Abstract
Si esaminano le regole relative alla determinazione del giudice competente a risolvere i contrasti che possono verificarsi in occasione dell’esecuzione di un provvedimento irrevocabile e le questioni deducibili dinanzi a tale organo giurisdizionale, con riguardo anche all’attuazione delle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo.
La risoluzione delle questioni che possono insorgere in occasione dell’attuazione delle decisioni giurisdizionali è devoluta alla competenza del giudice dell’esecuzione.
Il magistrato del pubblico ministero, in particolare, deve curare l’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali divenuti definitivi, compiendo tutti gli adempimenti necessari nel rispetto di precise regole poste a garanzia dei diritti delle persone condannate. In questa fase possono manifestarsi contrasti tra le parti. Il codice di procedura penale prevede la loro definizione per mezzo di un intervento giurisdizionale che si svolge secondo lo schema generale dei procedimenti in camera di consiglio (art. 127 c.p.p.), seppur con talune differenze sostanziali come quelle relative ai casi e alle forme della declaratoria d’inammissibilità e alla presenza obbligatoria del pubblico ministero e del difensore (art. 666 c.p.p.).
Il giudice dell’esecuzione è il garante del rispetto dei presupposti e delle condizioni legittimanti l’attuazione del comando esecutivo. Il suo compito, pertanto, si distingue nettamente da quello della magistratura di sorveglianza, deputata invece ad individuare il trattamento penitenziario adeguato alla persona, anche allo scopo di umanizzare l’esecuzione della pena.
L’ambito di azione del giudice dell’esecuzione è determinato in forza di un criterio di competenza per materia. È possibile distinguere le seguenti aree tematiche: a) questioni sul titolo esecutivo; b) applicazione della disciplina del concorso formale e del reato continuato; c) revoca della sentenza a seguito dell’abolitio criminis; d) applicazione dell’amnistia e dell’indulto; e) controlli sui profili soggettivi del titolo esecutivo; f) altre competenze disciplinate dall’art. 675 e 676 c.p.p. (Caprioli, F. - Vicoli, D., Procedura penale dell’esecuzione, Torino, 2011, 263).
Il giudice, dunque, interviene nel caso in cui sorga una controversia sull’attuazione del giudicato. Egli affronta i temi dell’eseguibilità del titolo, della sua esistenza e validità, ovvero i fatti capaci di modificare gli estremi o i contenuti originari del giudicato, come avviene in conseguenza dell’applicazione dell’istituto del reato continuato o del concorso formale (Cass. pen, 28.6.1999, n. 2426). Anche la domanda di restituzione nel termine per l’impugnazione della sentenza contumaciale di condanna, essendo finalizzata a far valere una patologia attinente all’omessa formazione del titolo esecutivo per un difetto di notifica dell’estratto della decisione (art. 548 c.p.p.), va proposta al giudice dell’esecuzione (Cass. pen, 22.9.2011, n. 36488).
Il vaglio dell’organo giurisdizionale in esame, invece, non può riguardare eventuali vizi del giudizio di cognizione e della sentenza che lo ha concluso, ostandovi le regole che disciplinano la cosa giudicata, la quale si forma anche nei confronti di provvedimenti affetti da nullità (Cass. pen., 13.12.2011, n. 3370). Le questioni concernenti la legittimità del titolo, pertanto, attengono alla fase della cognizione e devono essere fatte valere con i normali mezzi di gravame. Ove la parte abbia omesso di proporle, sono definitivamente precluse e coperte dalla definitività della pronunzia (Cass. pen, 10.6.2004, n. 37979). È inammissibile, ad esempio, la deduzione in sede esecutiva dell’illegittimità della pena accessoria (Cass. pen., 10.5.2011, n. 33086) o della condanna al pagamento delle spese processuali (Cass., pen., 19.4.2011, n. 26302) che devono essere fatte valere in sede di cognizione.
Può capitare che il reato oggetto della sentenza definitiva sia estinto per prescrizione e che tale situazione si sia verificata prima dell’irrevocabilità della decisione. Anche in questo caso il condannato non può chiedere al giudice dell’esecuzione di dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato a causa dell’immodificabilità del giudicato in sede esecutiva (Cass. pen., 28.4.2010, n. 20567).
