Giudaismo
Nella sua accezione più ampia il termine 'giudaismo' indica la storia complessiva del popolo ebraico, dai suoi inizi nell'epoca biblica sino al presente; esso può quindi riferirsi tanto al popolo ebraico nelle sue diverse forme storiche, quanto alla religione e alla cultura degli Ebrei. Allo stesso modo il termine 'Giudei' può essere usato per indicare sia l'appartenenza al popolo sia l'appartenenza alla comunità religiosa ebraica. Va osservato peraltro che in italiano è prevalso invece come sinonimo di 'Israeliti' e di 'Giudei' il sostantivo 'Ebrei', che nella sua forma aggettivale ('ebraico') viene usato nella maggior parte delle altre lingue moderne esclusivamente in riferimento alla lingua ebraica.
Spesso il termine 'giudaismo' viene impiegato in un'accezione più ristretta, per designare l'epoca successiva alla distruzione definitiva del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., allorché si costituì il 'giudaismo rabbinico' il quale da allora ha assunto il valore di giudaismo 'normativo'. Tale giudaismo tuttavia definisce la propria identità nella continua esegesi della Bibbia ebraica (l''Antico Testamento') e della storia del popolo ebraico (o 'popolo di Israele') narrata nei testi biblici, sicché occorre considerarlo in questo contesto più ampio.
Il termine 'giudaismo' non ricorre nella Bibbia ebraica; esso compare per la prima volta nel greco tardo antico (àιουδαισμόϚ, II Maccabei, II, 21 e passim). Nei testi biblici il popolo nel suo insieme viene indicato col nome di 'Israele', mentre 'Giuda' è il nome di una tribù e dell'omonimo regno meridionale. Dopo l'esilio babilonese la denominazione 'popolo di Giuda' viene estesa a tutto il popolo ebraico, e compare inoltre l'aggettivo 'giudaico', soprattutto in Esdra - Neemia e in Ester; tuttavia 'Israele' continua a essere usato, soprattutto nel linguaggio religioso. Nell'epoca persiana la provincia è chiamata in aramaico Jehud, mentre nell'epoca ellenistica assume il nome greco di ᾽Iουδαἰα.A rigore si dovrebbe parlare quindi di 'Israele' e di 'Israeliti' per l'epoca biblica più antica, di 'Giudei' (e di 'giudaismo') per il periodo successivo all'esilio babilonese.
Il giudaismo ha conosciuto profonde trasformazioni nel corso della sua storia più che trimillenaria. In essa emergono alcune cesure fondamentali che possono servire a caratterizzare le singole epoche; il primo periodo dell'età biblica, iniziato nel II millennio a.C., termina con la caduta degli Stati indipendenti di Israele e Giuda e con la distruzione del primo Tempio ad opera dei Babilonesi nel 587-586. Dopo il ritorno di una parte degli esuli da Babilonia ha inizio l'epoca del secondo Tempio - un'età di restaurazione che vede il succedersi delle dominazioni persiana, ellenistica e romana, l'inizio di una vasta diaspora ebraica e la nascita della sinagoga accanto al Tempio. Dopo la distruzione del Tempio ad opera dei Romani, nel 70 d.C., si sviluppa nell'ambito della sinagoga il giudaismo rabbinico, che ha i suoi centri in Palestina e Babilonia e che con la compilazione del Talmūd dà al giudaismo un nuovo punto di riferimento universale. A seguito della conquista arabo-islamica nel VII secolo il centro di gravità della storia ebraica si sposta in Spagna, dove nasce una filosofia ebraica. In seguito in diverse aree dell'Europa sorgono movimenti mistici che, dopo la cacciata degli Ebrei dalla Spagna nel 1492, trovano una prosecuzione in Palestina. Il centro di gravità della storia ebraica si sposta però nuovamente, questa volta nell'Europa centrorientale, dove il giudaismo ashkenazita sviluppa una propria specifica cultura, soprattutto con il ḥasidismo del XVIII secolo. Con l'illuminismo (haskālāh), infine, l'identità del popolo ebraico e in particolare dell'ebreo come singolo individuo viene problematizzata in termini radicalmente nuovi. Nascono nuove differenziazioni religiose in concomitanza con un nuovo spostamento del centro di gravità nel Nordamerica; in risposta all'antisemitismo si sviluppa il sionismo, che nel 1948 porta alla costituzione dello Stato di Israele.
La Bibbia costituisce la fonte principale per ricostruire la storia e le strutture del popolo ebraico. All'inizio si tratta della storia di un gruppo familiare. Abramo e i suoi discendenti vivono nella terra di Canaan (Genesi, XII ss.), in cui però sono 'estranei' che si mantengono isolati dagli abitanti autoctoni, i Cananei (Genesi, XII, 6). La storia del gruppo familiare diventa storia di un popolo a partire dal soggiorno dei discendenti di Abramo in Egitto (Esodo, I ss.). Ancora una volta gli Ebrei costituiscono una comunità a sé stante separata dalla popolazione locale, gli Egiziani, che li tengono in stato di schiavitù. La differenziazione dagli Egiziani assume una spiccata connotazione religiosa: il faraone viene addirittura presentato come antagonista del Dio di Israele. In questo contesto Mosè riceve la rivelazione del nome di Dio: YHWH (Esodo, III, 14; VI, 3. L'esatta pronunzia del nome è incerta; Yahweh o Jahvè è quella che si è affermata a partire dal XIX secolo. Nel giudaismo dopo l'età biblica il nome YHWH non viene più menzionato direttamente ma è sostituito da altre designazioni, la più frequente delle quali è Adonai, 'Dominus', 'Signore').
Il drammatico esodo dall'Egitto, che viene considerato dagli Israeliti come una liberazione divina dalla schiavitù (Esodo, XII-XV), segna il ritorno del popolo ebraico nella terra di Canaan. Con la presa di possesso di questo territorio, descritta nel Libro di Giosuè, gli Israeliti non vivono più nella condizione di stranieri: comincia così un nuovo periodo nella storia del popolo ebraico. La distinzione dai Cananei continua però a costituire un elemento essenziale nella definizione dell'identità giudaica, ancora una volta con una spiccata connotazione religiosa. Ciò attesta come il separatismo di natura fondamentalmente religiosa rappresenti una caratteristica essenziale della identità degli Israeliti.In questa fase si delineano le strutture di una divisione del popolo ebraico. In un primo tempo si tratta della divisione in dodici tribù, che prendono il nome dai figli del capostipite Giacobbe, nipote di Abramo (Genesi, IL; Deuteronomio, XXXIII). Mentre le prime fasi della storia di Israele restano nella completa oscurità, la narrazione biblica sembra rispecchiare qui precise realtà storiche, sebbene permangano molti elementi di incertezza. L'ipotesi per lungo tempo predominante di una lega sacrale di dodici tribù che si raggruppano intorno a un santuario centrale secondo il modello delle anfizionie greche è stata abbandonata. Il modello della 'anarchia regolata' proposto da Christian Sigrist sembra più rispondente all'organizzazione sociale degli Israeliti di questo periodo storico. Secondo tale modello la comunità di tribù andrebbe vista come una 'società segmentaria' acefala.
Tra la fine del II millennio e l'inizio del I millennio a.C. si compie la trasformazione in una monarchia centralizzata. Secondo la tradizione biblica fu Saul che dapprima assunse il ruolo di capo carismatico liberando la comunità di tribù dalle minacce esterne e poi venne eletto re (I Samuele, XI). Si trattava probabilmente di una monarchia legata alla persona e basata su esigenze essenzialmente militari. Il regno di Saul comprendeva sostanzialmente le tribù settentrionali (II Samuele, II, VIII ss.). Davide costituì un regno vassallo nel territorio della tribù meridionale di Giuda (II Samuele, II, IV) e riuscì infine a estendere il proprio dominio anche alle tribù settentrionali (II Samuele, V, 1-3), fondando in tal modo una dinastia che con alterne vicende sarebbe durata quattro secoli.
