GISULFO
Principe di Salerno, secondo di questo nome, nacque, probabilmente all'inizio del secondo quarto del sec. XI, da Guaimario (V) e da Gemma, principi longobardi di Salerno, secondo di una lunga serie di figli, dei quali - oltre al primogenito Giovanni (IV), morto solo un anno dopo che il padre lo aveva associato al trono nel settembre del 1037 - si conoscono i nomi di Landolfo, Guido, un altro Giovanni, Guaimario, Pandolfo, Sichelgaita, Sica; di una terza figlia parla Amato di Montecassino senza dirne il nome. G. venne a sua volta associato al trono alla metà di aprile del 1042. Solo dieci anni dopo, l'11 giugno, in seguito all'assassinio del padre, per opera di alcuni salernitani e amalfitani, egli fu insediato sul trono di Salerno dallo zio Guido, conte di Conza, e dai Normanni guidati da Riccardo Drengot conte di Aversa; si obbligò allora verso i suoi protettori e restituì il Ducato di Sorrento allo zio, cui lo aveva sottratto il padre Guaimario.
Secondo una notizia assai incerta e priva di riscontri documentari sicuri, già prima di questi fatti G. si sarebbe sposato con una donna di nome Maria, della quale non si hanno ulteriori notizie (l'interpretazione che viene solitamente data del relativo passo di Amato di Montecassino, p. 219 n. 2, si fonda infatti su un noto falso privilegio del 1058, Diplomata principum Beneventi…, tavv. 25 s.); l'unico nome certo della sua famiglia è finora quello della figlia Gaitelgrima che nel 1087 sposò un Giovanni Ferrante normanno, stratega di Nocera (Catalogus baronum, p. 148 n. 504).
Nell'intento di restaurare il potere che era stato del padre, G. volse presto le mire alla vicina e ricca città di Amalfi proprio mentre quegli stessi Normanni che gli avevano restituito il Principato erano invece impegnati nella guerra contro papa Leone IX, che li avrebbe portati alla vittoria di Civitate (1053). Il suo mancato intervento al loro fianco accrebbe l'ostilità che Guido e Riccardo cominciavano a nutrire nei suoi confronti perché egli non aveva consegnato loro le gratifiche promesse e forse anche per la crudeltà con cui aveva trattato alcuni prigionieri amalfitani, tra i quali Mansone e Leone a essi devoti. Invece, altri Normanni (Umfredo e Guglielmo d'Altavilla), che si erano recati a Salerno ma non avevano ricevuto i premi pattuiti, si impadronirono con le armi di alcuni castelli e terre nella parte meridionale del Principato, costituendo una nuova contea, alla testa della quale si pose Guglielmo col titolo di conte del Principato. Seguirono, nei mesi successivi, continui screzi e imboscate, finché nel 1054 Riccardo, dopo aver stretto alleanza con Amalfi, si volse contro Salerno. Preso in una morsa, G., per tenere aperta almeno la via del mare, con un improvviso voltafaccia offrì a Giovanni (II) duca di Amalfi la pace e la proposta di un'azione comune contro i sempre più potenti stranieri; approfittando inoltre della visita a Montecassino di inviati dell'imperatore germanico, chiese anche a essi aiuti per la lotta ai Normanni. Un aiuto insperato venne dal nuovo pontefice, Stefano IX, fiero nemico di questi ultimi, il quale subito intavolò trattative con Gisulfo.
In questo momento G. si mostrò particolarmente attento ai bisogni della Chiesa di Salerno, alla cui guida propose il salernitano Alfano, già monaco in Montecassino poi da lui nominato abate di S. Benedetto in Salerno, che fu consacrato dal papa a Roma nel marzo del 1058.
