Manfredi e con i letterati della colonia arcadica Renia di Bologna. Nel 1737 gli venne dedicata a Modena una Centuria di sonetti composta da cinque rimatori modenesi (Francesco Maria Seghizzi, Giambattista Vicini, Veronica Cantelli, Giuliano Cassiani, Giampietro Tagliazucchi); come traduttore di Cicerone, e per le qualità morali («uomo da non lasciarsi dopo alcun altro»), fu lodato da Giuseppe Parini (Prose, II, Lettere e scritti vari, a cura di G. Barbarisi - P. Bartesaghi, Milano 2005, pp. 27, 109).
Fonti e Bibl.: A.F. Zaccaria, Storia letteraria d’Italia, III, Venezia 1752, pp. 728 s.; G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, V, Modena 1784, pp. 167-176; L. Cerretti, Elogio di G. T., in G. Tagliazucchi, Ragionamento intorno alle umane lettere, Venezia 1830, pp. 5-32; G. Carducci, La lirica classica nella seconda metà del sec. XVIII (1871), in Id., Opere, XIX, Bologna 1909, pp. 116 s.; L. Piccioni, Appunti e saggi di storia letteraria, Livorno 1913, pp. 83-98; M. Roggero, Scuola e riforme nello Stato sabaudo. L’istruzione secondaria dalla «ratio studiorum» alle costituzioni del 1772, Torino 1981, pp. 250-255; G. Ricuperati, I volti della pubblica felicità. Storiografia e politica nel Piemonte settecentesco, Torino 1989, pp. 105-118; W. Spaggiari, 1782. Studi di italianistica, Reggio Emilia 2004, pp. 46-64; D. Tongiorgi, «Solo scampo è nei classici». L’antologia di letteratura italiana nella Scuola fra Antico Regime e Unità nazionale, Modena 2009, pp. 13-38; C. Viola, Canoni d’Arcadia. Muratori Maffei Lemene Ceva Quadrio, Pisa 2009, pp. 155-158, 171, 174, 179; M. Cerruti, Le rose di Aglaia. Classicismo e dinamica storica fra Settecento e Ottocento, Alessandria 2010, pp. 13-23.