Il trasferimento della capitale a Gerusalemme fu particolarmente significativo per il successivo sviluppo di Israele e del giudaismo. Fino a quel momento la città era abitata da Cananei e non apparteneva quindi a nessuna tribù israelitica. Davide la conquistò e ne fece la propria capitale autonoma (II Samuele, V, 69). Il ruolo privilegiato di Gerusalemme fu ulteriormente rafforzato dal fatto che il figlio e successore di Davide, Salomone, vi eresse un Tempio (I Re, VI-VIII) che divenne sempre più il centro e il simbolo degli Israeliti sino alla sua definitiva distruzione ad opera dei Romani nel 70 d.C.Dopo la morte di Salomone (927-926 a.C.) si costituì a nord un nuovo regno che prese il nome di Israele (I Re, XII), mentre la parte meridionale del regno di Salomone rimase sotto la dinastia di Davide con il nome della tribù originaria, Giuda, e con Gerusalemme come capitale. Nei secoli successivi i due staterelli di Israele e di Giuda vennero coinvolti nelle alterne vicende della lotta per il dominio tra le grandi potenze dell'antico Oriente. Nel 723-722 il regno di Israele fu annientato dagli Assiri e la maggioranza della popolazione venne deportata in altre regioni dell'impero, dove se ne perdono le tracce (II Re, XVII). Il regno di Giuda rimase sotto il dominio assiro finché non venne coinvolto nella lotta tra il declinante impero neoassiro e quello neobabilonese in ascesa, passando sotto l'egemonia di quest'ultimo. Nel 598-597 e nel 587-586 Gerusalemme fu conquistata dai Babilonesi, e il Tempio venne distrutto una seconda volta (II Re, XXIV ss.). Parte della popolazione fu deportata in Babilonia dove - diversamente dagli abitanti del regno settentrionale deportati dagli Assiri - si insediò in comunità a sé stanti. Gli Ebrei poterono quindi continuare la propria vita autonoma, come attesta tra l'altro il permanere di proprie forme di organizzazione con gli 'anziani', i sacerdoti, i profeti, ecc. (Geremia, XXIX, 1; Ezechiele, XIV, 1; XX, 1).
L''esilio babilonese' costituì una profonda cesura nella storia ebraica. In primo luogo, con la scomparsa del regno di Giuda finì il dominio della casa di Davide durato quattro secoli e con esso, per un lungo periodo, l'autonomia politica del popolo ebraico. Gli Ebrei ebbero da allora in poi una duplice forma di esistenza: nella terra di Israele o di Giuda e nella diaspora. Una parte degli Ebrei deportati in Babilonia vi rimase anche quando vi fu la possibilità di far ritorno in Giudea (a partire dal 538), e alcuni di essi raggiunsero un certo benessere economico. Esdra e Neemia, le due figure di particolare rilievo per la storia della Giudea dopo l'esilio (cfr. i Libri biblici che portano il loro nome), erano alti funzionari dell'amministrazione persiana; la loro attività a Gerusalemme mette in luce lo stretto rapporto che sussisteva tra la madrepatria e la diaspora. Oltre che in Babilonia, alcuni Ebrei si stabilirono in Egitto, specie dopo la fuga dai Babilonesi (II Re, XXV, XXVI); nell'epoca ellenistica la diaspora egiziana acquisterà grande importanza.
L'epoca dell'esilio babilonese segnò l'inizio di una raccolta e di un consolidamento, continuato nelle età successive, delle tradizioni religiose israelitiche. Si può ipotizzare che determinati elementi costitutivi della religione giudaica (ad esempio la circoncisione e l'osservanza dello shabbāt) assumessero in Babilonia la funzione di caratteri distintivi nei confronti della popolazione eterodossa, acquistando perciò particolare importanza. Gli studi più recenti inoltre hanno accreditato l'ipotesi secondo la quale la maggior parte delle Scritture bibliche avrebbero ricevuto la loro forma definitiva solo nell'epoca dell'esilio o in quella successiva. I testi pertanto rispecchiano per molti versi la visione degli eventi propria del giudaismo quale si andò formando nel periodo post-esilico.
Un aspetto particolarmente significativo del problema è la nascita del peculiare monoteismo giudaico-israelitico, che non trova corrispettivi nella storia delle religioni. Le sue origini sono oscure, e non si sa nemmeno quando e in quali condizioni esso si sia sviluppato e affermato. Il Deuteronomio, redatto probabilmente poco prima dell'esilio (secondo II Re, XXII s. nel 622 circa), contiene il credo centrale della religione ebraica, lo Shĕma': "Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio; il Signore è uno" (Deuteronomio, VI, 4). Non è chiaro in che misura questa professione di fede fosse accettata da tutti gli Israeliti all'epoca in cui venne formulata, ma è certo che dopo la restaurazione post-esilica della religione israelitica non vennero più prese in considerazione alternative a essa. L'affermarsi di questo credo ha influenzato per molti versi la rappresentazione della storia precedente di Israele nei testi biblici. In particolare, la netta e radicale distinzione degli Israeliti dagli altri popoli, primi fra tutti i Cananei, rispecchia la lotta per preservare la purezza della religione giudaica post-esilica. Si trattava nello stesso tempo di una lotta per preservare l'identità del popolo ebraico, tanto più che nella terra di Giuda durante i decenni dell'esilio si erano insediati diversi gruppi non giudaici che coesistevano con la popolazione ebraica ridotta a una minoranza (cfr. Esdra, IX ss.; Neemia, XIII, 23 s.).
Un momento fondamentale nella restaurazione post-esilica fu la ricostruzione del Tempio a Gerusalemme, autorizzata dal re persiano Ciro nel 538 a.C. (Esdra, VI, 1-5). Ancor più che in passato il Tempio divenne il centro della comunità giudaica, che aveva ormai dimensioni piuttosto ridotte e non godeva di alcuna autonomia politica sotto il dominio persiano. Le testimonianze sul culto relative al Tempio - soprattutto nell'Esodo e nel Levitico - rispecchiano essenzialmente la situazione del periodo post-esilico. Ciò vale anche per la struttura gerarchica del sacerdozio e per le sue rigide norme di purità rituale.Sappiamo poco sull'organizzazione politica della comunità ebraica nell'epoca della dominazione persiana. La Giudea era una provincia o parte di una provincia persiana. Negli anni 445-444/433-432 Neemia ricoprì una carica a Gerusalemme, probabilmente quella di governatore della provincia di Giuda, resasi indipendente dalla Samaria; si tratta comunque di un fatto incerto. Nulla sappiamo delle strutture interne, e non è chiaro in che misura si fossero già sviluppate le strutture proprie dell'epoca ellenistica. Si parla spesso per il periodo della dominazione persiana di uno 'Stato del Tempio' o di una 'comunità del Tempio'. Di fatto il Tempio costituiva il centro della piccola comunità, ma non è chiaro se e in che misura i sacerdoti svolgessero in quest'epoca altre funzioni oltre a quelle cultuali.
La tradizione fa risalire le origini del culto del Tempio a Mosè sul monte Sinai. Nell'Esodo tali origini vengono strettamente collegate ai comandamenti etici del Decalogo e alla raccolta di leggi a esso associate (Esodo, XIX ss.). Emerge qui il secondo fondamento del giudaismo accanto al culto del Tempio, la Tōrāh. Anche nel Deuteronomio la professione di fede nell'unico Dio è inserita nell'ambito dei comandamenti etici: la liturgia e la Tōrāh, ossia l'osservanza delle prescrizioni etiche e di quelle cultuali, nel giudaismo sono strettamente connesse. Per coltivare e preservare queste tradizioni religiose nacque una istituzione specifica, la sinagoga. Assolutamente incerta è la sua epoca d'origine; alcuni studiosi indicano l'età dell'esilio babilonese, altri ritengono più probabili epoche successive. È certo comunque che negli ultimi secoli precristiani esistevano numerose sinagoghe, sia in Giudea che nella diaspora.
La nascita della sinagoga presuppone gli inizi della costituzione di un canone delle Sacre Scritture, la cui lettura è al centro del culto sinagogale. Il termine Tōrāh designava non solo la raccolta delle Leggi, ma anche le Scritture che le contengono, in particolare i cinque libri del Pentateuco. La lettura della Tōrāh e di alcune sezioni dei Libri dei Profeti costituisce il momento centrale del culto sinagogale. Un'altra importante caratteristica della sinagoga è l'assenza di una gerarchia dei ministri del culto: essa è principalmente il luogo di riunione della comunità locale. Secondo la tradizione, alla funzione religiosa devono assistere dieci maschi adulti, che formano il minjan e officiano collettivamente il servizio liturgico senza distinzioni gerarchiche.Con la nascita del canone delle Sacre Scritture (la Tōrāh) e della sinagoga come luogo di celebrazione del culto e di lettura delle Scritture cominciano a svilupparsi gli elementi fondamentali del giudaismo dell'epoca successiva. In particolare, si creano i presupposti per la sopravvivenza del giudaismo dopo la distruzione del Tempio e la perdita dell'autonomia nazionale nonché del territorio come spazio di vita comune.
L'epoca ellenistica, che inizia con le conquiste di Alessandro Magno nel 333-331 a.C., rappresenta una fase di transizione per la storia del popolo ebraico. Le Scritture bibliche sono sostanzialmente concluse e raccolte (solo l'Ecclesiaste mostra una chiara influenza della filosofia greca); l'istituzione della sinagoga si sviluppa e si consolida; il Tempio conserva come in passato un'importanza centrale, e la carica di sommo sacerdote, di cui in precedenza esistono solo accenni, acquista ora contorni più definiti. Talvolta a questa carica erano associate anche funzioni amministrative e di guida dell'intera comunità ebraica, la quale tuttavia non aveva alcuna autonomia politica ma era assoggettata al dominio dei re tolemaici e in seguito seleucidi. Accanto al sommo sacerdote e in parte con funzioni analoghe vi era un Consiglio degli anziani chiamato in greco γεϱουσία, che a quanto sembra si trasformerà in seguito nel Sinedrio (Sanhedrin).
