VERITA, Girolamo
VERITÀ, Girolamo. – Nacque a Verona nel 1472, o forse qualche anno prima, in una illustre famiglia della città, figlio di Michele e di Filippa Pindemonti.
Fu amministratore del Monte di Pietà, collezionista d’arte, ma si distinse soprattutto per la sua ampia produzione poetica, che conta 406 componimenti di sicura attribuzione, tra i quali prevalentemente madrigali, ma anche canzoni, sonetti, strambotti, frottole e sestine. Visse quasi esclusivamente tra Verona, Venezia e la sua villa di Lavagno, ancora oggi esistente, alla quale le rime fanno talvolta riferimento. Sposò Teodora Spolverini, dalla quale ebbe sei figli: Diambra, primogenita monaca nel monastero di S. Martino in Avesa, Michele, Giacomo, Giulio, Cassandra e Paolo. Ebbe anche un figlio prima del matrimonio, Michel Giacomo, detto il Riccio. Michele e Cassandra gli sopravvissero, altri quattro figli morirono precocemente (Carlini, 1905, pp. VII-XII).
Non pubblicò in vita nemmeno una poesia. La sua opera si tramanda mediante una vasta tradizione manoscritta. Le prime sue rime furono pubblicate postume, due anni dopo la morte, a Venezia nei Pistolotti amorosi di Anton Francesco Doni, stampati per Francesco Marcolini nel 1554. Gli è attribuito anche un trattato alchemico De Magnis Lapidis Compositione et Operatione, conservato manoscritto a Milano (Biblioteca Ambrosiana, V 7 sup.) e datato 1519, anche se la paternità dell’opera è stata messa in discussione (Brognoligo, 1907, p. 103).
Fu in relazione con alcuni tra i maggiori umanisti e poeti del suo tempo. In corrispondenza epistolare con Mario Equicola, tra i suoi versi si leggono un madrigale che loda il magistero di Pietro Bembo, un altro ad Antonio Isidoro Mezzabarba, un sonetto a Gian Giorgio Trissino e uno dedicato ad Annibal Caro (Castoldi, 2000, pp. 8 s.).
Fu ritratto da Francesco Torbido, detto il Moro, come scrisse Giorgio Vasari, e dal suo allievo Orlando Flacco. Il ritratto di Torbido, a lungo ritenuto perduto, è stato ritrovato nel 2014 in una Collezione privata (Marinelli, 2014, pp. 37-40), mentre da quello di Flacco derivò l’incisione di Dionisio Valesi, che precede anche un manoscritto delle poesie (Bergamo, Biblioteca civica Angelo Mai, MM391).
È ricordato come poeta da Ludovico Ariosto nel celebre parnaso dell’Orlando furioso (XLVI, 14, 5-6: «Duo Ieronimi veggo, l’uno è quello / di Veritade, e l’altro il Cittadino») e nella seconda redazione del Cortegiano di Baldassarre Castiglione: «Disse messer Camillo: “[...] A’ miei dì fu in Verona un gentiluomo chiamato messer Michele de Verità, padre del nostro Verità, el qual per essere tra li poeti che oggidì vivono meritatamente celebre e famoso, so che vi è notissimo”» (La seconda redazione..., 1968, p. 284). Ne parlarono anche Matteo Bandello nelle Novelle e Antonio Fileremo Fregoso nel poemetto in ottave De tre peregrini, che lo presentò ispirato e reso immortale da Melpomene, la musa della poesia tragica, insieme a Pietro Barignano (Castoldi, 2000, pp. 10 s.).
Un ruolo centrale nella vicenda umana e poetica di Verità ebbe l’incontro con Gian Matteo Giberti, divenuto vescovo di Verona nel 1528, che si ritiene abbia segnato nella sua produzione poetica una profonda cesura tra rime amorose e rime morali (Castoldi, 2015).
A Roma Giberti era stato datario di Clemente VII e, in quanto tale, sostenitore di quella rovinosa politica antimperiale che aveva portato al sacco di Roma del 1527, del quale fu ritenuto uno dei massimi responsabili. Dopo il sacco, decise di ritirarsi nella sua diocesi veronese e si fece promotore di un’opera di profondo rinnovamento disciplinare e morale della Chiesa. Se, come sostiene Adriano Prosperi, la scelta della diocesi fu inequivocabilmente «il risultato di una sconfitta» politica personale e del papato, e ne portò con sé tutte le insolubili contraddizioni (Prosperi, 2012, p. 26), tuttavia, ciò consentì a Giberti di promuovere in città una forma di rinnovato evangelismo, sorto in opposizione alla diffusione in Italia, e specialmente nel Veneto, della Riforma luterana.
Il confronto con la nuova politica culturale gibertiana potrebbe aver fatto sentire a Verità come ormai inadeguata ai nuovi tempi gran parte della sua produzione lirica, vincolata alle richieste di un mondo rinascimentale percepito in declino. Il nostro poeta si sarebbe così indirizzato verso la scrittura di rime ispirate da una devota fede religiosa, in direzione pure esplicitamente antiprotestante.
Nel madrigale Quel Tutto buon che tutto ben dispose, scritto «contra quelli che parlano della Predestinazione» (Castoldi, 2000, pp. 13 s.), Verità si richiama al principio dell’inconoscibilità del disegno divino e paragona coloro che sostengono l’esistenza di una predestinazione alla salvezza o alla dannazione a delle «nottole erranti» (ibid.), incapaci di vedere e sopportare la luce e destinate a vivere nelle tenebre. Questi uomini, infatti, anziché presumere di conoscere l’inconoscibile, osando «del sole [...] / adrizzar gli occhi in la gran luce», dovrebbero accontentarsi della loro misera condizione di uomini e di sapere ciò che è, ovvero «puor gli occhi al basso e star contenti al quia» (ibid.), con trasparente allusione al terzo canto del Purgatorio dantesco (vv. 37-39: «State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria»).
