NEGRI, Giuditta
NEGRI (Pasta), Giuditta (Angiola Maria Costanza Giuditta). – Figlia di Carlo Antonio, di nobile famiglia veneta (forse con ascendenza ebraica), farmacista, e di Rachele Ferranti, nacque a Saronno il 26 ottobre 1797.
Durante l’infanzia Giuditta (detta familiarmente Git) fu affidata alla nonna materna, Rosalinda Luraghi, residente in Como col figlio Filippo; quest’ultimo, dilettante di musica, rilevò le doti musicali della nipote e le fece impartire le prime lezioni di canto da Bartolomeo Scotti, maestro di cappella del duomo comasco. A 12 anni la ragazza si esibì per la prima volta, durante una festa cittadina, nella chiesa di S. Cecilia. Nel 1811 si trasferì a Milano con lo zio, venendo a contatto con un contesto artistico di notevole stimolo formativo: ricevette consigli di arte musicale da Pietro Rai, vicecensore del Conservatorio, e di arte scenica da Antonia Pallerini, acclamata danzatrice, nonché la protezione del celebre contralto Giuseppina Grassini, che la affidò a Giuseppe Scappa, insegnante di canto al teatro alla Scala. Alla scuola di Scappa conobbe Giuseppe Pasta, laureato in giurisprudenza e tenore dilettante, col quale si unì in matrimonio a Milano nel gennaio 1816: da allora si fece chiamare col nome da maritata. In febbraio-marzo 1816 esordì a Milano, teatro dei Filodrammatici, in Lopez de Vega di Scappa (parte di Isabella) e La contesa di Rai (Elisa).
In giugno-settembre era già a Parigi, Théâtre Italien, su raccomandazione di Ferdinando Paer, per Il principe di Taranto di Paer stesso (Rosina), Don Giovanni di Mozart (Donna Elvira) e Giulietta e Romeo di Nicola Zingarelli (Giulietta). Tra gennaio e luglio 1817 cantò sia a Londra nel teatro di Haymarket, in Penelope di Domenico Cimarosa (Telemaco), Griselda e Agnese di Paer (Lisetta, Vespina), Le nozze di Figaro, Così fan tutte e La clemenza di Tito di Mozart (Cherubino, Despina, Servilia) e Lo sbaglio fortunato di Giacomo Gotifredo Ferrari (prima assoluta), sia, in febbraio-marzo, a Parigi, all’Italien, nell’Italiana in Algeri di Gioachino Rossini (Zulma) e in Così fan tutte.
La stagione degli esordi registrò successi cordiali ma non entusiastici, e fu interrotta da gravidanza, nascita e divezzamento della figlia Clelia, nata a Milano il 27 marzo 1818.
In settembre fu a Venezia, teatro di S. Benedetto, in Quanti casi in un sol giorno di Vittorio Trento (Lisetta) e Adelaide e Comingio di Giovanni Pacini (Adelaide); in ottobre-novembre a Padova, teatro Nuovo, nella Cenerentola di Rossini (Angelina) e in Adelaide e Comingio. Nel carnevale 1818-19 cantò a Roma, teatro Argentina, in due prime, Danao re d’Argo di Johann Simon Mayr (Argia) e Giulio Cesare nelle Gallie di Giuseppe Nicolini (Clodomiro), e in Aureliano in Palmira di Rossini (Arsace; fino a fine carriera brillò nei ruoli en travesti). In luglio-settembre fu a Brescia, teatro Grande, per La morte di Cleopatra di Sebastiano Nasolini e Gli Orazi e i Curiazi di Cimarosa (Curiazio); nel carnevale 1819-20 a Trieste, teatro Comunale, per Il barone di Dolsheim di Pacini (Amalia), La Cenerentola, I virtuosi di Mayr, La festa patria di Giuseppe Farinelli (prima) e Agnese; in giugno-luglio a Padova, Nuovo, per Fedra di Ferdinando Orland (Ippolito) e Gli Orazi e i Curiazi al fianco della Grassini; in settembre-novembre a Torino, teatro Carignano, per La sposa fedele e La schiava di Bagdad di Pacini (Teodora, Zora) e Sargino di Paer (Sofia).