Una caratteristica importante di quest'epoca fu l'estensione e l'intensificazione della diaspora. Il geografo greco Strabone affermava nel I secolo a.C. che era difficile trovare un luogo della terra in cui non vi fossero Ebrei. Soprattutto in Egitto e in Siria si costituì una numerosa comunità ebraica fortemente ellenizzata, mentre la diaspora babilonese rimase estranea all'influsso ellenistico. Espressione significativa dell'esistenza di un'autonoma vita culturale della diaspora di lingua greca ad Alessandria fu la traduzione in greco del Pentateuco all'inizio del III secolo a.C., cui seguì ben presto la traduzione degli altri Libri (il titolo di questa traduzione, Septuaginta, risale alla leggenda della lettera di Aristea, secondo cui la traduzione fu effettuata da settantadue dottori ebrei). Ciò dimostra sia il legame degli Ebrei della diaspora con la lingua e la cultura del paese di immigrazione, sia il loro senso di appartenenza alla religione giudaica.
Una delle figure più significative della diaspora ellenistica fu il filosofo Filone di Alessandria (circa 20 a.C.-50 d.C.), che reinterpretò alcuni elementi fondamentali della tradizione ebraica nella lingua e nello spirito della filosofia greca. I suoi scritti ebbero una notevole influenza sui Padri della Chiesa, ma non trovarono alcuna eco nella tradizione giudaica. Il nome di Filone viene menzionato per la prima volta in una fonte ebraica solo nel XVI secolo. Questo fatto va visto come la conseguenza di una precisa volontà di tener separata la tradizione culturale ebraica autoctona dal mondo ellenistico.
Anche nella Giudea la cultura ellenistica trovò molti seguaci, soprattutto tra il ceto superiore urbano. Sotto il re seleucide Antioco Epifane (175-164 a.C.) il sommo sacerdote Giasone cominciò la trasformazione di Gerusalemme in una città greca, alla quale venne dato il nome di Antiochia e in cui venne anche costruito un gymnasium. I mutamenti della situazione religiosa e culturale che ne derivarono sono attestati da un passo di II Maccabei (IV, 14), in cui si legge che i sacerdoti trascuravano i loro doveri al Tempio per prender parte alle gare del gymnasium. Nel 167, infine, Antioco proibì l'osservanza del culto ebraico e autorizzò la profanazione del Tempio, che venne dedicato a Zeus. In questa circostanza però si dimostrò che la religione ebraica aveva profonde radici nella maggioranza della popolazione, la quale iniziò un'appassionata resistenza guidata dai figli del sacerdote Mattatia della famiglia degli Asmonei. Dopo lunghe lotte sotto il comando di Giuda detto il Maccabeo, gli Ebrei riuscirono infine, nel 164, a riconquistare Gerusalemme e a ripristinare il culto del Tempio. Per commemorare questo evento venne istituita la festa annuale di Ḥanukkāh.La rivolta dei Maccabei non significò solo la preservazione della religione giudaica dalle infiltrazioni pagane, ma sia pure per breve tempo ridiede agli Ebrei l'autonomia politica dopo oltre quattro secoli. Nel 152 i Seleucidi nominarono Gionata Asmoneo sommo sacerdote e infine, sotto il fratello e successore di questi, Simone, riconobbero l'indipendenza della Giudea. Nel 140 Simone venne nominato etnarca (ossia principe), sommo sacerdote e comandante supremo dei Giudei, e tale carica venne dichiarata ereditaria (I Maccabei, XIV, 41 ss.). Gli Asmonei si ritrovarono quindi detentori delle più alte cariche religiose, civili e militari, e in seguito assunsero anche il titolo di re. Considerando la storia del giudaismo nel suo complesso, tuttavia, questa fase di autonomia politica durata solo ottant'anni costituisce un semplice episodio.
Per il giudaismo l'epoca romana rappresentò sotto molti aspetti una fine e un nuovo inizio. In primo luogo l'ascesa dei Romani nel 63 a.C. segnò definitivamente la fine dell'indipendenza politica della comunità ebraica. Gli Asmonei persero il titolo di re e infine vennero completamente esautorati. Un certo Antipatro, originario della provincia meridionale di Idumea (forzosamente giudaicizzata nel II secolo a.C. sotto Giovanni Ircano), riuscì a guadagnare il favore dei Romani e a ottenere onori e uffici per sé e per i suoi figli: uno di questi era Erode (73 a.C.-4 d.C.), che venne nominato re del regno vassallo di Giudea. Erode instaurò un regime dispotico, e riuscì a conservare il potere mandando a morte numerosi Ebrei influenti nonché alcuni membri della sua stessa famiglia. Della grandiosa attività edilizia da lui promossa restano numerose e imponenti vestigia. In particolare, Erode ampliò e ristrutturò il Tempio di Gerusalemme destinando a questo ambizioso progetto un'ampia area in cui oggi sorgono due santuari islamici - la Cupola della Roccia e la Moschea al-Aqṣa - mentre le mura occidentali, dopo la distruzione del Tempio ad opera dei Romani nel 70 d.C., sono diventate un luogo di preghiera degli Ebrei (il cosiddetto Muro del pianto).
La comunità ebraica era amministrata all'epoca dal Sinedrio, un'assemblea composta da 71 membri e presieduta dal sommo sacerdote. I membri del Sinedrio provenivano da diversi gruppi: soprattutto sacerdoti (spesso Sadducei), 'scribi' (in prevalenza Farisei) e 'anziani', ossia esponenti dei notabili della comunità giudaica. Il Sinedrio era l'organo di rappresentanza politica del popolo ebraico nel regno di Giudea e in tutto l'Impero romano, e fungeva anche da tribunale supremo. Esso era investito inoltre di poteri decisionali in merito a questioni religiose di rilevanza generale.
Cominciò in questo periodo una più netta differenziazione all'interno del giudaismo - tendenza che si era già manifestata nel periodo degli Asmonei. Le fonti indicano l'esistenza di correnti alquanto diversificate. I due gruppi che vengono spesso menzionati insieme sono i Farisei e i Sadducei. Questi ultimi costituivano un partito sacerdotale aristocratico e conservatore, il cui orientamento teologico resta peraltro poco chiaro. I Farisei erano rappresentati invece da uomini di dottrina laici, i cosiddetti 'scribi', che propugnavano la centralità della Tōrāh - specialmente delle sue norme di purità rituale; ciò avrebbe avuto un ruolo significativo nello sviluppo successivo del giudaismo. Un altro gruppo importante era quello degli Esseni, che gli studiosi odierni sono concordi nell'identificare con la setta di Qumrān, della quale a partire dal 1948 sono stati rinvenuti importanti manoscritti. Gli Esseni si tenevano separati dalla maggioranza degli Ebrei di Gerusalemme e non prendevano parte quindi al culto del Tempio praticato nella città; essi seguivano norme di purità rituale ancora più rigide, legate a una intensa attesa escatologica. Elementi analoghi caratterizzavano altri movimenti apocalittici di orientamento escatologico, meno chiaramente individuabili come gruppi ma dei quali ci sono giunti numerosi scritti. Uno dei più antichi, il Libro di Daniele, venne accolto nel canone biblico. Anche il nascente cristianesimo, infine, va collocato tra i movimenti messianico-apocalittici del giudaismo. Alcuni di questi gruppi, in particolare gli Esseni e i seguaci di Gesù, dal punto di vista della sociologia delle religioni possono essere definiti come sette che si isolavano dal resto della comunità nella convinzione di rappresentare l'unico, 'vero' popolo di Israele.
Nel complesso, quindi, in quest'epoca si delineano nel giudaismo nuovi sviluppi, in cui la Tōrāh assume il ruolo di punto di riferimento e di criterio normativo. Le strutture politiche perdono importanza, mentre il rapporto con la Tōrāh, soprattutto la sua interpretazione e la sua integrazione, si colloca al centro del pensiero e della vita giudaica. Ciò ebbe un'importanza decisiva per la storia successiva del giudaismo.Nel 66 d.C. scoppiò a Gerusalemme una rivolta contro i Romani, guidata dal partito militante ebraico degli Zeloti ('zelanti'). Dopo alterne vicende, la lotta si concluse nel 70 d.C. con la conquista di Gerusalemme e la distruzione del Tempio ad opera dei Romani. Terminava così la storia del Tempio di Gerusalemme, durata ininterrottamente oltre un millennio, se si eccettua il periodo dell'esilio babilonese. La roccaforte di Massada sul Mar Morto rimase nelle mani degli Zeloti sino al 73 o 74. In seguito vi furono numerose rivolte contro i Romani - ad esempio nella diaspora, durante la campagna contro i Parti dell'imperatore Traiano (115-117), e poi nella stessa Giudea (132-135) sotto la guida di Bar Kōkhĕbā', che i suoi seguaci identificavano con il Messia. Anche queste rivolte, dopo i successi iniziali, vennero represse nel sangue.Queste sconfitte militari ebbero profonde conseguenze. Dopo la rivolta di Bar Kōkhĕbā' Gerusalemme venne trasformata in una città romana con il nome di Elia Capitolina, e ne fu vietato l'accesso agli Ebrei. La provincia non fu più chiamata Giudea ma assunse il nome di Siria Palestina, originariamente attribuito alla regione costiera abitata dai Filistei. I Romani cancellarono così volutamente il nome dei Giudei dalle carte geografiche.