Il magistrato del pubblico ministero, inoltre, non può domandare al giudice dell’esecuzione di esprimere un mero parere preventivo sull’interpretazione della decisione irrevocabile in vista dell’adempimento dei suoi doveri di esecuzione della pena (Cass. pen., 7.10.2009, n. 41325).
Il giudice dell’esecuzione, e non l’autorità amministrativa, è competente a conoscere le questioni attinenti l’esecuzione di sanzioni amministrative conseguenti alla condanna o all’applicazione della pena per determinati reati (Cass. pen., 2.12.2010, n. 7116). Quest’aspetto della competenza del giudice dell’esecuzione è divenuto molto rilevante in considerazione della notevole portata afflittiva di talune sanzioni amministrative come, ad esempio, la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere abusivamente costruite prevista dall’art. 44, co. 2, d.P.R. 6.6.2001, n. 380, la demolizione dell’immobile abusivo disciplinata dall’art. 31, co. 9, del decreto appena indicato o la confisca del veicolo condotto da persona che abbia assunto bevande alcooliche di cui all’art. 186 bis d.lgs. 30.4.1992, n. 285.
Risolvendo il contrasto tra diversi orientamenti, la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione ha affermato che il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna a pena detentiva suscettibile di esecuzione comporta la caducazione immediata della misura coercitiva non custodiale applicata al condannato (mentre le misure custodiali sono destinate a conservare la loro efficacia nella fase che precede l’esecuzione ai sensi dell’art. 656, co. 9 e 10, c.p.p.). Il condannato nei cui confronti, nonostante l’irrevocabilità della decisione, è rimasta efficace una misura coercitiva non custodiale deve ricorrere al giudice dell’esecuzione per la revoca del provvedimento (Cass., S.U., 31.3.2011, n. 18353).
L’art. 46 CEDU, intitolato «Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze», stabilisce uno specifico obbligo giuridico per gli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte, pronunciate nelle controversie in cui sono parti. Si tratta di un’obbligazione di risultato, nel senso che è riservata allo Stato aderente alla Convenzione la scelta dei mezzi per adeguarsi ai principi statuiti dall’organismo internazionale.
La giurisprudenza della Corte europea, invero, originariamente finalizzata alla soluzione di specifici casi concreti, si è nel tempo caratterizzata per una funzione para-costituzionale di tutela dell’interesse generale al rispetto dei diritti umani e degli impegni internazionali da parte dello Stato aderente. L’adozione della tecnica delle cd. sentenze pilota, cioè delle decisioni che attestano una persistente e strutturale violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, ha imposto agli organi giurisdizionali nazionali interventi molto marcati sulle decisioni definitive, anche a prescindere da una decisione di condanna della Corte (Cass., S.U., 19.4.2012, n. 34472).
In mancanza nella legislazione nazionale di una procedura o di un provvedimento specificamente previsto a tale scopo, sono stati impiegati diversi strumenti previsti dal codice, accettando finanche di entrare in contrasto con il principio della tipicità dei mezzi d’impugnazione. In questa prospettiva, è stato aperto un nuovo spazio operativo per l’intervento al giudice dell’esecuzione al quale è stato richiesto di verificare i modi e i termini per consentire di paralizzare gli effetti di una sentenza definitiva di condanna pronunciata in contrasto con le censure articolate dalla Corte europea. Il giudice, in tal evenienza, deve dichiarare ai sensi dell’art. 670 c.p.p. l’ineseguibilità di un giudicato, sebbene adottato applicando correttamente le norme nazionali (Cass. pen, 1.12.2006, n. 2880) o deve effettuare una pronuncia interlocutoria che affermi l’insussistenza di un titolo fondante la detenzione alla luce della condanna del giudice europeo che integra un fatto successivo, ostativo all’eseguibilità della condanna e che determina l’illegittimità del titolo esecutivo interno (Trib. Roma, 25.9.2006, in Cass. pen. 2007, 268). La giurisprudenza ha altresì ritenuto la Presidenza del Consiglio dei Ministri, come organo deputato per legge a curare l’esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, legittimata a richiedere al giudice dell’esecuzione la revoca della confisca di un bene già considerata dai giudici europei in contrasto con l’art. 7 CEDU (Cass. pen., 11.5.2010, n. 23761). Anche in questo caso, dunque, l’attuazione della sentenza dell’organo europeo è stata rimessa al giudice dell’esecuzione.
