GISELBERTO
Conte di Bergamo, primo di questo nome, nacque presumibilmente intorno all'870. Di origine longobarda, fu il primo di questa stirpe a far parte della classe di potere dopo la lunga predominanza dell'elemento franco che si mantenne salda tra IX e X secolo; benché non si abbiano testimonianze certe dei suoi primi passi in politica, fu probabilmente negli anni della lotta per la corona d'Italia con Guido di Spoleto che G. si guadagnò il favore di Berengario.
Il primo documento sicuro che lo riguardi è la sua partecipazione quale vassus et missus di Berengario imperatore a un placito in Bonate Superiore presso Bergamo nel novembre 919, placito in cui si giudicò una lite per beni tra alcuni privati e il vescovo Adalberto di Bergamo (I placiti, p. 488 n. 130). Nello stesso documento è nominato quale comes Bergomensis per l'ultima volta un Supponide, con ogni probabilità Suppone (IV), in seguito conte di Modena.
Non è sicuro, al contrario, se G. sia identificabile con quel "Giselbertus vassus domni regis" che, insieme con altri, partecipò in veste di iudex a un placito tenutosi il 4 marzo 899 in Pavia in favore del monastero di Nonantola (cfr. Tiraboschi).
Se G. era già in qualità di vassus nelle grazie di Berengario, ciò non gli impedì di aderire a un gruppo nobiliare d'opposizione. Liutprando riferisce nel libro II della sua Antapodosis che una cospirazione dei "grandi" del Regno, esplosa nel 921, vide come avversari di Berengario Adalberto, marchese di Ivrea (già genero dello stesso imperatore in quanto sposo in prime nozze della di lui figlia Gisla), Odelrico conte palatino e marchese di una Marca non meglio precisata, Lamberto arcivescovo di Milano e anche Giselberto. Berengario ebbe la meglio sull'esercito dei cospiratori in una battaglia svoltasi in una zona collinosa a sudest di Brescia (forse presso Calcinato). Odelrico fu ucciso; Adalberto si fece passare per suo vassallo e venne riscattato; G. fu trascinato a Verona dinanzi a Berengario, il quale, se si presta fede a Liutprando, credette in un suo ravvedimento e lo perdonò. Ma G. trovò più conveniente fuggire dal RegnumItaliae e rifugiarsi presso Rodolfo di Borgogna che stava giusto allora per scendere in Italia.
È possibile che il titolo comitale assegnatogli da Liutprando già per l'anno 921 sia il frutto di proiezione all'indietro di una condizione raggiunta più tardi, in quanto i documenti che vedono G. nelle vesti di comes risultano successivi e sono emessi dalla Cancelleria di Rodolfo: un diploma di quest'ultimo del 3 dic. 922 per il vescovo Adalberto di Bergamo (I diplomi italiani, p. 97 n. 2), in cui sono nominati come "dilecti consiliarii" l'arcivescovo Lamberto di Milano, i vescovi Guido di Piacenza e Beato di Tortona e l'"illustris comes Giselbertus"; un placito del gennaio 923 (I placiti, p. 494 n. 132) in cui G. è nominato come "comes et missus domni regis comitatus istius Bergomensis". Si potrebbe perciò congetturare che il Comitato bergamasco, fino ad allora in mano ai Supponidi, rappresenti un donativo del nuovo re, come ringraziamento dell'appoggio ricevuto da G., un tempo uomo di fiducia di Berengario (cfr. Hlawitschka). Nel 924 "Giselbertus qui et Samson" e Guglielmo e l'arcivescovo di Milano Lamberto, quali portavoce del vescovo Guido di Piacenza, ottennero per la Chiesa piacentina un pezzo della cinta muraria di Pavia (I diplomi italiani…, p. 125 n. 11).
Un'interpretazione (sostenuta da Fasoli, pp. 237 s. e da Hlawitschka, p. 187 n. 7) vuole che l'espressione: "Giselbertus qui et Samson" non indichi i due nomi di uno stesso personaggio (come ritiene Schiaparelli, cfr. I diplomi italiani…, p. 125) ma sia un errore del redattore del documento e che occorra pensare a due persone distinte, G. e Sansone (colui che succederà a G. stesso nella carica di comes palatii). Ad asseverare eventualmente questa interpretazione si è notato che anche nel diploma di Rodolfo datato 18 luglio 925 - falsificato nella sua parte centrale, ma basato su un documento autentico nella parte iniziale e finale - G. è nominato come interveniente accanto al comes Sansone, oltre che ai vescovi Leone di Pavia, Beato di Tortona e Aicardo di Parma (cfr. ibid., p. 136 n. *2).