Per il giudaismo queste vicende significarono soprattutto la perdita del Tempio come centro della vita pubblica e religiosa. Ciò pose fine al potere del sommo sacerdote e alla posizione privilegiata della classe sacerdotale. Tra i gruppi religiosi solo i Farisei riuscirono a conservare una certa continuità. Yōḥānān ben Zakkai, secondo la tradizione fuggito avventurosamente da Gerusalemme assediata, fondò nella piccola città mediterranea di Iabne (Iamnia) una scuola (bēt ha-midrāsh) e ricostituì il Sinedrio. Questo può essere considerato l'atto di nascita del giudaismo rabbinico (rabbi era il titolo dato ai dottori esperti delle Scritture) e quindi del giudaismo nell'accezione ristretta del termine. L'interpretazione della Tōrāh e la sua applicazione a tutti gli ambiti della vita diventano ora il centro focale del giudaismo.
Il concetto fondamentale della interpretazione rabbinica della Tōrāh è quello di 'hălākhāh'. Il termine, derivato dal verbo halakh, 'andare', 'dirigersi', indica la retta via che l'uomo deve seguire al cospetto di Dio. Il fondamento dell'hălākhāh è la Tōrāh data a Mosè sul monte Sinai. Il termine Tōrāh significa 'direttiva', 'insegnamento'; tradurlo con 'legge', come si fa spesso per influsso del greco 'nomos', è troppo restrittivo e fuorviante, soprattutto se si intende il termine in una accezione cristiana. Un elemento essenziale della dottrina rabbinica è la distinzione tra la 'Tōrāh scritta' data nella Bibbia e la 'Tōrāh orale', ossia l'interpretazione e l'integrazione del canone biblico ad opera dei rabbini. Anche la Tōrāh orale comunque venne via via messa per iscritto e trovò infine espressione codificata nella compilazione della Mishnāh di Yĕhūdāh ha-Nāsī' (200 circa d.C.), detto semplicemente Rabbi. I dottori dell'epoca della Mishnāh prendono il nome di 'Tannaiti', dall'aramaico tannā (ebraico shanāh) che significa 'ripetere', 'imparare'.
La Mishnāh costituisce da allora il nucleo essenziale della Tōrāh orale, che nei secoli successivi venne costantemente sviluppata e integrata. Si verificò in questa circostanza uno spostamento significativo del centro di gravità all'interno del popolo ebraico. La diaspora ellenistica perse rapidamente importanza dopo le sanguinose lotte contro i Romani dell'epoca di Traiano, e il nuovo centro della vita giudaica divenne la Babilonia. A partire dalla rivolta di Bar Kōkhēbā' la diaspora babilonese entrò in stretto contatto con la tradizione esegetica rabbinica, poiché a seguito delle persecuzioni romane molti rabbini si erano rifugiati in Babilonia, dove continuarono il loro insegnamento. Si sviluppò quindi un intenso, fecondo rapporto a seguito del quale il centro giudaico babilonese superò in importanza quello palestinese.
Anche per quanto riguarda le strutture politiche e la guida della comunità ebraica si ebbe una cēsistenza a volte improntata alla rivalità dei due centri di Palestina e Babilonia. In Palestina il capo del Sinedrio e quindi della comunità ebraica ebbe il titolo di nāsī' (termine biblico che significa 'principe'), tradotto con 'patriarca' nelle fonti romane e cristiane. Tale carica cominciò ad acquistare rilievo con Yēhūdāh ha-Nāsī', che era considerato alla stregua di un re dai contemporanei e per il quale il titolo di nāsī' divenne parte integrante del nome. In Babilonia il capo della comunità ebraica era invece l'esilarca (in aramaico Rēsh gālūtā), carica di cui si hanno testimonianze storiche a partire dal II secolo. A differenza del nāsī' l'esilarca non era un rabbi, ma per un certo periodo ebbe ampi poteri politici.
L'esistenza dei due centri di Palestina e di Babilonia ebbe come principale conseguenza un duplice sviluppo della Tōrāh orale. Sia in Palestina che in Babilonia erano allora attivi i dottori di una seconda generazione, i cosiddetti Amorei (dall'ebraico 'mar, 'dire'), che commentarono e integrarono in ampi trattati la Mishnāh tannaitica. Questi testi - in cui la materia halakhica è trattata con il metodo della discussione e dei pareri con l'intento di pervenire a pronunzie definitive su questioni di ordine giuridico-religioso - vennero infine raccolti nella Gēmārāh (dall'ebraico gamar, 'portare a compimento', 'apprendere'). Questa imponente raccolta comprende oltre ai commentari halakhici anche testi non giuridici, che nel loro insieme costituiscono l'Haggādāh' (dall'ebraico higgīd, 'esporre'; nella forma aramaica aggadāh o agadā). Assieme ai libri della Mishnāh, la Gēmārāh costituisce il Talmūd (dall'ebraico lamād, 'studiare', 'insegnare'). Vennero compilati però due Talmūd, quello palestinese (detto anche 'gerosolimitano') e quello babilonese. Fu quest'ultimo ad avere maggiore diffusione e a essere riconosciuto nella tradizione ebraica come 'il Talmūd' per eccellenza.L'epoca degli Amorei terminò verso il 500 d.C. A essa fece seguito l'epoca dei Saborei (aramaico sāvōrā'ē, ebraico savoraīm, 'coloro che hanno un'opinione'), un'ulteriore generazione di dottori che sistematizzò il Talmūd babilonese dandone la redazione definitiva e integrandolo con proprie interpretazioni. L'epoca rabbinica si concluse nel VII-XI secolo con i Gē'ōnīm (dall'ebraico gā'ōn, 'eccellente'), capi delle grandi accademie di Sūrā e Pŭmbēdīta, che divennero gli esegeti qualificati del patrimonio talmudico stabilendone le interpretazioni esatte e imponendolo come fondamento giuridico-religioso di tutti gli Ebrei.
La redazione definitiva del Talmūd e l'attribuzione a esso di un valore vincolante per tutto il giudaismo costituiscono una cesura decisiva nella storia del popolo ebraico. Da allora gli Ebrei di tutto il mondo, quali che fossero le condizioni sociali in cui si trovavano a vivere, erano uniti dal vincolo comune della hălākhāh, codificata nel Talmūd. La Tōrāh scritta nella Bibbia continuava a costituire il fondamento, ma era ora estesamente interpretata e sviluppata dalla Tōrāh orale: entrambe nel loro insieme costituivano la Tōrāh vincolante per l'intero popolo ebraico.
Ciò non significa peraltro che l'attività esegetica fosse giunta a conclusione; molte questioni relative alla fede e soprattutto alla condotta di vita dovevano ancora essere decise e ricondotte a un fondamento scritturale. Si è affermato spesso che a differenza di altre religioni il giudaismo non si fonda su una 'ortodossia', bensì su una 'ortoprassia', ossia sulle regole della giusta condotta di vita. Ciò coglie senza dubbio un elemento essenziale del giudaismo. L'esigenza di trovare soluzioni precise e concrete a numerosi quesiti della vita pratica fece sì che già all'epoca dei Gĕ'ōnīm si sviluppasse una specifica letteratura di 'responsi', ossia raccolte di pareri emessi dalle autorità delle accademie o delle scuole su materie controverse. Questa tradizione si è conservata sino al presente; nell'epoca più recente, in particolare, vengono trattati anche i problemi sorti in seguito alle persecuzioni ebraiche in Europa, all'Olocausto e alla costituzione dello Stato di Israele, nonché i problemi posti dagli sviluppi della tecnologia, della medicina e della biologia moderne.
Ben presto nacquero anche numerosi commentari dei testi talmudici. Il più famoso è quello di Rashī (Shelōmōh ben Yiṣhāq, 1040-1105), che a partire dalla prima edizione a stampa del Talmūd apparsa a Venezia nel 1520-1523 venne incluso in tutte le edizioni successive contribuendo a determinare la struttura tradizionale del Talmūd, con il testo vero e proprio al centro e i commentari ai margini. Non mancarono inoltre gli sforzi per rendere più agevole la consultazione di quest'opera - che per la sua vastità viene spesso definita 'il mare del Talmūd' - sistematizzando e ordinando le norme halakhiche. Assai importante in questo senso fu il Mishnēh Tōrāh di Maimonide (Mōsheh ben Maimōn, 1135-1204), un commentario sistematico della Mishnāh le cui leggi vengono ricomprese in un edificio logico di stampo aristotelico. Diffusissima e tuttora apprezzata è la riduzione di una compilazione di leggi talmudiche - più volte rielaborata a partire dall'XI secolo - contenuta nel Shulḥān 'ārūkh ('mensa apparecchiata' o 'tavola imbandita') di Yōsēf Qārō (Caro o Karo, 1488-1575), terminata nel 1554 a Ṣafed in Galilea; quest'opera venne rielaborata per l'area ashkenazita (ossia tedesca e polacca) da Mōsheh Isserles (1520-1572) nel Mappat ha-Shulḥān ('tovaglia'). Nel XIX secolo Shelōmōh Ganzfried compilò un digesto dal titolo Kizzur Shulḥān 'ārūkh, tutt'oggi assai popolare.