Queste decisioni, invero, sollevano dubbi di sistema nella parte in cui pongono in crisi il dogma del giudicato. Secondo la giurisprudenza di legittimità, peraltro, l’intangibilità della cosa giudicata deve soccombere dinanzi all’accertamento della violazione dei diritti umani contemplati dalla convenzione (Cass. pen, 19.4.2012, n. 34472). Di recente è stato dichiarato incostituzionale, per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., l’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (C. cost., 7.4.2011, n. 113).
Nel tempo, peraltro, si stanno delineando alcuni argini al fine di limitare una sorta di deriva idonea a incrinare la certezza dei rapporti giuridici. In particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità dell’art. 673 c.p.p. nella parte in cui non attribuisce al giudice dell’esecuzione il compito di assicurare il rilievo del mutamento dell’indirizzo giurisprudenziale a seguito di una decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (C. cost., 23.5.2012, n. 230). Il principio della retroattività della lex mitior, pertanto, non opera con riferimento ai mutamenti degli orientamenti giurisprudenziali, né travalica il limite del giudicato.
L’art. 665 c.p.p. prevede le regole per l’individuazione del giudice competente a conoscere dell’esecuzione, delineando una competenza funzionale dell’organo che ha deliberato il provvedimento (Lozzi, G., Lineamenti di procedura penale, Torino, 2003, 391). Si tratta di un’attribuzione che deriva dall’adozione della decisione oggetto dell’esecuzione e che presuppone la competenza per materia e per territorio del giudice che ha già provveduto (Dean, G., Esecuzione penale, in Enc. Dir., Annali, Milano, 2007, 252).
Nella determinazione della competenza, invero, il legislatore ha espresso una preferenza per l’organo in grado di dare un’interpretazione autentica del giudicato e che, conoscendo il provvedimento, può garantire maggiore rapidità ed efficienza delle decisioni (Corbi, F., L’esecuzione nel processo penale, Torino, 1992, 180).
La competenza, peraltro, attiene all’ufficio giudiziario e non al giudice – persona fisica o alla sezione che ha emesso la pronuncia in sede di cognizione, poiché la suddivisione degli affari tra le sezioni attiene ad una mera questione tabellare interna e non alla capacità, né tantomeno alla competenza del giudice (Cass. pen., 1.2.2007, n. 12484).
Il Tribunale, la Corte di appello, il Tribunale per i minorenni (Cass. pen., 15.1.2008, n. 5581), la Corte di Assise o quella di Assise d’appello, dunque, assumono le funzioni di giudice dell’esecuzione in relazione ai provvedimenti che hanno emesso. I compiti in esame sono attribuiti anche al giudice per le indagini preliminari e a quello dell’udienza preliminare, nonostante qualche originario dubbio nella giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., 15.1.1999, n. 424; Macchia, A., Incompetenza del giudice per le indagini preliminari in fase esecutiva: una novità assai poco convincente, in Cass. pen. 1996, 2626), in ordine ai decreti penali di condanna e alle sentenze di applicazione della pena o emesse all’esito di giudizio abbreviato (Cass. pen., 10.5.2011, n. 22868).
L’unico organo giurisdizionale al quale il codice non assegna competenza in materia di esecuzione è la Corte di cassazione (Cass. pen., 1.7.2010, n. 38628). Sebbene sia stato proposto ricorso per cassazione, pertanto, le questioni che riguardano l’esecuzione devono essere proposte al giudice di merito. La Suprema Corte, tuttavia, è giudice dell’impugnazione dei provvedimenti emessi dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 666 c.p.p.
Quando l’esecuzione riguarda più provvedimenti emessi da diversi giudici, la competenza deve essere attribuita secondo regole sussidiarie rispetto a quella che si fonda sul profilo funzionale (Dean, G., Esecuzione penale, cit., 253). L’organo giurisdizionale dell’esecuzione, allora, è individuato con un criterio cronologico. Al fine di concentrare la risoluzione delle questioni esecutive in capo ad un unico giudice, infatti, la competenza a conoscere dell’esecuzione spetta al giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. La preferenza per il giudice che ha deliberato il provvedimento viene meno, sostituita dall’applicazione di una diversa regola ispirata al principio dell’unicità del giudice dell’esecuzione che vuole evitare la frammentazione delle decisioni.