I rapporti di fedeltà e sudditanza con Rodolfo non durarono a lungo. Subito dopo la discesa in Italia di Ugo di Provenza, incoronato re d'Italia nel luglio 926, troviamo G. tra i favoriti di questo sovrano. Lo spostamento di alleanze gli fruttò, durante l'estate del 926, l'ufficio di conte palatino. Con questa carica G. prese parte nell'autunno-inverno 926-927 a numerosi atti. Già il 3 sett. 926 è nominato in un diploma di Ugo per il monastero di S. Sisto a Piacenza (I diplomi di Ugo, pp. 6-9, n. 2); il 12 novembre è sottoscrittore in un documento (ibid., pp. 14-17, n. 4) con cui furono confermate alla Chiesa di Asti le anteriori donazioni, immunità ed esenzioni da ogni tassa sui mercati, i castelli e i suoi altri possedimenti. Il 28 di quello stesso mese per intercessione sua (è qui espressamente nominato come "sacri palatii comes et dilectus noster filius") e del vescovo di Bergamo Adalberto, venne concessa da re Ugo alla chiesa di Antonino e Giustina in Piacenza l'abbazia di S. Cristina di Pavia (ibid., pp. 17-20, n. 5).
G. compare attivo nell'amministrazione regia per l'ultima volta il 14 maggio 927: nella sua stessa casa a Pavia, capitale del Regno, tenne un placito al quale parteciparono tra gli altri anche sei dei suoi vassalli (I placiti, p. 497 n. 133). Non si sa con precisione quando G. morì, tuttavia, poiché il 19 nov. 929 il comes palatii è già Sansone (Codex diplomaticus Langobardiae, col. 910 n. 534), si deve ipotizzare che la sua morte sia da collocare tra queste due date.
G. aveva preso in moglie Rotruda (Roza), figlia del potente giudice regio Walperto e sorella di Pietro, vescovo di Como (921-933). Questa Rotruda, secondo Liutprando (p. 112), sarebbe divenuta dopo il 926 una delle concubine di Ugo di Provenza, dal quale avrebbe avuto una figlia, ma si potrebbe trattare di una delle numerose illazioni misogine di Liutprando (Odazio, pp. 24 s.). È certo che dal legittimo consorte Rotruda ebbe, in una data imprecisabile, forse negli ultimi anni del sec. IX, un figlio, il futuro conte palatino Lanfranco (I), com'è chiarito dalle notizie desunte da un documento del 13 luglio 1059, relativo a una donazione da parte della vedova Rotruda alla chiesa di S. Alessandro a Bergamo in suffragio dell'anima del marito e del figlio (Codex diplomaticus Langobardiae, col. 1089 n. 634).
Dell'unione matrimoniale tra G. e Rotruda riferisce anche Liutprando (III, 39) all'interno del racconto della cosiddetta rivolta dei giudici Valperto e Gezone contro Ugo. Liutprando dice G. già morto al momento della congiura, la cui data è però purtroppo incerta. Se si accetta per la rivolta l'ipotesi di datazione del Mor (p. 123), cioè l'autunno del 927, i termini ante e post quem della morte di G. si avvicinano notevolmente.
Fonti e Bibl.: Codex diplomaticus Langobardiae, a cura di C. Porro Lambertenghi, in Monumenta historiae patriae, Chartarum, XIII, Augustae Taurinorum 1873; Liutprando di Cremona, Antapodosis, a cura di J. Becker, in Mon. Germ. Hist., Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum, XLI, Hannoverae-Lipsiae 1915, pp. 63-66, 92-94, 112; I diplomi italiani di Lodovico III e Rodolfo II, a cura di L. Schiaparelli, in Fonti per la storia d'Italia [Medio Evo], XXXVII, Roma 1910; I diplomi di Ugo e Lotario, di Berengario II e di Adalberto, a cura di L. Schiaparelli, ibid., XXXVIII, ibid. 1924; I placiti del "Regnum Italiae", III, 1, a cura di C. Manaresi, ibid., XCII, ibid. 1960; G. Tiraboschi, Storia dell'augusta badia di S. Silvestro di Nonantola, II, Modena 1785, p. 77; L. Schiaparelli, I diplomi dei re d'Italia. Ricerche storico-diplomatiche, IV, in Boll. dell'Istituto storico per il Medio Evo, XXX (1909), pp. 14 s.; Id., I diplomi dei re d'Italia. Ricerche storico-diplomatiche, V, ibid., XXXIV (1914), pp. 21 s.; E. Odazio, I conti del Comitato bergomense e loro diramazione nei secc. X-XIII, in Bergomum, XXVIII (1934), pp. 272 s.; XXIX (1935), pp. 15-25; G. Fasoli, I re d'Italia(888-962), Firenze 1949, pp. 91 s., 117, 237 s., 241; C.G. Mor, L'età feudale, I, Milano 1952, pp. 76 s., 122 s.; E. Hlawitschka, Franken, Alemannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien, Freiburg i.Br. 1960, pp. 186-188, 259-262 (per Sansone); J. Jarnut, Bergamo 568-1098. Storia istituzionale sociale ed economica di una città lombarda nell'Alto Medioevo, Bergamo 1980, pp. 44-50, 91-95, 274 s.; R. Pauler, Das Regnum Italiae in ottonischer Zeit. Markgrafen, Grafen und Bischöfe als politische Kräfte, Tübingen 1982, pp. 134 s.; F. Menant, I Gisalbertini, conti della Contea di Bergamo e conti palatini, in Id., Lombardia feudale. Studi sull'aristocrazia padana nei secoli X-XIII, Milano 1992, pp. 51-54.