Oltre alla redazione e all'integrazione del Talmūd, un altro ramo importante della tradizione testuale giudaica è rappresentato dall'esegesi della fonte biblica. Mentre i testi talmudici si sviluppano intorno a gruppi di temi e di problemi di cui si cercano le risposte nelle Scritture, i commentari biblici seguono il testo della Bibbia parola per parola e verso per verso. Gli inizi di tale tradizione esegetica si possono far risalire alle traduzioni del testo ebraico in aramaico, i Targūmīm (alla lettera 'traduzioni'). All'origine dei Targūmīm vi è la lettura della Bibbia nelle sinagoghe, per la quale si rendeva necessaria una traduzione in quanto, dopo l'esilio babilonese, alla madrelingua ebraica si era sostituito sempre più l'aramaico. Ogni traduzione contiene inevitabilmente una componente interpretativa, e di conseguenza i Targūmīm costituiscono una fonte importante per la prima esegesi giudaica della Bibbia. In seguito vennero redatti veri e propri commentari, i cosiddetti midrāshīm (plurale di midrāsh che significa 'ricerca, indagine'), soprattutto del Pentateuco e delle megillōt (letteralmente 'rotoli di pergamena'), ossia i libri della Bibbia che venivano letti in occasione delle festività solenni. I commentari più importanti risalgono all'epoca tannaitica e amoraica, e sono quindi assai importanti per ricostruire lo sviluppo del giudaismo. A differenza del Talmūd, tuttavia, questi testi non hanno valore canonico.La centralità del Talmūd per il giudaismo trova infine una controparte nel fatto che l'unica setta ebraica di rilievo che ha conservato una certa stabilità nel corso dei secoli - la setta dei Caraiti (Karaiti o Qaraiti) - si fonda sul rifiuto del Talmūd.Tale setta si costituì nell'VIII-IX secolo nell'area islamica riunendo vari gruppi che si opponevano all'interpretazione della Bibbia fornita dai rabbini e che consideravano il testo biblico stesso l'unica autorità legittima. I Caraiti tuttavia svilupparono dal canto loro norme di condotta religiosa a volte ancora più rigide di quelle talmudiche. Nel corso dei secoli la setta caraitica si propagò da Bisanzio in Europa, soprattutto in Russia, e attualmente è presente anche in Israele. Sebbene i suoi membri non siano numerosi, tale setta ha dato costantemente luogo a conflitti e a reazioni, e merita di essere menzionata in questo contesto come elemento di opposizione caratteristico della storia della religione ebraica.
Nel VII secolo la situazione del popolo ebraico subì un nuovo, radicale mutamento a seguito della conquista araba di gran parte del Vicino e Medio Oriente, conquista che si estese poi anche a parte dell'Europa. In poco più di un secolo quasi tutto il territorio in cui vivevano comunità ebraiche divenne parte del mondo arabo-islamico. Per gli Ebrei ciò comportò in un primo tempo un miglioramento della loro posizione sociale, in quanto gli islamici ebbero un atteggiamento sostanzialmente più tollerante di quello dei cristiani, sotto il cui dominio nei secoli precedenti le comunità giudaiche avevano subito numerose discriminazioni e persecuzioni - soprattutto a partire dal IV secolo, allorché il cristianesimo era divenuto religione di Stato dell'Impero romano. L'Islam considerava il giudaismo, al pari del cristianesimo, una 'religione delle Scritture' e concesse ai suoi seguaci alcuni privilegi, sicché gli Ebrei godettero nel complesso di una certa libertà.
Una conseguenza di questa mutata situazione fu l'intensificazione della diaspora ebraica verso Occidente, soprattutto verso la penisola iberica. Nei secoli successivi gli Ebrei svilupparono qui una cultura autonoma e riuscirono infine a soppiantare nella guida spirituale il giudaismo babilonese. Uno dei presupposti di questa evoluzione fu l'adozione della lingua araba, spesso in coesistenza con quella ebraica, che consentì agli Ebrei di entrare in contatto diretto e di confrontarsi con la cultura islamica. Ciò trovò la sua espressione più significativa in un nuovo interesse per la filosofia, sino ad allora praticamente assente nella tradizione ebraica (con l'eccezione di Filone, che però non venne recepito nel giudaismo). Gli inizi di questi interessi filosofici si ebbero già in Babilonia, dove Sa'adyāh ben Yōsēf, gā'ōn di Sūrā (882-942), sulle orme della filosofia araba dei Mu'taziliti (Kalām), i quali difendevano la religione contro la scepsi e la critica radicale servendosi di argomenti filosofici, discusse in estesi trattati i temi dell'unità e della giustizia di Dio.
Una figura significativa della filosofia giudaica fu in Spagna Shĕlōmōh ibn Gābīrol (o Gebīrol, circa 1020-1058), il quale elaborò una dottrina di stampo neoplatonico in cui Dio è concepito come sostanza prima da cui promanarono prima la volontà divina (logos) e poi in successione gerarchica gli altri ambiti della materia. Gābīrol si distinse anche come poeta, al pari di Yĕhudāh ha-Lēwī (o Ha-levī, 1075-1141), autore di un'opera filosofica nota come ha-Kūzarī. Più vicino alla tradizione giudaica, in particolare a quella biblica, ha-Lēwī cerca di dimostrare la superiorità della religione ebraica sulla base della peculiarità ed eccezionalità della rivelazione divina concessa al popolo di Israele. In questo contesto va infine menzionato Maimonide, il quale oltre a essere un importante interprete della Bibbia fu anche il più grande filosofo ebreo del Medioevo, la cui influenza si estese anche all'età moderna. Egli introdusse nella filosofia ebraica l'aristotelismo - affermatosi nella cultura araba già dal X secolo - in un intenso e fecondo confronto con la tradizione biblico-talmudica. La sua opera principale, la Guida dei perplessi, esercitò una notevole influenza sui contemporanei, contribuendo inoltre a una riunificazione tra coscienza religiosa e coscienza filosofica.
La situazione degli Ebrei in Spagna peggiorò con l'avanzata cristiana nel periodo della Reconquista. Nel 1391 cominciarono le grandi persecuzioni che indussero numerosi Ebrei a convertirsi. Molti di questi convertiti però continuarono segretamente a considerarsi Ebrei e a professare la loro religione; essi vennero chiamati conversos o spregiativamente marrani ('maiali'), ma a volte (ad esempio da Maimonide) erano riconosciuti come Ebrei a pieno titolo. L'Inquisizione segnò infine la catastrofe per gli ebrei spagnoli, allorché Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona decretarono nel 1492 la loro espulsione dal regno unificato di Castiglia e d'Aragona; nel 1497 seguì la cacciata degli Ebrei dal Portogallo. Finiva così drammaticamente una delle epoche più significative della storia ebraica in terra europea. La cultura e la tradizione religiosa del giudaismo spagnolo tuttavia sopravvivono non solo nella letteratura dei grandi poeti e filosofi di quel secolo, ma anche nella cultura religiosa dei sefardim (dall'ebraico Sĕfarād, 'Spagna') -come vennero chiamati da allora i discendenti degli ebrei spagnoli e portoghesi. Essi costituiscono uno dei due principali gruppi del giudaismo dell'epoca medievale e moderna; l'altro è quello degli ashkenazim (dall'ebraico Ashkēnaz, 'Germania'), costituito dagli Ebrei 'tedeschi' ossia dell'Europa centrorientale. La differenza fra i due gruppi ancora oggi si esprime soprattutto nella liturgia e in alcuni dettagli halakhici, nonché nella pronuncia e in determinate espressioni della lingua ebraica.
L'insediamento di Ebrei nell'Europa centrale iniziò sin dall'epoca delle conquiste romane. Nell'Impero carolingio sia in Germania che in Francia sono presenti comunità giudaiche, il cui orientamento religioso è improntato in un primo tempo alle tradizioni dominanti di Palestina e Babilonia, sviluppate poi in modo autonomo. È significativo in proposito il fatto che Rashī, il primo importante commentatore della Bibbia e del Talmūd, fosse attivo in Francia. Nel 1096 gli Ebrei subirono le prime grandi persecuzioni da parte dei crociati cristiani, soprattutto nelle città renane. In questa circostanza riacquistò importanza la tradizione del martirio ebraico (Qiddūsh hashĕm', 'santificazione del nome [di Dio]'), che aveva avuto un ruolo significativo già nelle lotte contro gli Ellenisti e i Romani.