Il giudice competente è quello che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. Ne consegue, però, che viene meno il rapporto tra il giudice della cognizione che ha adottato il provvedimento e quello dell’esecuzione che è il presupposto funzionale per la determinazione della competenza nell’ipotesi generale.
In virtù della regola della cd. perpetuatio iurisditionis, peraltro, il momento in cui si radica la competenza dell’ultimo giudice è quello della domanda. Il sopraggiungere di altri titoli esecutivi, dunque, non determina lo spostamento del procedimento (Cass. pen., 19.5.2010, n. 23252).
Un profilo problematico ha riguardato il caso in cui, pur essendo l’esecuzione relativa a una pluralità di titoli, la questione posta al vaglio del giudice sia circoscritta ad uno o a determinati provvedimenti, diversi da quello divenuto irrevocabile per ultimo, che radica la competenza. La norma che assegna la competenza al giudice che adottato il provvedimento divenuto definitivo per ultimo, infatti, presenta una certa ambiguità lessicale (Conso, G.-Grevi, V., Profili del nuovo codice di procedura penale, Padova, 1998, 762).
Secondo un orientamento giurisprudenziale, che ormai appare prevalente, l’esigenza di individuare un unico giudice e di non frammentare l’esame delle questioni esecutive impone di riconoscere comunque la competenza del giudice che ha emesso l’ultimo provvedimento irrevocabile (Cass., pen., 20.12.2011, n. 2141).
In senso contrario, invece, si ritiene che, nel caso in esame, non vi sarebbe ragione per sottrarre la questione insorta dal vaglio del giudice che ha adottato il provvedimento e che, conoscendo la situazione di fatto e la pronuncia, può assicurare una decisione più rapida ed efficace. Si dovrebbe allora ricorrere al criterio della competenza funzionale di cui all’art. 665, co. 1, c.p.p.
Un indirizzo dottrinario è critico nei confronti dell’indirizzo giurisprudenziale dominante. Si arriva a sostenere che il settore dell’esecuzione penale è contaminato da interpretazioni deviate, in virtù delle quali la ragione pratica viene sostenuta anche a scapito delle più elementari regole dell’ermeneutica giuridica (Dean, G., Esecuzione penale, cit., 255).
Lo stesso art. 665 c.p.p., poi, prevenendo il conflitto che potrebbe insorgere tra diversi giudici che hanno adottato il medesimo provvedimento in caso di impugnazione (o provvedimenti diversi interessati dalla stessa questione esecutiva), disciplina una serie di ipotesi specifiche.
Il sistema di riparto della competenza, in questo modo, diviene misto, nel senso che al profilo funzionale si affianca anche quello desumibile dalla materia (Corbi, F., L’esecuzione nel processo penale, cit., 179).
In particolare, competente a conoscere dell’esecuzione è la Corte di appello, salvo che il provvedimento sia stato confermato o sia stato riformato soltanto riguardo alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili. In quest’ultimo caso, il giudice dell’esecuzione è quello di prime cure, in applicazione di un’atipica regola di indifferenza dei livelli (Cordero, F., Procedura penale, Milano, 1992, 1198).
Il riferimento per la determinazione della competenza è rappresentato dal dispositivo della sentenza di appello. Se contiene una riforma non sostanziale della decisione, che concerne la pena, le misure di sicurezza o le disposizioni civili, il processo esecutivo deve essere radicato dinanzi al giudice di primo grado. In caso contrario, le questioni che riguardano l’esecuzione vanno proposte alla Corte di appello, cioè al giudice che ha deliberato il provvedimento.
Secondo la giurisprudenza, anche una modifica della sentenza che investa solo una circostanza aggravante o un’attenuante (anche quelle generiche o la recidiva) o il giudizio di bilanciamento integra un aggiustamento sostanziale, idoneo a determinare la competenza come giudice dell’esecuzione della Corte di appello (Cass. pen., 5.5.2010, n. 20010). Analogamente, quando il giudice di appello riconosce la continuazione dapprima negata ovvero dichiara l’estinzione per prescrizione (Cass. pen., 27.10.2009, n. 42896) riforma nella sostanza il decisum.
