giudeo-italiano
Giudeo-italiano è un’etichetta ambigua perché può designare due fatti linguistici e culturali diversi, qualunque sia il rapporto ‘genetico’ tra loro, di continuità o di indipendenza. Da una parte c’è la produzione medievale e rinascimentale italiana di testi in caratteri ebraici; dall’altra, le parlate dei ghetti, documentate tra la fine del Settecento e i primi del Novecento, e successivamente delle comunità ebraiche cittadine. Per questo con la dicitura di giudeo-italiano ci si riferisce di solito alla documentazione medievale; ci si riferisce invece alle testimonianze otto-novecentesche con quella di parlate giudeo-italiane, con eventuali specificazioni areali: giudeo- (o giudicaico-) romanesco, giudeo-veneziano, ecc.). Una differenza tutt’altro che trascurabile è costituita dal fatto che i testi antichi sono redatti in ebraico, quelli moderni in caratteri latini.
Negli ultimi anni il numero delle fonti giudeo-italiane dei primi secoli (su cui cfr. Sermoneta 1976 e Cuomo 1983) si è arricchito, risolvendo probabilmente in favore della tesi della continuità tra la documentazione antica e le parlate moderne un dibattito ormai secolare (Mancini 1992; Ryzhik in corso di stampa).
Il repertorio dei testi antichi in giudeo-italiano comprende (si riprende qui lo schema di Galli de’ Paratesi 1992: 133, da cui si traggono anche le citazioni):
(a) glosse in italiano a testi in ebraico, di varia entità (a volte consistono di una sola parola); i primi testi del genere sembrano essere le glosse nel Rotolo di Aḥima’az e nel Sefer Yosippon (X-XI sec.; Modena Mayer 2003: 65); in molti casi, testimonianze di questa natura sono anche i più antichi testi in volgare finora noti: per es., per il salentino antico, le 154 glosse a una Mišna conservata nella Biblioteca Palatina di Parma precedono cronologicamente gli altri testi romanzi in alfabeto greco e latino e presentano un aspetto molto arcaico, documentando forme come aera «computo», ânaure leve «orecchini», âvultru «non genuino, falso», mimòra «pietra tombale», pesklu «chiavistello» (Cuomo 1977);
(b) glossari biblici e di altra natura, a volte ordinati per argomento;
(c) traduzioni della Bibbia, dal XIII al XVII secolo, in cui il volgare assume le caratteristiche di una vera e propria lingua-calco, proiettato com’è sulla sacralità dell’originale ebraico;
(d) traduzione in italiano di preghiere, di rituali e di testi ebraici, di midrashim, di formulari di preghiera;
(e) testi originali prodotti in italiano, ma sempre scritti in caratteri ebraici, di argomenti vari, come prediche e composizioni poetiche; tra questi ultimi hanno un posto speciale le testimonianze letterarie degli ebrei pugliesi stabilitisi a Corfù dopo l’espulsione (Sermoneta 1990); le loro elegie e i loro brani narrativi riflettono fasi precedenti e potrebbero essere stesure scritte di versioni tramandate oralmente da molto tempo.
Le parlate moderne giudeo-italiane rappresentano un’esperienza particolare nel panorama linguistico italiano. Si tratta di un fenomeno sostanzialmente estinto, debole sin dai primi anni del Novecento. La scomparsa delle parlate, avvertita a un certo punto come imminente, indusse per reazione alcuni intellettuali locali a documentarle in una produzione letteraria e teatrale ipergergale e non spontanea. Due figure si distinsero: Guido Bedarida (1956) a Livorno e Crescenzo Del Monte (1927, 1932 e 1955) a Roma. Per il resto, a parte le inchieste di Raffaele Giacomelli nelle comunità ebraiche italiane prima dell’Olocausto (per tutti, cfr. Terracini 1951) e l’inchiesta di Fortis & Zolli (1979) sulla comunità di Venezia, il più delle volte disponiamo di semplici raccolte antiquarie di liste lessicali.
Le comunità in cui esistono parlate giudeo-italiane documentate sono quelle di Torino, Cuneo, Casale Monferrato, Alessandria, Moncalvo, Mantova, Venezia, Trieste, Verona, Bologna, Modena, Reggio, Ferrara, Ancona, Firenze, Livorno, Pitigliano, Roma, Corfù (panorama generale e bibliografia in Aprile 2006).
