giudaismo
La religione del Libro: una complessa identità millenaria
Il giudaismo, o ebraismo, è la religione del popolo ebraico e la sua cultura. Ma non è solo questo: è anche un modo di essere, un bagaglio storico e culturale; è una storia fatta di idee e conoscenze, di riflessioni sul mondo e su Dio. Il giudaismo è insomma la risposta a una domanda sempre attuale, che lo stesso popolo ebraico non ha mai smesso di porsi: che cosa significa essere ebrei? È una risposta dai molti colori e dalle sfaccettature quasi infinite
Un primo approccio al giudaismo può essere quello di studiare il modo in cui gli ebrei considerano il tempo, elemento fondamentale per un popolo che ha vissuto millenni senza una terra. Per il calendario ebraico siamo ben lontani dal 21° secolo: il 2006 corrisponde, per esempio, all'anno 5766! Gli ebrei calcolano infatti la data a partire dalla creazione del mondo (ovviamente non si tratta di un calcolo scientifico). L'anno ebraico, inoltre, comincia non il primo di gennaio, bensì il primo del mese ebraico di tishri: i mesi ebraici corrispondono alle fasi della Luna, e portano nomi diversi da quelli del calendario civile. Il mese di tishri, che inaugura l'anno nuovo, cade fra settembre e ottobre.
Ma c'è anche un'altra idea più 'sentimentale' del tempo, che ben spiega l'orientamento ebraico: in ebraico, la parola per dire prima è la stessa che significa più o meno davanti. Questa corrispondenza ci spiega che per il popolo ebraico il passato sta davanti, mentre il futuro si trova alle nostre spalle. Del passato qualcosa conosciamo, e quindi lo abbiamo in un certo senso davanti agli occhi, mentre il futuro, quello prossimo così come quello remoto, resta ignoto.
Questo orientamento tipico dell'ebraismo spiega anche perché gli ebrei diano tanta importanza alla memoria: "Ricorda!" è un imperativo che Dio rivolge spesso al popolo d'Israele nella Bibbia. Il ricordo è bagaglio, è coscienza di ciò da cui proveniamo, ma anche patrimonio per affrontare il presente.
Ma come ben si sa, "Ricorda" non è l'unico ordine che il Dio della Bibbia impartisce al suo popolo. Il testo sacro, prima dell'ebraismo e poi del cristianesimo, è infatti un insieme di narrazioni e un codice di leggi. Contiene la cronaca delle vicende che hanno per protagonisti dapprima i patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe) e poi il popolo d'Israele, prima sotto la guida dei giudici, poi dei re. Contiene le gesta dei profeti, che parlano per (cioè 'al posto di') Dio al popolo, ponendo l'attenzione sui suoi errori e sui modi per comportarsi meglio, e tanto altro. Ma comprende anche un codice di leggi da rispettare, così come ci sono in ogni Stato moderno. Il Decalogo ‒ cioè i dieci comandamenti, osservati da tutto il monoteismo ‒ è una specie di riassunto di questo codice.
Il codice di leggi, che Dio consegna a Mosè sul Sinai perché egli lo trasmetta a tutto il suo popolo, è in sostanza il segno del patto siglato con Abramo: "Se tu ti impegni a osservare questa legge e tramandarla ai tuoi figli, io farò di te il popolo eletto", dice Dio ad Abramo. La Bibbia equivale al documento che sancisce questo patto.
Si è sempre detto che il popolo ebraico è il popolo eletto. Ma perché? E cosa significa elezione? Questa parola significa semplicemente "scelta", ma non indica alcuna pretesa di superiorità. Gli ebrei non si sentono superiori perché si considerano il popolo eletto. Dio li ha scelti per fare da sacerdoti dell'umanità: è un mestiere, più che un privilegio. Nel mondo ci sono pastori e letterati, pescatori e contadini: il compito degli ebrei è, secondo la tradizione, quello di custodire la parola divina e studiarla, in attesa che venga il Messia. Questo è il significato e la natura dell'espressione popolo eletto. Per l'ebraismo, infatti, il mondo è bello perché ogni individuo è diverso dall'altro e ogni popolo ha le sue caratteristiche.