Non integra una modifica sostanziale in relazione alla pena, invece, una statuizione della Corte di appello che si limiti agli aspetti della non menzione (Cass. pen., 17.10.1994, n. 4590; in senso contrario, però, Cass. pen., 4.2.2010, n. 17176) o del beneficio della sospensione condizionale della pena (Cass. pen., 21.6.2011, n. 34613).
Si ritiene che, qualora a seguito dell’accoglimento dell’appello del magistrato del pubblico ministero la Corte abbia irrogato la pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, si verifica una mera modifica della decisione relativa alla sanzione con la conseguenza che le questioni esecutive sono rimesse al giudice di primo grado (Cass. pen., 19.4.1999, n. 1808).
Una modifica sostanziale della decisione, invece, ricorre anche se il giudice di secondo grado ha operato la riqualificazione giuridica del fatto o solo di uno dei reati riuniti nel vincolo della continuazione (Cass. pen., 20.11.2001, n. 45826) ovvero ha dichiarato l’estinzione di uno degli illeciti (Cass. pen., 14.4.2002, n. 18996).
Può capitare che il dispositivo di una sentenza di appello non permetta di verificare la natura sostanziale o meno della riforma della decisione, lasciando un certo margine d’incertezza per l’individuazione del giudice dell’esecuzione.
Secondo un indirizzo giurisprudenziale, in un simile caso, si deve fare ricorso alla motivazione della sentenza, ad esempio per verificare la concessione di una circostanza attenuante negata dal giudice di primo grado, non desumibile dal dispositivo, a condizione che l’esame della motivazione consenta di ricostruire, chiaramente e inequivocabilmente, il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena (Cass. pen., 7.10.2010, n. 37536).
La Corte di cassazione, inoltre, non può assumere la funzione di giudice dell’esecuzione. Nel caso di annullamento con rinvio della sentenza di appello, pertanto, giudice competente a conoscere dell’esecuzione di essa è sempre il giudice di rinvio. Se invece, il ricorso è dichiarato inammissibile, rigettato o se la sentenza è stata annullata senza rinvio, il giudice competente a conoscere dell’esecuzione è determinato in forza della regola generale. Si tratta di quello di primo grado se la sentenza è stata confermata o riformata in relazione a profili non sostanziali (pena, misure di sicurezza, statuizioni civili) ovvero della Corte di appello.
Nei procedimenti con una pluralità di imputati può capitare che uno o solo alcuni di essi abbiamo proposto appello o che solo rispetto alla posizione di alcuni sia intervenuta una modifica sostanziale della decisione. In questi casi, molto frequenti nella prassi, la Corte di appello è competente a conoscere dell’esecuzione riguardante tutti gli imputati, anche di quella relativa a condannati per i quali sia divenuta definitiva la decisione di primo grado (Cass. pen., 14.7.2011, n. 33062).
Analogamente, se l’annullamento a seguito di ricorso per cassazione riguarda solo uno o alcuni imputati, il giudice dell’esecuzione deve essere individuato, per i procedimenti relativi ai coimputati per i quali la sentenza sia divenuta definitiva, sempre in quello del rinvio e ciò anche qualora questi non si sia ancora pronunciato sulla posizione rinviata al suo vaglio (Cass. pen., 28.4.2009, n. 19374).
Le regole illustrate sono espressione di una sorta di principio di tendenziale unitarietà dell’esecuzione che mira ad evitare giudizi disorganici o contraddittori e che è ispirato ad un criterio di determinazione della competenza diverso da quello espresso dall’art. 665, co. 3, c.p.p.
Il criterio cronologico non trova applicazione in una serie di altre ipotesi specifiche. Se i provvedimenti sono stati emessi da giudici ordinari o giudici speciali, in particolare, è competente in ogni caso il giudice ordinario. Al riguardo, l’art. 40 d.lgs. 28.8.2000 n. 274, in conseguenza dei precisi limiti funzionali del giudice di pace, dispone che se i provvedimenti oggetto del processo esecutivo sono stati emessi dal giudice di pace e da altro giudice ordinario, è competente in ogni caso quest’ultimo. Qualora invece i provvedimenti sono stati emessi dal giudice di pace e da un giudice speciale, è competente per l’esecuzione il tribunale in composizione collegiale nel cui circondario ha sede il giudice di pace.