Nell'area ashkenazita si svilupparono varie forme di misticismo, che diedero luogo a un movimento religioso autonomo. In Germania furono i ḥăsīdīm ashkenazim ('tedeschi devoti' o 'tedeschi pii') a riprendere alcuni elementi di misticismo che ricorrono già nella tradizione talmudica (ad esempio nel Sēfer yĕṣirāh, 'libro della creazione', risalente al periodo preislamico). Pressoché contemporaneamente si sviluppò nella Francia meridionale la qabbalāh (da qibbel, 'tradizione'), una corrente mistica in cui si ritrovavano elementi della filosofia neoplatonica di Yĕhudāh ha-Lēwī e di altri. Il Sēfer ha-Bāhir ('libro del fulgore' o 'libro della luce fulgente'), risalente al XII secolo, contiene nella sua rappresentazione della divinità anche elementi gnostici. Dalla Provenza la qabbalāh si diffuse in Spagna, dove acquistò grande influenza, soprattutto a Gerona, con Mōsheh ben Naḥmān (o Nachmanide, circa 1194-1270), il quale si distinse anche come esegeta della Bibbia e dell'hălākhāh. In Spagna in seguito vide la luce l'opera più importante della qabbalāh, il Sēfer ha-Zohār ('libro dello splendore', scritto tra il 1280 e il 1286 da Mōsheh ben Shēm Tōb de León), che costituisce una sintesi tra la qabbalāh di orientamento mistico di Gerona e l'indirizzo gnostico.
Dopo la cacciata degli Ebrei dalla Spagna nel 1492 i qabbalisti si diressero verso la Palestina e istituirono a Ṣafed un nuovo centro. Dopo Yōsēf Qārō, autore del Shulḥān 'Arūkh, la figura più significativa della qabbalāh divenne Isaak Luria (1534-1572), detto il 'leone', che le impresse un nuovo orientamento: il Dio onnipresente con la sua autolimitazione (ṣim-ṣum, 'ritiro'), ha lasciato spazio alla creazione. Dalla luce emanata da Dio si formò il 'prototipo' perfetto dell'uomo, dal quale promanarono poi le dieci sefīrōt (letteralmente 'numeri', qui nel significato di 'gradi'), ma i vasi che le dovevano contenere andarono in pezzi. La ricostituzione (tiqqūn, 'rigenerazione', 'ricostituzione') attraverso la raccolta e la riunificazione della luce dispersa deve essere attuata da Dio, ma gli uomini possono contribuirvi con l'osservanza della Tōrāh e con la preghiera. Il legame che viene qui istituito tra l'agire divino e l'agire umano costituisce un elemento essenziale degli sviluppi successivi della qabbalāh.
Alla qabbalāh lurianica si riallaccia il movimento messianico guidato da Shabbĕtāi Ṣĕvī (1626-1676), che suscitò grande fermento e scompiglio nel mondo ebraico. La comparsa del sedicente messia Shabbĕtāi Ṣĕvī a Smirne e a Costantinopoli fu ricollegata da ampi settori del giudaismo all'avvento del tiqqūn e salutata con grande entusiasmo. Anche dopo che Shabbĕtāi si convertì all'Islam il movimento del sabbatianesimo continuò a esistere ed era ancora influente nell'Europa orientale sino alla fine del XVIII secolo, allorché Jacob Frank (1726-1791) si proclamò la reincarnazione di Shabbĕtāi e fondò la setta dei Frankisti.
Nel frattempo il giudaismo ashkenazita si era propagato nell'Europa orientale, soprattutto a seguito delle costanti persecuzioni e diffamazioni cui in Germania erano sottoposti gli Ebrei (accusati di avvelenare i pozzi, di profanare le ostie e di commettere assassini rituali), persecuzioni culminate nei grandi massacri del periodo tra il 1298 e il 1348, particolarmente sanguinosi durante gli anni della grande pestilenza (1348-1350) di cui gli Ebrei furono ritenuti responsabili. Una delle conseguenze di questa migrazione verso Oriente fu la diffusione anche nell'area slava dell'yiddish, la lingua ebraica derivata dal tedesco. Nel giudaismo polacco che si andò allora sviluppando sopravvivevano tradizioni qabbalistiche che ricevettero nuovo impulso dal sabbatianesimo.
Verso la metà del XVIII secolo nacque nell'ambito del giudaismo ashkenazita un movimento del tutto nuovo: il ḥasidismo (dall'ebraico ḥăsīd, 'pio', 'devoto'), il cui iniziatore fu Isrā'ēl Ba'al Shēm-Tōb (abbreviato in Besht dalla sigla del nome, circa 1700-1760). Egli si richiamava alla qabbalāh lurianica, applicandola però interamente alla condotta di vita individuale. Si può addirittura parlare in proposito di un movimento di risveglio, in quanto l'elemento dell'entusiasmo religioso assumeva un ruolo di primo piano. Un'importanza centrale veniva data inoltre a determinati valori etici individuali, tanto che il ḥasidismo è stato definito "una qabbalāh trasformata in ethos" (Buber). L'attesa salvifica si accentrò sempre più intorno a figure carismatiche - gli ṣaddiqīm ('santi') - cui venivano attribuite virtù e poteri eccezionali. Il ḥasidismo suscitò però la violenta opposizione di un movimento di rigida osservanza talmudica, che divenne particolarmente attivo a partire dal 1772 in Lituania sotto la guida del gā'ōn Elia di Vilna, che scomunicò il ḥasidismo; gli avversari dei ḥăsīdīm (che presero il nome di mitnaggĕdīm, ossia 'oppositori') tentarono addirittura di mobilitare contro di essi il governo russo. Nonostante queste ostilità il ḥasidismo divenne un movimento di massa, che è riuscito a sopravvivere allo sterminio degli Ebrei ashkenaziti con l'Olocausto e continua a costituire uno degli elementi caratteristici del giudaismo moderno.
In un certo senso il Medioevo ebraico si protrae sino al XVIII secolo, perché sino ad allora nel giudaismo dominò esclusivamente la tradizione religiosa giudaica. A prescindere da alcuni precursori come Baruch Spinoza (1632-1677), che rimase però una figura isolata e controcorrente, fu solo con l'illuminismo ebraico, l'haskālāh, che gli Ebrei cominciarono a partecipare alla vita spirituale della realtà contemporanea. Il primo, significativo esponente della haskālāh fu Moses Mendelssohn (1729-1786). Educato nella tradizione ebraica, egli ricevette anche una formazione culturale universale - all'epoca eccezionale per un ebreo - ma a differenza di Spinoza non si allontanò dai principî fondamentali della religione ebraica. Mendelssohn divenne a Berlino il centro di un cerchia di intellettuali sia ebrei che non ebrei; quando però il teologo Johann Caspar Lavater lo invitò a esprimere le sue idee sulla verità del cristianesimo e del giudaismo, Mendelssohn si pronunciò nettamente a favore dei valori religiosi di quest'ultimo.
Con l'haskālāh si poneva in termini del tutto nuovi un problema fondamentale dell'identità ebraica. Nella misura in cui gli Ebrei cominciarono un avvicinamento se non una vera e propria assimilazione all'ambiente in cui vivevano sul piano culturale, scientifico e sociale, nacque il problema di determinare l'essenza specifica del giudaismo. Tale problema non si era mai posto prima in questi termini, in quanto gli Ebrei avevano sempre formato un gruppo isolato dal mondo circostante. Ora invece si moltiplicavano gli Ebrei che adottavano comportamenti e forme di vita propri della cultura non giudaica, pur restando Ebrei e quindi senza godere a pieno titolo dei diritti civili. Nasceva così il problema di definire i criteri dell'identità ebraica.
Si tratta di un problema complesso, che va affrontato sotto tre aspetti.
1. Educazione e formazione culturale. - Un elemento essenziale dell'haskālāh era l'acquisizione di una formazione culturale laica, che consentisse agli Ebrei di raggiungere gli stessi livelli dei loro contemporanei non ebrei dal punto di vista dello sviluppo individuale e della posizione sociale. Oltre che per molti aspetti dell'istruzione e della formazione culturale non giudaica, si sviluppò quindi un vivo interesse per le tradizioni giudaiche al di fuori della dottrina talmudica. Lo stesso Mendelssohn diede un contributo importante in questo senso curando la traduzione tedesca della Bibbia (in un primo tempo stampata in caratteri ebraici), di cui egli stesso tradusse il Pentateuco (1783) e altri libri, mentre altri portarono a compimento l'opera (osserviamo per inciso che fu Mendelssohn a tradurre YHWH con 'l'Eterno', denominazione che da allora è entrata nell'uso nell'ambito del giudaismo di lingua tedesca). La lingua tedesca avrebbe dovuto sostituire l'yiddish per facilitare l'adeguamento degli Ebrei alla realtà culturale contemporanea. L'adozione della lingua nazionale avvenne anche in Olanda e in Ungheria, mentre in Francia gli Ebrei avevano adottato da tempo la lingua francese.