G. perdette però quasi subito l'appoggio romano, per la morte repentina di Stefano IX e per le lotte che accompagnarono la nomina del successore. Giocò allora la carta della discordia tra i Normanni: si riavvicinò a Riccardo d'Aversa, divenuto nel frattempo principe di Capua, e chiese a Roberto il Guiscardo - cui diede in ostaggio un proprio figlio e un nipote, figlio di Guido di Conza - un appoggio militare contro Guglielmo d'Altavilla. Nell'autunno dello stesso anno 1058 (così in Goffredo Malaterra; nell'anno successivo per Leone Ostiense, Chronica monasterii Casinensis, p. 378; e Guglielmo di Puglia, Gesta Roberti, p. 206) il Guiscardo ripudiò la prima moglie Alberada e ottenne in sposa la sorella di G., Sichelgaita. Sembrava possibile, a questo punto, una generale pacificazione, tanto più che il nuovo pontefice Niccolò II - desideroso di scrollarsi di dosso l'ingombrante protezione imperiale, soprattutto per le pressioni di Ildebrando di Soana e grazie alla mediazione dell'abate Desiderio - orientava ora le proprie alleanze in senso filonormanno. G. presenziò, nel luglio del 1059, al concilio di Melfi, al quale parteciparono anche Roberto e Riccardo, ma, sempre attento a bilanciare il potere di questi ultimi, cercò di rafforzare la sua amicizia tanto con Ildebrando, quanto con l'abate di Montecassino, al quale restituì, proprio in questo periodo, il monastero benedettino di S. Benedetto in Salerno cui aggiunse come nuovo possedimento cassinese un altro monastero cittadino, quello di S. Lorenzo Martire. Non riuscì però a far leva sulle discordie tra gli Altavilla, poiché il Guiscardo, inviato a risolvere la questione aperta dalla creazione della nuova contea del Principato, riappacificò il fratello Guglielmo con G., ma gli riconobbe anche il titolo e la contea, accanto alla quale ne sorse presto un'altra, quella di Rota, con a capo il normanno Troisio.
Sempre alla ricerca di nuovi alleati per arginare il crescente potere dei Normanni, G. decise di recarsi a chiedere aiuti al basileus bizantino, ma dissimulò il viaggio - che effettuò tra il 1061 e il 1062 (dopo il 13 giugno 1061 e prima del 24 nov. 1062: Borino, 1959-61, p. 362) - con un pellegrinaggio in Terrasanta, nel quale si fece accompagnare dall'arcivescovo Alfano e dal cardinale Bernardo di Palestrina.
Non appena giunti a Costantinopoli (dove G. fu ospitato in casa del mercante amalfitano Pantaleone e da questo fu forse informato dei progetti imperiali di un'alleanza con il papa), Bernardo e Alfano, non rinunciando all'obiettivo della loro impresa, si recarono in Palestina. Durante la loro assenza G. prese con Costantino (X) Ducas accordi che prevedevano un sostanzioso aiuto in denaro da parte dell'imperatore dietro l'impegno di G. a lasciare in ostaggio i due prelati, nonché un proprio fratello che avrebbe fatto giungere dall'Italia. Bernardo morì, però, il 5 dic. 1061 e Alfano fu lasciato libero di rientrare a Salerno.
Una volta tornato in patria, G. fu impegnato a reprimere la ribellione di Guido di Conza, nonché a rafforzare la difesa militare della capitale del Principato, che poté attuare grazie alla cessione, da parte di Alfano, di alcuni castra di pertinenza dell'arcivescovado posti tutt'intorno alla città, tra i quali una rocca sul monte S. Liberatore dominante la via Nocerina (Cherubini, 1990, p. 22). Non prese direttamente parte invece alla guerra di Puglia. Qui i Bizantini vennero pesantemente sconfitti rivelando la caducità del loro possibile appoggio alla causa longobarda. Ancora una volta fu la Chiesa l'alleato più sicuro di G.: Alessandro II, ispirato certamente da Ildebrando, vedeva infatti come una pericolosa minaccia la possibilità sempre più concreta dell'unificazione in mani normanne di tutta l'Italia meridionale.