Riscosse un successo decisivo nel carnevale 1820-21 a Venezia, alla Fenice, in altre due prime: La conquista di Granata di Nicolini (Gonzalvo) e soprattutto Arminio di Stefano Pavesi (Arminio). All’indomani di tali spettacoli tornò – stavolta in modo continuativo e trionfale – a Parigi (Italien) e Londra (Haymarket), moltiplicando nel contempo le apparizioni concertistiche. In giugno-novembre 1821 si fece ammirare come Desdemona nell’Otello di Rossini a Parigi, dove cantò anche in Don Giovanni (Donna Anna, parte che in seguito mantenne sempre), Giulietta e Romeo (Romeo) e Camilla di Paer (Camilla). Nel carnevale 1821-22 fu a Torino, teatro Regio, in Eduardo e Cristina di Rossini (Eduardo) e I riti di Efeso di Farinelli (Clearco). In marzo 1822 - aprile 1824 fu di nuovo nella compagnia dell’Italien a Parigi, in Giulietta e Romeo, Tancredi, Elisabetta regina d’Inghilterra e Mosè in Egitto di Rossini (Tancredi, Elisabetta, Elcìa), Camilla, Otello, La clemenza di Tito (Sesto), Medea in Corinto e La rosa bianca e la rosa rossa di Mayr (Medea, Enrico), Gli Orazi e i Curiazi, Elisa e Claudio di Mercadante (Elisa) e Nina di Paisiello (Nina).
Il patetico dramma semiserio di Paisiello fu poi per anni un suo cavallo di battaglia, insieme con le parti di Romeo, Desdemona, Medea e Tancredi; a proposito di quest’ultimo personaggio, il ‘melodramma eroico’ di Rossini essendo tratto da una famosa tragedia di Voltaire, il critico della Quotidienne così lodò la «noblesse imposante» della cantante-attrice: «elle chante la pièce italienne et joue la pièce française» (Mongrédien 2008, V, pp. 83 s.); e della sua Medea il critico del Journal des Débats, Castil-Blaze, elogiò la «transition sublime» dalla tenerezza materna al furore infanticida, «préparée avec beaucoup d’art et exécutée avec une force de sentiment, une vérité effrayante dans les accents et le geste» (ibid., pp. 225 s.).
A questo nucleo di opere d’affezione, riprese a ripetizione a Londra e Parigi (Nina, Giulietta e Romeo, Tancredi, Otello, Medea in Corinto e poche altre), si aggiunsero via via altri titoli notevoli (una cronologia analitica è in Appolonia 2000).
In aprile-luglio 1824, a Londra, Pasta cantò la Semiramidedi Rossini (il compositore disse di vedere in lei «la vera Semiramide»; Gossett 1984). A Parigi (giugno 1825 - marzo 1826) cantò Il viaggio a Reims di Rossini (prima; Corinna), Il crociato in Egitto di Meyerbeer (Armando), La rosa bianca e la rosa rossa (nella parte di Edoardo) e Zelmira di Rossini (il quale revisionò ad hoc la partitura). In aprile-luglio 1826 ripeté a Londra Otello, Giulietta e Romeo, Tancredi, Nina, Medea in Corinto e Zelmira. Del magnetismo emanato dall’interprete di questi due ultimi personaggi – Medea «ebbra di frenesia, lacerata dagli spasmi della pietà materna eppur protesa al suo raccapricciante trionfo», Zelmira che al colmo della tragedia suscita «un fremito di terrore col gesto e la declamazione» – diede un memorabile resoconto Henry F. Chorley (1862, I, pp. 134 s.). In novembre 1826 - marzo 1827 diede Medea in Corinto al S. Carlo di Napoli (dove l’opera era stata tenuta a battesimo nel 1813 da Isabella Colbran), oltre a Niobe di Pacini (prima), Gabriella di Vergy di Michele Carafa (con apposite revisioni dell’autore) e Giuditta di Pietro Raimondi (prima); si esibì anche nel teatro del Fondo.
In maggio 1827 - luglio 1828 a Londra creò Maria Stuarda regina di Scozia di Carlo Coccia e Didone abbandonata di Mercadante, e in quattro recite si produsse nel ruolo eponimo dell’Otello, lasciando a Henriette Sontag la parte di Desdemona (il critico del Times la paragonò all’attore Edmund Kean); diede recite e concerti in varie città d’Irlanda, Inghilterra e Scozia. In febbraio-marzo 1829 fu scritturata al teatro di Porta Carinzia di Vienna: l’imperatore Francesco I le conferì il titolo di «prima cantatrice di camera».