Nello stesso tempo sia Mendelssohn che altri maskilim ('illuminati', 'seguaci dell'haskālāh') contribuirono a promuovere la lingua ebraica. Nel 1784 cominciò la pubblicazione, proseguita con qualche interruzione sino al 1811, del periodico in lingua ebraica "ha-Me'assēf" ("Il raccoglitore"), che stampava poesie, articoli di argomento scientifico ed esegetico, recensioni e altri contributi alla vita intellettuale ebraica, diventando così un simbolo del movimento dell'haskālāh. Vennero elaborati anche programmi educativi che cercavano di riunire i diversi elementi culturali, e nel 1778 fu fondata a Berlino la prima scuola ebraica moderna. Questi sforzi nel campo dell'istruzione vennero favoriti dall'Editto di tolleranza emanato da Giuseppe II d'Austria nel 1782, che prescriveva la frequenza di scuole regolari o equiparate per gli Ebrei e portò all'istituzione di numerose scuole in Boemia, Moravia e Ungheria. Vi fu tuttavia, soprattutto in Galizia, una forte reazione ortodossa. Nel XIX secolo l'haskālāh fu recepita e sviluppata anche in Russia.
2. Nuovo orientamento religioso. - Nell'ambito religioso si presentò l'esigenza di modernizzare la forma e i contenuti della liturgia. Nacque così un movimento di riforma che suscitò opposizioni intense, a volte violente, prima all'interno del giudaismo tedesco, poi anche in Inghilterra, in Ungheria, in Francia e infine negli Stati Uniti. In molte città vennero organizzati servizi liturgici ispirati ai nuovi criteri riformistici - il primo ad Amburgo, nel 1818, nella nuova sinagoga riformata che venne chiamata 'Tempio di Amburgo'. Fu redatto anche un nuovo libro di preghiere, la cui prima edizione (piuttosto moderata dal punto di vista delle innovazioni) nel 1848 segnò un acuirsi dei contrasti suscitati dal Tempio di Amburgo. Oltre all'introduzione di canti collettivi e dell'accompagnamento dell'organo secondo il modello protestante, le principali innovazioni riguardavano l'adozione della lingua tedesca nella liturgia, l'abbreviazione delle preghiere e la modifica di certe formule rituali, soprattutto quelle riferite all'attesa del Messia e alla ricostituzione nazionale del popolo di Israele, che non venivano più prese alla lettera. Un ruolo importante in questo movimento di riforma fu svolto da influenti esponenti della nuova scienza del giudaismo, primo fra tutti Abraham Geiger (1810-1874), il quale nella sua prospettiva di storico metteva in rilievo che il culto ebraico nella sua forma attuale era il risultato di un processo di evoluzione e costituiva pertanto uno sviluppo della sua essenza.Il giudaismo riformista si affermò come orientamento religioso autonomo e prese espressamente le distanze dal giudaismo tradizionale, per designare il quale entrò nell'uso il termine 'ortodossia'. Anche all'interno dell'ortodossia non mancarono i contrasti su determinati problemi attinenti al rapporto con la società moderna. Sotto la guida di Samson Raphael Hirsch (1808-1888) si costituì una nuova ortodossia che ammetteva alcune modifiche esteriori del culto, ma nonostante alcune tendenze separatistiche non abbandonò il terreno dell'autentica ortodossia.
Nel frattempo questi contrasti si erano riproposti anche in Nordamerica. A partire dalla metà del XIX secolo molti rabbini riformisti dell'Europa occidentale erano emigrati in America, sicché nel 1880 la maggior parte delle comunità ebraiche aderivano all'orientamento riformista. Già nel 1873 le comunità riformate si erano associate nella Union of American Hebrew Congregations, e nel 1875 era stato fondato a Cincinnati l'Hebrew Union College, il più antico e ancor oggi il più importante centro di perfezionamento per i rabbini riformati. Nel 1885 venne emanata la Pittsburgh Platform, con il valore di dichiarazione pubblica collettiva del movimento riformista, nella quale veniva formulato un radicale programma di riforma. La 'legislazione mosaica' veniva dichiarata superata e non più vincolante, e si affermava inoltre: "Noi non ci consideriamo più come nazione, bensì come comunità religiosa e quindi non intendiamo far ritorno in Palestina".
Negli Stati Uniti si formò peraltro anche un gruppo di antiriformisti, numericamente esiguo ma assai attivo. Verso la fine del XIX secolo i suoi membri videro un nuovo compito nell'assistenza ai numerosi immigrati dall'Europa orientale, che avevano un orientamento strettamente ortodosso e ai quali doveva essere consentito di inserirsi nella società americana e nello stesso tempo di conservare e di sviluppare la propria tradizione religiosa. Nel 1902 ciò diede impulso alla rinascita a New York del Jewish Theological Seminary of America, fondato nel 1887 ma allora in crisi. Come presidente fu eletto Solomon Schechter di Cambridge, il quale univa alla fama di insigne studioso (fu lo scopritore dei manoscritti della ghenizā del Cairo) un orientamento religioso profondamente ortodosso. Fu Schechter a coniare l'espressione "Giudaismo Conservatore" (con la 'c' maiuscola). Nel 1913 venne fondata la Organisation United Synagogue of America, una istituzione che comprendeva tutte le comunità che aderivano al Giudaismo Conservatore. La contrapposizione alle comunità riformate e alla loro organizzazione, la Union of American Hebrew Congregations, costituiva il motivo dominante di questo movimento; Schechter intendeva dimostrare che "non sussiste alcun contrasto tra la cultura moderna e l'antica fede".
In risposta al mondo in trasformazione dopo l'illuminismo, all'interno del giudaismo erano nate quindi nuove correnti che, soprattutto in Nordamerica, diedero vita a tre grandi gruppi, noti anche come 'denominazioni': gli ortodossi, i conservatori e i riformisti. A partire dagli anni venti si aggiunse un altro gruppo nato dal movimento dei conservatori: quello dei 'ricostruzionisti', fondato da Mordekhai Kaplan (1881-1983), che ne formulò il programma nel suo libro del 1934 dal titolo Judaism as a civilization. Tale movimento trovò seguito soprattutto tra gli intellettuali e fu particolarmente attivo nel campo pedagogico. Numerose critiche suscitò l'espressa rinuncia di Kaplan all'idea del popolo ebraico come popolo 'eletto'.
3. Assimilazione. - Particolarmente spinoso e gravido di conflitti si rivelò il problema del rapporto degli Ebrei con il mondo non ebraico. Dopo la Rivoluzione francese tale problema sembrava avviato a risolversi con l'emancipazione degli Ebrei proclamata via via dai paesi europei. Poiché però l'eguaglianza dei diritti era riconosciuta al singolo ebreo come individuo, si poneva una duplice questione: cosa distingue gli Ebrei dagli altri membri della società, e in che modo essi possono diventare eguali a questi ultimi? Sebbene non tutti ne fossero consapevoli, ciò sollevava però anche il problema dell'autorappresentazione della società cristiana europea.Il problema può essere esaminato sotto diversi aspetti. Se ci si chiede innanzitutto chi deve essere considerato ebreo, la risposta tradizionale (e anche quella halakhica) suona: chi è nato da madre ebrea; da questo punto di vista un ebreo resta sempre tale. Di conseguenza in questo contesto la seconda domanda non può che essere: cosa può o deve verificarsi perché gli Ebrei siano equiparati agli altri membri della società? Nella risposta a questo interrogativo emergeva una palese incongruenza, perché ciò che si richiedeva agli Ebrei era la conversione al cristianesimo; la questione veniva così spostata dal piano della 'naturale' appartenenza a un determinato gruppo etnico a quello dell'appartenenza a una confessione religiosa. I sostenitori di questo punto di vista, tra i quali vi erano anche i cristiani liberali, partivano quindi da una identificazione quasi spontanea tra società europea moderna e cristianità. Per questo Heinrich Heine, cinicamente ma efficacemente, ebbe a definire il battesimo come "biglietto d'ingresso alla cultura europea".