C’è inoltre una canzone, Se Dio mai contra l’huom gran segno diede, attribuita a Verità da due codici cinquecenteschi (Venezia, Museo civico Correr, 67; Bergamo, Biblioteca Angelo Mai, MA 145), nella quale si legge un’esplicita condanna del protestantesimo ai versi 77-80: «et la settentrional peste mortale / hoggi non sol quel gran paese infetta, / ma Italia ammorba et Francia l’accompagna, / et la sposa di Christo invan si lagna» (Castoldi, 2015, pp. 70 s.).
La complessa tradizione manoscritta, fondata su oltre cinquanta testimoni, si incentra su un apografo seicentesco (Bergamo, Biblioteca Angelo Mai, MM391), copia di una copia, redatta dal nipote del poeta Giulio Verità, della raccolta delle rime predisposta dalla figlia di Girolamo Cassandra. Il manoscritto giunse a Bergamo poco prima del 1774, acquistato a Verona dall’erudito e bibliofilo bergamasco Sebastiano Muletti (Castoldi, 1993, pp. 96-103).
La raccolta della figlia Cassandra, pur se a noi giunta in una redazione almeno doppiamente descritta, è certamente la più completa, ma le rime vi sono raccolte secondo un’omogeneità dettata dal metro (madrigali con madrigali, canzoni con canzoni ecc.) piuttosto che da criteri diacronici e tematici, necessari invece per intendere l’opera di un poeta morto più che ottuagenario.
Fondamentale risulta, pertanto, un altro manoscritto cinquecentesco (Mantova, Biblioteca del Seminario vescovile, Fondo Labus, X H 67), introdotto dalla canzone Spirto celeste che di nostro manto dedicata a «A Mons[igno]r Giberto Vescovo di Verona», panegirico del vescovo veronese, e chiuso da alcuni madrigali che parlano della morte di Giberti. Si tratta esclusivamente di rime moraleggianti sulla vanità delle aspirazioni mondane, sulla richiesta di perdono a Dio per i propri errori, sulla santità della povertà. Questi versi nel codice bergamasco sono in gran parte presenti, ma mescolati ad altri di gusto giocoso o satirico, con riferimenti espliciti alla vita quotidiana e familiare, o addirittura di argomento amoroso e di intrattenimento galante, spesso con allusioni al mito o al fato. I componimenti testimoniati unicamente dal codice mantovano sono tre, e come gli altri sono di argomento religioso e morale.
Sappiamo che il codice mantovano fu sicuramente vergato dopo il 1543, data di morte di Giberti, ma non sappiamo se risponda a una volontà precisa dell’autore, oppure sia il frutto di un lavoro di selezione analogo a quello compiuto dalla figlia Cassandra.
I rimanenti oltre quaranta manoscritti sono quasi tutti coevi al poeta. Alcuni contengono sillogi di minore estensione, ma di gusto più legato alla lezione bembiana e alle poetiche di primo Cinquecento, e sono pertanto testimonianza della prima fase della produzione poetica. Solo l’indagine filologica consente al momento di ipotizzare una diacronia nella scrittura del poeta veronese, consegnandolo alla storia della letteratura per la sua specificità e non con la logora e abusata qualifica di petrarchista.
La decisione di Verità di non dare alle stampe le proprie rime sembra essere, piuttosto che una mancanza o un gesto di riserbo, una consapevole volontà autoriale, una scelta culturale, che implicava la presa di distanza dalle tipografie. Visse infatti a lungo, in molti lo stimavano poeta di vaglia, e i numerosi manoscritti confermano che non si astenne certamente da rendere noti i propri versi.
Morì a Verona il 22 o il 27 maggio 1552. Fu sepolto nella chiesa di S. Eufemia.
All’inizio dell’Ottocento le sue ossa furono trasferite nell’ossario comune sotto la porta maggiore della chiesa.
Fonti e Bibl.: L. Carlini, G. V. Filosofo e poeta veronese del secolo XVI, Verona 1905; G. Brognoligo, Rime inedite di G. V., in Studi di letteratura italiana, VII (1907), pp. 98-129; La seconda redazione del Cortegiano di Baldassarre Castiglione. Edizione critica, a cura di G. Ghinassi, Firenze 1968, p. 284; A. Prosperi, Tra evangelismo e Controriforma. G. M. Giberti (1495-1543), Roma 1969, ad ind.; M. Castoldi, Cassandra sola intendi il mio concetto [...]: nota in margine alle rime di G. V., in Studi storici Luigi Simeoni, XLIII (1993), pp. 87-103; Id., Per il testo critico delle rime di G. V., Verona 2000 (cfr. la recensione di M.L. Doglio, in Giornale storico della letteratura italiana, CXVIII (2001), 582, p. 314); A. Prosperi, Gian Matteo Giberti e la politica della libertà d’Italia, in Gian Matteo Giberti (1495-1543). Atti del Convegno..., Verona... 2009, a cura di M. Agostini - G. Baldissin Molli, Cittadella 2012, pp. 19-27; S. Marinelli, Una postilla a Vasari, in Quaderni veneti, III (2014), 2, pp. 37-45; M. Castoldi, La politica culturale di Gian Matteo Giberti e le rime di G. V., in Il Concilio di Trento e le arti (1563-2013). Atti del Convegno... 2013, a cura di M. Pigozzi, Bologna 2015, pp. 65-71, 168.