L’aspetto più vistoso delle parlate giudeo-italiane è il lessico; in particolare, ciò che ha colpito di più gli osservatori è la presenza di una serie di ebraismi veicolati attraverso la tradizione a cui è stata affidata, nel corso dei secoli, gran parte dell’identità degli ebrei italiani. Gli ebraismi sono usati in ambito di tradizioni religiose e culturali (riti religiosi, preghiere, festività), ma anche per indicare situazioni di intimità familiare e per esorcizzare il male o eventi infausti (morte, malattia, disgrazie, dolore), l’ostilità antisemita, o ancora per segnare i complessi rapporti con la maggioranza e con la stessa religione cattolica (Modena Mayer 1978).
Qualche esempio dell’ultima categoria: si va dai riflessi dell’ebr. bama «altura; palco; santuario» (che nella Bibbia, e nella coscienza ebraica, ha un’accezione negativa) e dell’assai meno benevolo to’eva «abominio» per «chiesa» (edificio), fino alla conversione e al battesimo, sentiti come un tradimento e sanzionati perciò con i riflessi dell’ebr. šimmed «distruggere; perseguitare; costringere alla conversione»; chi cambia religione è un mesciumàd, forma diffusa in tutte le comunità (qui la forma giudeo-mantovana), dall’ebr. mešummad «convertito; rinnegato».
Alcuni di questi ebraismi sono passati ai dialetti cittadini e da questi all’italiano. È il caso del giudeo-romanesco fasullo, riflesso dell’ebr. pasul «illegittimo, invalido», transitato già nell’Ottocento al romanesco gergale, poi a quello comune e infine alla lingua nazionale, in cui è documentato dal 1950. Ancora attraverso la trafila del romanesco è entrato in italiano sciamannato, in ultima analisi riconducibile all’ebr. post-biblico siman «segno», diventato per specializzazione il segno distintivo che gli ebrei erano costretti a portare addosso per essere riconosciuti come tali. Sono ebraismi mediati dalle comunità (o dall’osservazione, spesso piena di pregiudizi, delle abitudini religiose delle comunità) l’ital. adonai (ebr. ’adonay «Signore») e goi (ebr. goy «popolo; gente»), mentre l’ital. cabala (ebr. post-biblico qabbala «ricezione; tradizione; mistica») non ha come tramite i ghetti. Uno spazio a parte merita kasher (ebr. post-biblico kašer «idoneo»), ormai noto, nel quadro più ampio della riscoperta urbana delle tradizioni gastronomiche etniche, come aggettivo invariabile (macelleria kasher, ristorante kasher, ecc.).
Più rilevanti sono i contributi alle parlate locali, segno di una continua, anche se altalenante, relazione con l’ambiente attorno al ghetto. I rapporti avvenivano preferibilmente attraverso ambienti professionali ben definiti. A Ferrara, Marighelli (1977) raccoglie una serie di ebraismi usati inconsapevolmente nel gergo dei commercianti ferraresi di tessuti e confezioni non ebrei, a volte anche in funzione criptica nei confronti dei clienti. Primo Levi, nel racconto Argon (1975) in cui descrive la vita quotidiana del suo ambiente torinese, cita il giudeo-torinese dei commercianti di stoffe vesta a kiním «vestito a puntini», notissimo anche tra quelli non ebrei, prestito con metafora trasparente dall’ebr. kinnim «pidocchi».
Un aspetto misconosciuto del lessico delle parlate giudeo-italiane è costituito dagli elementi romanzi, più difficili da individuare e da studiare rispetto a quelli di etimo ebraico e ai pochissimi di origine yiddish, il più importante dei quali è orsài, orzài «anniversario della morte di un congiunto; commemorazione dei defunti» (diffuso ovunque) < yiddish Yorzeit. Si ha così una serie di forme conservative usate in passato dai dialetti comuni e da un certo punto in poi proprie solo o prevalentemente della comunità ebraica locale (per es., giudeo-veneziano in cagnaro «in malora», che un tempo doveva appartenere al veneziano o al veneto comune), parole che i dialetti non hanno mai usato e le comunità ebraiche sì (per es., giudeo-triestino sesandel «lampada accesa nella chiesa; talvolta anche nella sinagoga», dal lat. tardo cicindelum, venez. cesendelo «piccola lampada»), e infine parole che nelle comunità ebraiche sviluppano significati peculiari (per es., giudeo-romanesco ceci «pietre preziose, in particolare brillanti, quando si vuol far capire che sono di valore»). Vanno poi considerati anche i prestiti dalle comunità iberiche in fuga dalla madrepatria ai tempi delle persecuzioni. Tra questi, il giudeo-livornese bobo «stupido», un ispanismo tardo-seicentesco noto anche ad altre varietà ispanoromanze e al sardo, e lo stesso modo di denominare il giudeo-livornese, bagitto, riflesso del lat. bassiare attraverso lo spagnolo bajito.