C'è un passo di un antico testo ebraico dove si dice che il più grande miracolo di Dio è quello di essere riuscito a non fare due individui eguali, pur avendo e usando sempre un unico modello, quello di Adamo ed Eva, da cui tutti discendiamo, secondo la Bibbia. Tale discendenza garantisce anche la parità: siamo tutti diversi l'uno dall'altro, però discendiamo dagli stessi progenitori, dunque nessuno di noi può dirsi superiore all'altro, perché abbiamo la medesima origine. Questo è un caposaldo dell'ebraismo: la diversità nella parità.
Mentre i dieci comandamenti sono stati accolti da tutti i monoteismi, la legge che viene formulata nella Bibbia non è vincolante per tutti i popoli, ma soltanto per gli ebrei. Questa legge è la legge ebraica, che si dice Torah (termine che designa l'insieme degli insegnamenti e delle prescrizioni rivelato da Dio attraverso Mosè e raccolto nei cinque libri del Pentateuco). Vi sono, per esempio, precisi regolamenti in fatto di cibo. La Bibbia vieta alcuni alimenti e regola l'uso di molti altri. Un versetto biblico dice: "non mangerai il capretto cotto nel latte di sua madre". Di conseguenza l'ebraismo vieta qualunque miscuglio, nello stesso pasto, di latte e carne: questo per rispettare al massimo grado la norma biblica. Inoltre la carne di molti animali è considerata proibita dalla Bibbia, e non viene consumata dagli ebrei religiosi, che rispettano i precetti.
La base della vita ebraica tradizionale è costituita dai precetti: 613 fra regole positive ("fai questo") e negative ("non fare questo") che la tradizione ebraica ha ricavato e formulato dalla legge biblica. Ve ne sono di tipi molto diversi, da quelle più pratiche a quelle più spirituali. Una delle principali è "scegli la vita e non la morte". Questa regola dice che gli ebrei hanno il dovere, e non solo il diritto, di trasgredire tutti i precetti (esclusi tre casi) quando si tratta di salvare una vita. Perché essa è il dono di Dio, il principale, e in questo senso merita il sommo rispetto.
Un altro pilastro del giudaismo è la condanna dell'idolatria, cioè l'adorazione tributata a immagini di false divinità. Abramo riceve la rivelazione da un Dio invisibile, che parla ma non si sa dove si trova, che nessuno può immaginare né tanto meno raffigurare. Il Dio della Bibbia è infatti un Dio che parla e detta la sua legge, ma è un Dio incorporeo, inafferrabile. Si rivela a Mosè nel roveto ardente, mentre per Elia è un soffio silenzioso. L'idolatria, la raffigurazione divina, è sentita dall'ebraismo come il grado peggiore dell'eresia. In una sinagoga, pertanto, non si troveranno immagini né di Dio stesso né delle sue creature, per evitare di adorarlo attraverso quello che ha fatto. Il culto ebraico è essenzialmente preghiera, è un parlare a Dio. L'ebreo ha da sempre una sua particolare confidenza con Dio.
Per contro, il Dio della Bibbia ha spesso connotati umani nel guardare al mondo: è un Dio capace di forti emozioni. Misericordioso e pronto a perdonare, ma spesso arrabbiato con il suo popolo per le manchevolezze di cui dà prova (come nell'episodio biblico del vitello d'oro), pronto all'ira e alla vendetta, capace di fomentare guerre e distruzioni fra gli uomini. A volte è insensibile al dolore e prodigo di ingiustizie, come quando mette alla prova il povero Giobbe, che è un uomo giusto al quale provoca immense sofferenze solo per verificare fino a quando è in grado di resistere.
Una vecchia storiella dice che quando Mosè chiese al Signore come mai la storia mietesse tante vittime innocenti. Egli lo fece addormentare, e mentre il profeta dormiva mandò una fila di formiche: due o tre lo pizzicarono alle caviglie. Allora, mezzo sveglio e mezzo addormentato, Mosè ne pestò un gran numero. Morirono quelle che l'avevano pizzicato, ma non solo. Così Dio dimostrò come dall'alto del cielo fosse impossibile giudicare sempre tutti con perfetta equità.