Il primo passo verso l'assimilazione al mondo non ebraico restava quindi (e resta) la conversione al cristianesimo, associata spesso alla 'mescolanza' attraverso il matrimonio con un non ebreo. Il giudaismo si differenzia però dal cristianesimo in un punto essenziale: non si può 'uscire' dal giudaismo come da una chiesa cristiana, in quanto gli Ebrei non sono soltanto una comunità religiosa. Per lo stesso motivo non è possibile aderire alla 'religione' ebraica, ma si può solo entrare a far parte del giudaismo nella sua globalità, come 'popolo' (o 'nazione') e come religione. Da ciò però consegue che anche con la conversione al cristianesimo l'ebreo non cessa di essere tale, sia agli occhi di molti cristiani sia agli occhi degli stessi Ebrei. Nell'ambito del giudaismo riformista si cercò di risolvere il problema distinguendo espressamente l'appartenenza etnico-nazionale dall'appartenenza religiosa; si parlava quindi di religione 'israelitica' o 'mosaica' e di 'cittadini tedeschi (o francesi) di religione mosaica'. In linea di massima già Moses Mendelssohn si era mosso in questa direzione, allorché ricollegandosi al saggio Über die bürgerliche Verbesserung der Juden - scritto dietro sua sollecitazione da Christian Wilhelm Dohm nel 1781 - si era pronunciato a favore della separazione tra Stato e Chiesa. In questo modo si poteva effettivamente annullare la fittizia identificazione tra appartenenza al cristianesimo e appartenenza alla società civile. Anche allora tuttavia le comunità giudaiche dei paesi cristiani continuarono ad avere lo status di una minoranza.
Nel XIX e nel XX secolo la situazione degli Ebrei subì un ulteriore, radicale mutamento a seguito di due movimenti, uno esterno e l'altro interno: l'antisemitismo e il sionismo.
La storia del popolo ebraico è stata accompagnata sin dall'antichità da manifestazioni di ostilità nei confronti degli Ebrei. Nelle epoche più diverse e in diverse parti del mondo si sono verificate persecuzioni e sanguinose violenze contro le comunità giudaiche, di cui abbiamo già illustrato le conseguenze. Nel XIX secolo, in stridente contrasto con gli ideali dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, nell'Europa orientale si sviluppò una nuova forma di ostilità verso gli Ebrei, per designare la quale è entrato nell'uso, a partire dall'ultimo quarto di secolo, il termine 'antisemitismo'. Tale termine viene impiegato da allora per indicare in generale ogni forma di ostilità nei confronti degli Ebrei.Il fenomeno dell'antisemitismo assunse proporzioni particolarmente minacciose in Russia, in quanto venne promosso dallo stesso governo zarista e i suoi eccessi furono fomentati dall'alto. Le persecuzioni si intensificarono dopo l'assassinio dello zar Alessandro II - compiuto da terroristi rivoluzionari nel marzo 1881 ma attribuito agli Ebrei - e divennero sempre più violente nei decenni successivi. Una delle conseguenze fu l'emigrazione in massa verso Occidente, nei paesi dell'Europa occidentale e soprattutto in Nordamerica. Abbiamo già esaminato alcuni aspetti della profonda trasformazione della popolazione ebraica negli Stati Uniti.
Nell'Europa centrale, soprattutto in Germania e in Austria, si sviluppò una nuova forma di antisemitismo fondato su motivazioni politiche e soprattutto sociali, nel quale confluirono anche alcuni elementi del tradizionale antisemitismo cristiano attraverso il predicatore Adolf Stöcker (1835-1909). Ciò costituì il preludio dell'antisemitismo militante dei nazionalsocialisti, che sfociò nell'Olocausto, cioè nello sterminio di gran parte degli Ebrei dell'Europa centro-orientale. Non è questa la sede per trattare in modo più approfondito queste vicende.
Nell'Europa orientale non si verificò una emancipazione generale degli Ebrei; al contrario, la loro situazione peggiorò sempre più. I grandi pogrom degli anni 1881-1882 fecero capire anche agli Ebrei emancipati che per questa via non si sarebbe mai arrivati a una soluzione della 'questione ebraica'. Nacquero una serie di movimenti che sollecitavano una nuova presa di coscienza della propria identità nazionale da parte degli Ebrei e proponevano la creazione di uno spazio di vita comune. Alcuni intellettuali e scrittori ebrei - in particolare Moses Hess (1812-1875) e Asher Ginsberg (1856-1927) - contribuirono a diffondere l'idea di un 'ritorno a Sion', ossia alla terra dei padri. Nacque il movimento dei Ḥovevei Zion ('amici di Sion'), che appoggiò attivamente il ritorno in Palestina soprattutto quando, a seguito dei pogrom del 1881-1882, i primi coloni ebrei provenienti dall'Europa orientale arrivarono in Palestina e crearono i primi insediamenti.Accanto all'aspetto pratico dell'insediamento degli Ebrei in un proprio territorio, acquistò sempre più rilievo l'idea politica della 'autoemancipazione' (Leo Pinsker, 1821-1891) e della rinascita nazionale del popolo ebraico. Nacque un movimento che trovò in Theodor Herzl (1860-1904) il suo principale esponente. Nel suo libro Der Judenstaat: Versuch einer modernen Lösung der jüdischen Frage, scritto nel 1895, Herzl indicò la soluzione nazionale, e nel 1897 presiedette il primo Congresso sionista a Basilea. Il sionismo rappresenta una radicale novità nella storia ebraica in quanto con esso, sulla scia dell'illuminismo e della emancipazione, il popolo ebraico si afferma nella propria dimensione nazionale, laddove la religione ha perso il suo ruolo predominante e per molti sionisti è praticamente priva di valore. Ciò non significa ovviamente che il giudaismo come tale possa essere inteso senza la sua religione; il sionismo, piuttosto, offre la nuova possibilità di un'esistenza ebraica nelle condizioni della modernità: è il singolo individuo a decidere quali elementi della tradizione giudaica considerare importanti per la propria vita personale - così come ogni membro di uno Stato del mondo occidentale può decidere se e in che misura adottare le tradizioni cristiane proprie di questa parte del mondo.Il sionismo portò infine, nel 1948, alla costituzione dello Stato di Israele. Qui viene fondamentalmente realizzata la possibilità offerta dal sionismo di una autorganizzazione della vita ebraica nelle condizioni della modernità, sebbene restino ancora irrisolti parecchi problemi politici, primi fra tutti quelli posti dalla convivenza con gli Arabi palestinesi. Continua però a esistere, ora come in passato, una vasta diaspora ebraica, sicché la situazione attuale, sia pure con qualche riserva, può essere paragonata a quella del periodo compreso tra l'esilio babilonese e la distruzione del Tempio ad opera dei Romani. Il centro politico e spirituale del giudaismo è di nuovo nella terra di Israele, ma accanto a tale centro sussiste una ampia diaspora che sotto molti aspetti ha un suo specifico profilo.
È degno di nota il fatto che in un primo tempo l'immigrazione in Palestina si ebbe quasi esclusivamente dall'Europa, in particolare dall'Europa orientale, mentre mancò quasi totalmente una immigrazione americana. Una delle conseguenze di questo fatto fu che la differenziazione religiosa - quale si era sviluppata a seguito dell'haskālāh in Europa e poi in Nordamerica - finora non ha trovato riscontro in Israele. Al momento della costituzione dello Stato israeliano l'unica delle tre grandi 'denominazioni' ebraiche presenti e quindi in grado di far valere le proprie esigenze era l'ortodossia nelle sue due principali forme storiche, quella ashkenazita e quella sefardita. Di conseguenza in Israele vi sono ora due gran rabbini, che insieme sono responsabili dell'osservanza dell'hălākhāh. Ciò riguarda una serie di questioni rilevanti per il singolo cittadino. Così, ad esempio, in base alla prassi giuridica invalsa sotto la dominazione ottomana, adottata dopo la prima guerra mondiale dall'amministrazione britannica e in seguito dallo Stato di Israele, i matrimoni possono avvenire solo attraverso le istituzioni religiose, sicché gli Ebrei possono essere sposati solo da un rabbino. Ma poiché la relativa autorizzazione deve essere concessa dal gran rabbinato, restano di fatto esclusi i rabbini non ortodossi. Ne consegue, tra le altre cose, che in Israele non è possibile il matrimonio tra ebrei e non ebrei. Anche per quanto riguarda la questione di chi debba essere riconosciuto come ebreo - questione assai importante per la concessione della cittadinanza israeliana ai nuovi immigrati - valgono le norme halakhiche, sia pure con determinate modifiche. Altri problemi, come ad esempio quello relativo all'osservanza dello shabbāt, continuano a essere oggetto di controversie. In Israele tuttavia vige la libertà di religione, sicché le altre 'denominazioni' possono praticare liberamente il proprio culto. Nel frattempo si è sviluppato anche un intenso rapporto tra la comunità ebraica americana e Israele.Infine, nella situazione attuale il problema della rivendicazione del territorio in conflitto con gli Arabi palestinesi ha acquistato rilevanza internazionale. In questo caso i diversi fronti non seguono linee di divisione religiose: in merito al problema, piuttosto, prendono posizione rappresentanti di tutti gli orientamenti politici e di tutti gli schieramenti. In particolare l'impressione suscitata da alcuni gruppi radicali, che la rivendicazione dell'intero territorio sia una rivendicazione della religione ebraica, è del tutto infondata. Anche in questo caso, ferma restando la complessità del problema della definizione dell'identità ebraica, lo Stato di Israele è uno Stato moderno, e come tale deve e vuole essere considerato in base ai criteri propri della realtà contemporanea. (V. anche Antisemitismo; Genocidio; Ghetto; Sionismo).
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