Alcune forme colpite da tabu (➔ tabu linguistico), peraltro ancora non correttamente riconosciute come tali dagli studiosi che si sono occupati delle parlate, sono ricavate da forme romanze con sostituzione di consonanti che le rendono quasi irriconoscibili, malgrado la sequenza delle vocali rimanga inalterata; il loro esame complessivo aiuta a capire il fenomeno, per cui in molte comunità giudeo-italiane la hadoglia è la «Madonna» e halto è il «santo».
Aprile, Marcello (2006), Un nuovo progetto lessicografico: il “Lessico delle parlate giudeo-italiane”, in Lessicografia dialettale. Ricordando Paolo Zolli. Atti del Convegno di studi (Venezia, 9-11 dicembre 2004), a cura di F. Bruni & C. Marcato, Roma - Padova, Antenore, 2 voll., vol. 2°, pp. 491-506.
Bedarida, Guido (1956), Ebrei di Livorno. Tradizioni e gergo in 180 sonetti giudaico-livornesi, Firenze, Le Monnier.
Cuomo, Luisa (1977), Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi 138, «Medioevo romanzo» 4, pp. 185-271.
Cuomo, Luisa (1983), Il giudeo-italiano e le vicende linguistiche degli ebrei d’Italia, in Italia Judaica. Atti del I convegno internazionale (Bari, 18-22 maggio 1981), Roma, Ministero per i Beni Culturali, pp. 427-454.
Del Monte, Crescenzo (1927), Sonetti giudaico-romaneschi. Con note esplicative e un discorso preliminare sul dialetto giudaico-romanesco e sulle sue origini, Firenze, Israel.
Del Monte, Crescenzo (1932), Nuovi sonetti giudaico-romaneschi. Con note esplicative ed alcune osservazioni preliminari sulle peculiarità e sulla presumibile derivazione del dialetto romano giudaico, Roma, P. Cremonese.
Del Monte, Crescenzo (1955), Sonetti postumi giudaico-romaneschi e romaneschi, Roma, Israel.
Fortis, Umberto & Zolli, Paolo (1979), La parlata giudeo-veneziana, Assisi - Roma, B. Carucci.
Galli de’ Paratesi, Nora (1992), Il giudeo-italiano e i dialetti giudeo-italiani, in La cultura ebraica nell’editoria italiana (1955-1990). Repertorio bibliografico, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, pp. 131-148.
Mancini, Marco (1992), Sulla formazione dell’identità linguistica giudeo-romanesca fra tardo Medioevo e Rinascimento, «Roma nel Rinascimento» 9, pp. 53-122.
Marighelli, Italo (1977), Voci ebraiche popolari fra i commercianti ferraresi di tessuti e confezioni, «Atti e memorie della Deputazione provinciale ferrarese di Storia patria» s. 3a, 34, pp. 203-210.
Modena Mayer, Maria (1978), Osservazioni sul tabù linguistico in giudeo-livornese, in Scritti in memoria di Umberto Nahon. Saggi sull’ebraismo italiano, a cura di R. Bonfin et al., Gerusalemme, Fondazioni Sally Mayer, Raffaele Cantoni, pp. 166-179.
Modena Mayer, Maria (2003), Il giudeo-italiano: riflessioni sulle fonti, «Materia giudaica» 8, 1, pp. 65-73.
Ryzhik, Michael (in corso di stampa), Il dialetto giudeo-ferrarese ed il giudeo-italiano antico, «L’Italia dialettale».
Sermoneta, Giuseppe (1976), Considerazioni frammentarie sul giudeo-italiano, «Italia» 1, pp. 1-29.
Sermoneta, Giuseppe (1990), Testimonianze letterarie degli ebrei pugliesi a Corfù, «Medioevo romanzo» 15, pp. 139-168, 407-437.
Terracini, Benvenuto (1951), Residui di parlate giudeo-italiane raccolti a Pitigliano, Roma, Ferrara, «La Rassegna mensile di Israel» 17, pp. 3-11, 63-72, 113-121.