Certo la Bibbia è un libro ‒ anzi, un insieme di libri ‒ molto vario, in cui, così come gli uomini e le donne, nemmeno Dio ha un volto soltanto. Intorno a questo testo così vario ha lavorato per millenni, e continua a farlo, la tradizione ebraica. E ciò perché quando nel 1° secolo d.C., con la diaspora, l'ebraismo perse i suoi connotati di dottrina di un popolo con una sua terra e una nazione per diventare l'identità di un popolo disperso fra le altre genti, i figli d'Israele cominciarono in un certo senso ad abitare i loro libri. La Bibbia, prima di tutto. Privati della terra, hanno fatto del testo sacro il loro territorio: non a caso la tradizione dei rabbini si definisce come "una siepe intorno alla Torah", cioè alla Bibbia. Una siepe per difendere questo testo, delimitarlo, interpretarlo.
Talmud è il nome ebraico della grande raccolta di commenti e consulti alle norme etiche, giuridiche e rituali del popolo ebraico: è il libro che racconta di questa siepe; anzi, più che un libro è un'immensa raccolta di discussioni. Talmud è una parola che deriva dalla radice ebraica lamad, che significa sia "insegnare" sia "imparare". Non è un libro unitario, tutt'altro. Funziona più o meno così: un maestro (o rabbino, perché questo significa la parola) interpreta un passo biblico o anche solo una parola del testo e afferma: "secondo me significa questo". Arriva un altro maestro che controbatte "no, guarda, secondo me significa quest'altra cosa". Un discepolo ficca il naso e dice timidamente ‒ ma non troppo ‒ la sua. Si va avanti così, in una discussione senza né capo né coda, e il più delle volte alla fine non c'è soluzione, ognuno resta della propria opinione. Tocca al lettore, o al rabbino venuto magari secoli dopo, decidere che cosa ritiene più giusto. Questo è il Talmud: il racconto di un'infinità di discussioni, di capelli spaccati in quattro, in otto e poi lasciati lì. Ci sono racconti, aneddoti, pagine di antica vita vissuta, perché il Talmud risale al 6°-7° secolo. Da allora questo grande libro impregna la vita del giudaismo e ispira infiniti altri testi e discussioni. Nelle scuole rabbiniche, infatti, si continua a discutere e a mettere per iscritto queste discussioni.
Ma il giudaismo non è, ovviamente, solo un insieme di discussioni, perché da queste sono nate in modo quasi spontaneo idee, sono venuti pensieri sul mondo. In fondo è un metodo scientifico, empirico, di guardare le cose, con un atteggiamento sempre pronto a mutare, a valutare nuovi elementi. Il Talmud è un testo aperto, che apre la mente, ed è un testo composito, formatosi sulla base di un'opera precedente, la Mishnah, la raccolta di norme etico-giuridiche prima trasmesse oralmente e poi scritte, risalente al 3°-5° secolo. È di fatto il commento a questo primo codice, e ha a sua volta dato adito a un'infinità di commenti, commentari, supercommentari.
Dove si studiava il Talmud? Nella scuola, che era al tempo stesso luogo di culto e di apprendimento. Scuola e sinagoga per lo più corrispondono. Lo studio è fondamentale nell'ebraismo: il raggiungimento della maggiore età per gli ebrei, che si chiama bar mitzwah (letteralmente "figlio del precetto"), è di fatto per il ragazzo di tredici anni una specie di esame, in cui egli deve dimostrare di sapere leggere la Bibbia in ebraico e comprenderne il significato.
Il ruolo delle donne. Nella tradizione ebraica le donne non hanno ruolo nella preghiera e nel culto officiato nella sinagoga (di cui la lettura della Torah nel giorno di sabato è il momento culminante). L'ebraismo riformato, sviluppatosi nel corso degli ultimi cento anni, le ha 'associate' al culto, ma per la tradizione loro restano 'regine della casa' e preposte all'educazione dei figli, mentre la preghiera in sinagoga è riservata agli uomini.
Il tempo del Sabato. Torniamo ancora al tempo ebraico, in particolare al tempo dell'anno che scandisce la vita. Il momento fondamentale di questo tempo è il sabato, che in ebraico è detto Shabbat. Questa parola significa alla lettera "riposo", "stare seduti". Nella Bibbia è detto, proprio all'inizio, che Dio creò il mondo in sei giorni, e il settimo si riposò: questo settimo giorno è il sabato. La domenica è infatti chiamata in ebraico 'primo giorno', il lunedì 'secondo giorno' e via di seguito sino al venerdì. L'unico giorno dotato di un nome proprio è il sabato: memoria e rispetto del riposo divino. In questo giorno agli ebrei è vietato compiere qualunque tipo di lavoro, e per lavoro si intende tutto ciò che in qualche modo cambia l'ordine delle cose o ne crea altre. Per questo gli ebrei non possono scrivere, di sabato, perché la scrittura è una forma di creazione, né possono accendere un fuoco, che altera e modifica le cose. Di conseguenza, i rabbini moderni hanno deciso che anche accendere un motore di automobile o un interruttore della luce va considerato alla stregua dell'accendere un fuoco, e per questo hanno vietato tali attività.