Se l’esecuzione concerne più provvedimenti emessi dal tribunale in composizione monocratica e collegiale, ai sensi dell’art. 665, co. 4-bis, c.p.p. l’esecuzione è attribuita in ogni caso al collegio. Quest’ultima disposizione palesa una sfiducia per il giudice singolo che difficilmente si concilia con le determinazioni di segno opposto accolte dal legislatore nel processo di cognizione (Gaito, A.,-Ranaldi, G., Esecuzione penale, in Enc. dir., vol. IV Agg., Milano, 2000, 557). Essa, peraltro, disciplina una sorta di competenza interna, in sede esecutiva, nell’ambito di un organo unico quale è il Tribunale. Trova applicazione, pertanto, solo quando si tratta di provvedimenti emessi dallo stesso Tribunale, inteso come stesso ufficio giudiziario (Cass. pen., 2.7.2008, n. 31368; Tonini, P., Manuale di procedura penale, Milano, 2011, 929). La norma, infatti, non è attributiva di competenza territoriale, ossia non può determinare uno spostamento della competenza territoriale in deroga al criterio generale che determina la competenza del giudice che ha emesso la sentenza divenuta irrevocabile per ultima, ma trova applicazione solo quando si tratta di provvedimenti emessi dallo stesso tribunale; solo in questo limitato caso tra giudice monocratico e giudice collegiale prevale quest'ultimo (Cass. pen., 19.6.2012, n. 25080).
La violazione delle regole che determinano la competenza del giudice dell’esecuzione, secondo la dottrina (Corbi, F., L’esecuzione nel processo penale, cit., 186) e la giurisprudenza (Cass. pen., 28.4.2010, n. 18734; Cass. pen., 11.6.2008, n. 240812; Cass., S.U., 20.7.1994, n. 14) comporta la nullità assoluta ed insanabile del procedimento e del provvedimento definitorio dello stesso. Ogni violazione, pertanto, non solo può essere dedotta dalla parte interessata, pubblica o privata, nell’ambito dello stesso procedimento senza preclusioni temporali, mediante i normali criteri apprestati dal legislatore (Cass., pen., 4.7.2008, n. 31946), ma può essere rilevata, pure d’ufficio, anche con il ricorso per cassazione (Cass., S.U., 25.1.2005, n. 4419).
L’atto del giudice incompetente, secondo talune decisioni, sarebbe anche affetto da abnormità sul piano funzionale (Cass., pen., 6.3.2009, n. 23178; Cass. pen., 7.10.2004, n. 43451).
Sebbene la competenza funzionale del giudice dell’esecuzione abbia carattere funzionale, assoluto e inderogabile, tuttavia, la relativa questione, se non dedotta tempestivamente, non può più essere fatta valere dopo l’avvenuta definizione del procedimento esecutivo (Cass. pen., 2.12.2009, n. 49378). Il provvedimento del giudice dell’esecuzione, infatti, anche se privo di competenza funzionale, una volta divenuto formalmente irrevocabile, preclude una nuova decisione sullo stesso oggetto, salvo che non si prospettino nuovi dati di fatto o nuove questioni giuridiche.
Il giudice dell’esecuzione può declinare la propria competenza. Questa decisione non è impugnabile, ma può comportare l’insorgere di un conflitto negativo di competenza, ad iniziativa del giudicante successivamente adito. Seppur il provvedimento del giudice dell’esecuzione è un’ordinanza e non una sentenza, infatti, deve ritenersi applicabile l’art. 568 c.p.p. che enuncia una regola generale valida anche nel procedimento in esame (Cass. pen., 7.4.2005, n. 2667).
Il giudice investito di una richiesta in sede di esecuzione, tuttavia, potrebbe dichiarare la propria incompetenza senza indicare contestualmente l’autorità giudiziaria competente e, quindi, senza consentire la denuncia di conflitto, determinando la stasi del procedimento. La decisione negativa, in tale caso, è impugnabile con il ricorso per cassazione, ponendosi al di fuori del sistema processuale e non permettendo l’insorgenza di un conflitto tra giudici (Cass. pen., 18.9.2009, n. 38394).
Non sussiste conflitto negativo di competenza neppure se il giudice, cui gli atti siano stati trasmessi da altro giudice dichiaratosi incompetente, ritenga a sua volta competente un terzo giudice, non ancora pronunciatosi sulla competenza (Cass. pen., 22.3.2011, n. 13620).
Art. 665 c.p.p.
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