Nell'estate del 1067 il papa riunì a Salerno un concilio e ricevette l'atto di sottomissione da parte di Guglielmo e Guimondo d'Altavilla, ma non riuscì a conciliare i Normanni con G., che anzi, non potendo riaffermare la propria sovranità sugli antichi vassalli, tentò nuovamente di rivalersi su Amalfi (mai dimentico delle responsabilità amalfitane nell'assassinio del padre), occupando con la flotta la costa dal golfo di Sant'Eufemia in Calabria fino alla città marinara e infliggendo crudeli torture a tutti gli amalfitani che riusciva a fare prigionieri e per i quali non venisse pagato un altissimo riscatto. Così si comportò anche nel caso di un figlio di "Mauro de comite Maurone" (il donatore delle porte bronzee di Montecassino), che non liberò neanche di fronte alle preghiere dell'imperatrice Agnese né all'intercessione del papa e dell'abate Desiderio - incontrato a Montecassino nell'ottobre del 1071 in occasione della consacrazione della nuova chiesa abbaziale - e neppure del monaco Leone, abate di Cava (Schwarz, pp. 103-106). Ma a quest'ultimo, come già aveva fatto nel 1067 e nel 1070, donò beni nel Cilento, forse su richiesta dell'amico Ildebrando e col fine d'ingraziarsi il Papato. All'interno del suo Stato, intanto, rafforzava la propria posizione mediante la costruzione di nuove fortificazioni e l'accumulo d'ingenti ricchezze.
L'ascesa al soglio pontificio di Ildebrando con il nome di Gregorio VII contribuì a far precipitare la situazione. Il giorno successivo alla sua elezione, il 23 apr. 1073, il papa scrisse a G. chiedendo preghiere per il suo ministero; esortò poi il principe a risolvere pacificamente i suoi problemi con gli Amalfitani. Gregorio anzi invitò questi ultimi ad allearsi con lui, ma quelli preferirono consegnarsi invece al Guiscardo, piuttosto che trovarsi al fianco dell'odiato vicino. A quest'azione G. rispose intercettando navi amalfitane e conquistando luoghi strategici nelle vicinanze di Amalfi. I piani papali intanto prevedevano la formazione di una lega antinormanna, di cui naturalmente G. doveva far parte.
A Salerno si vissero allora momenti di grande euforia e di ritrovate aspettative. L'arcivescovo Alfano, probabilmente in quest'occasione (ma la datazione non è concorde: cfr. Lentini, 1957, p. 233), compose un'ode a G., nella quale lo esortava, come un eroe della Roma antica, a debellare i nuovi Galli e a sconfiggere la potenza di Pirro, a scacciare cioè Normanni e Bizantini dall'Italia meridionale. In tale situazione s'inquadra - e si comprende in tutto il suo significato - l'emissione, da parte di G., di una moneta recante la legenda "Victoria", un atto con cui il principe tentava di esorcizzare e insieme propiziare la vittoria, tanto più che in città si andavano spargendo in quel momento pseudoprofezie e visioni non sempre a lui favorevoli. Non trova invece riscontri documentari la notizia secondo la quale, nell'autunno del 1073, G. sarebbe stato inviato dal pontefice in missione a Napoli (Morghen, p. 63; Lentini, 1957, p. 240): essa va forse riferita ad alcuni anni dopo, al tempo di una lettera di Gregorio VII a Giovanni vescovo di Napoli del 24 giugno 1082 (a proposito della quale si legge in Kehr, p. 338 n. 23: "de hac Gisulfi legatione Neapolitana non habetur alia notitia").