Ebrei osservanti e non osservanti. A questo punto va fatta una precisazione: non tutti gli ebrei del mondo osservano scrupolosamente queste regole. Oggigiorno sono anzi una netta minoranza. Ciò non significa che gli ebrei non osservanti vadano incontro a sanzioni o siano 'meno ebrei' degli altri. Per il giudaismo è fondamentale il principio di responsabilità: ognuno di noi fa i conti con sé stesso e con Dio. Un rabbino potrà consigliare, indicare la via, ma non certo imporla. Egli è un maestro, non un sacerdote né tanto meno un intermediario fra il cielo e gli altri ebrei.
Il Sabato ebraico ‒ che fra l'altro ha involontariamente creato quel ciclo della settimana adottato in tutto il mondo ‒ è il momento centrale della vita ebraica. Vi sono poi le festività del calendario. Si inizia con il Capodanno, che cade fra settembre e ottobre, cui seguono i cosiddetti giorni penitenziali, in cui gli uomini passano in rassegna la propria condotta nell'anno appena trascorso e chiedono a Dio perdono dei peccati commessi verso di Lui e verso gli altri uomini. Il culmine di questo percorso interiore e liturgico è il giorno del digiuno del Kippur, cioè dell'Espiazione.
Un'altra festa molto importante è il Pesach, cioè la Pasqua ebraica, che cade insieme alla prima Luna piena di primavera e che ricorda l'esodo degli ebrei dall'Egitto e la conquista della libertà, da schiavi che erano. La Pasqua ebraica è, come dice la parola ebraica, la festa del "passaggio" degli ebrei attraverso il Mar Rosso, e prima ancora di Dio sul paese d'Egitto, per convincere ‒ in modo spietato, invero, con la morte dei primogeniti ‒ il faraone a lasciare uscire i figli d'Israele. È la festa della libertà, che paradossalmente gli ebrei hanno celebrato per secoli rinchiusi nei ghetti, ma anche della primavera che viene.
Vi sono poi altre ricorrenze: Purim, il carnevale ebraico che rievoca la storia della regina Ester e del suo eroico gesto con cui allontanò la persecuzione decretata dal sovrano assiro per gli ebrei. Shavuot, cioè Pentecoste, il giorno che ricorda la rivelazione della Legge, cioè della Torah, al Sinai. Ma anche Tisa be-av, un giorno di digiuno che rievoca tanti lutti: la distruzione del Tempio di Gerusalemme, la cacciata degli ebrei dalla Spagna (nel 1492) e altri.
In un certo senso, gli ebrei hanno davvero abitato il Libro e il tempo: con questi due compagni di viaggio hanno affrontato le avversità della diaspora, l'emarginazione e il disprezzo da parte del resto del mondo. Queste e altre vicende hanno dato al popolo d'Israele un senso profondo della vita, che è il primo valore da rispettare, in cui credere.
Per questo, anche nelle avversità non è mai mancata la voglia di vivere. Anzi, di sopravvivere. Per questo il giudaismo ha prodotto un'immensità di libri: non solo commenti rabbinici, anche poesia e narrazioni, scritti di storia e di mistica, testi scientifici e ‒ non ultimo ‒ l'umorismo, un ingrediente essenziale per stare al mondo, e in particolare in un mondo spesso ostile.
"Mosè ricevette la Torah al Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti agli uomini della grande assemblea. Questi dicevano tre cose: siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe attorno alla Torah [...] una vigna recintata da una siepe non è come una vigna senza recinto. Ma non bisogna neppure fare delle siepe una cosa più grande della radice, perché altrimenti se cade la siepe sradica persino le piante" (da Detti di rabbini, un antico testo sulla tradizione tradotto da Alberto Mello, 1993).