Gli aderenti alla lega voluta dal papa si riunirono il 2 giugno 1074 sul monte Cimino presso Viterbo, ma l'alleanza si sfaldò praticamente subito, per il rifiuto dei Pisani a partecipare a una campagna accanto a G., che solo pochi anni prima aveva fatto prigionieri e ucciso alcuni mercanti della loro città rifugiatisi a Salerno per una tempesta. Il Guiscardo offrì allora la pace a G., purché interrompesse le sue vessazioni contro Amalfi; e, quel che più conta, nel corso del 1075 la ottenne da Gregorio VII che, sempre più preoccupato dalla lotta ingaggiata con Enrico IV, fu ben lieto di recuperare l'alleato normanno e tentò anche di farlo rappacificare con il cognato inviando a Salerno l'abate Desiderio, alle cui preghiere si aggiungevano ora quelle della sorella del principe, Sichelgaita. G. respinse ogni offerta di pace e nel maggio del 1076 Roberto (al quale ben presto si unì Riccardo di Capua) condusse i Normanni all'assedio della città, cui chiudevano contemporaneamente l'accesso dal mare le navi degli Amalfitani. L'assedio durò molti mesi e la città cadde la notte del 13 dicembre, ma non la rocca (l'antico castello di Arechi), dove G. restò asserragliato con pochi fidi per tutto l'inverno e parte della primavera del 1077. Negli ultimi giorni di maggio egli si arrese al Guiscardo, che lo lasciò andare in esilio. G. riparò allora presso Gregorio VII, che, di nuovo a Roma nel 1077, nutrì ancora per un certo periodo - fino alla nuova alleanza antitedesca con i Normanni (Ceprano, 29 giugno 1080) - l'illusione di poterlo rimettere sul trono di Salerno.
Negli anni che seguirono G., ancora chiamato nei documenti e nelle cronache "princeps Salerni", svolse incarichi in Curia: certamente fu inviato in Francia nel 1084 (non nel 1081 come in Das Register, pp. 565-567) insieme con il cardinale Pietro di Albano per recare la bolla di scomunica contro Enrico IV e, al contempo, riscuotere, nelle città di Aquisgrana, Le-Puy-en-Velay e Saint-Gilles, il censo dovuto alla S. Sede (Borino, 1956, p. 400).
Le notizie su G. diventano scarse negli ultimi anni di vita: nel marzo 1087 accompagnò a Roma da Montecassino l'abate Desiderio divenuto papa Vittore III; nell'aprile dell'anno successivo fu per qualche tempo ad Amalfi, dove compare per un breve periodo come duca della città, ma, in un documento di giugno del 1091, infine, risulta già essere morto.
È difficile formulare un giudizio sulla sua persona. Quello dei contemporanei non fu certo positivo: non solo Amato di Montecassino, infatti, a lui dichiaratamente ostile, ma anche Romualdo salernitano ne evidenziano la crudeltà, la doppiezza, l'ostinazione con cui rifiutò l'accordo finale con il nemico, portando la sua città allo stremo. Ma è vero, d'altro canto, che il suo principato iniziò sotto il segno del tradimento (da parte degli Amalfitani, nei confronti dei quali egli non cessò mai di rincorrere la vendetta) e si svolse nel momento in cui le contrapposizioni tra poteri universali e poteri locali giunsero al loro punto più alto, stravolgendo gli assetti che avevano caratterizzato fino ad allora l'Italia meridionale. All'interno di queste tensioni G. giocò, spesso con raffinata intelligenza, tutte le sue carte, inseguendo difficili alleanze - dall'imperatore d'Oriente Costantino (X) Ducas al papa, Alessandro II prima e, in particolare, Gregorio VII poi - e soprattutto cercando di alimentare la discordia tra i suoi nemici. Più di ogni altra cosa colpisce però la coscienza che egli ebbe del proprio potere; una coscienza che, sebbene senza esiti positivi, seppe trasmettere alla sua gente attraverso l'imitazione, a volte spregiudicata (nei sigilli, nelle monete, ma anche nelle formule documentarie), degli attributi dell'autorità anche imperiale, e una cura sempre molto attenta dei rapporti con il potere ecclesiastico.
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