In aprile-luglio cantò a Milano, teatro Carcano, in agosto a Como, teatro Sociale, e in novembre a Bologna, teatro Comunale. Nel carnevale 1829-30 cantò a Verona, teatro Filarmonico (prima di Malek Adel di Nicolini); in marzo a Mantova, teatro Sociale. In aprile-giugno tornò a Vienna, Porta Carinzia: con Giovan Battista Rubini diede Il pirata di Bellini (Imogene). Nel carnevale 1830-31 a Milano, Carcano, varò Anna Bolena di Gaetano Donizetti (Anna) e La sonnambula di Bellini (Amina), opere che portò con sé a Londra in maggio-luglio e a Parigi in settembre-ottobre, dove diede anche La prova di un’opera seria di Francesco Gnecco (Corilla).
Risale all’estate 1830 l’idea di un Ernani – tratto dal contestato dramma di Victor Hugo – concepita da Bellini e Pasta d’intesa col librettista Felice Romani: alla cantante sarebbe toccato il ruolo eponimo; ma il progetto fu lasciato cadere, per timori censorii, e gli venne anteposta Norma, tratta dall’omonima tragedia di Alexandre Soumet, che Bellini, scrivendo alla cantante il 1° settembre 1831, reputava adatta «pel vostro carattere enciclopedico».
Nel carnevale 1831-32 alla Scala di Milano varò due prime, appunto Norma di Bellini e Ugo conte di Parigi di Donizetti (Bianca); in agosto-settembre a Bergamo riprese Norma al teatro Riccardi. Nel carnevale 1832-33 alla Fenice di Venezia creò Beatrice di Tenda di Bellini. In maggio-luglio a Londra, cantò Semiramide al fianco di Maria Malibran come Arsace (fu questa l’unica volta che le due ‘stelle’ condivisero il palcoscenico) e I Capuleti e i Montecchi di Bellini (Romeo). Nel carnevale 1833-34 a Venezia, Fenice, diede Fausta di Donizetti, Anna Bolena ed Emma d’Antiochia di Mercadante (prima); in marzo nella stessa città, alla Società Apollinea, presentò una selezione di brani da Norma. In settembre-novembre riapparve a Bologna, Comunale, in gennaio-febbraio 1835 a Milano, Scala, Emma d’Antiochia e Norma.
Il declino vocale palesato negli ultimi spettacoli, unito al silenzio compositivo di Rossini, alla prematura scomparsa di Bellini e di Malibran (ossia dell’unica concorrente che fosse davvero alla sua altezza nei teatri d’Europa), nonché all’interesse frattanto maturato da Donizetti per l’opera francese a discapito di quella italiana, la indussero al definitivo ritiro dalle scene italiane e a rallentare i ritmi delle apparizioni teatrali all’estero, intensificando semmai, a partire dal 1837, l’attività concertistica.
Cantò ancora in teatro a Londra in giugno-luglio 1837, allo Haymarket (Giulietta e Romeo, Medea in Corinto e Tancredi) e al Covent Garden (I Capuleti e i Montecchi,Tancredi e Medea); in settembre a Plymouth nei Capuleti (pasticcio di musiche di Zingarelli e Bellini); da dicembre 1840 a maggio 1841 a Pietroburgo, teatro Bol’šoj Kamennyj (Nestor Kukol’nik lasciò una notevole testimonianza narrativa dell’arte scenica della Pasta nel racconto Tre opere; cfr. Buckler, 2000); in luglio a Berlino, Hoftheater; in settembre a Lipsia (Tancredi).
Dei severi problemi d’intonazione che ormai la affliggevano resta testimonianza in lettere di Fanny Hensel (13 luglio) e Felix Mendelssohn (23 agosto), e in un appunto del diario di Robert Schumann (17 settembre 1841). Quanto all’attività concertistica, in gennaio 1838 si esibì nel salotto milanese di Rossini e Olympe Pélissier, e l’8 giugno all’accademia che a Londra, Haymarket, la vide per l’ultima volta a fianco di una schiera di divi della sua generazione (Giulia Grisi, Fanny Tacchinardi Persiani, Laure Cinti-Damoreau, Giovanni Battista Rubini, Nicola Ivanoff, Antonio Tamburini e Luigi Lablache). Dal 24 agosto al 15 settembre prese malvolentieri parte alle celebrazioni in onore dell’Imperatore, disceso nel Regno Lombardo-Veneto. Dall’ottobre 1840 l’attività concertistica, proseguita soprattutto per bisogno di liquidità, la spinse fino a Varsavia, San Pietroburgo, Mosca, Riga, Tilsit, Berlino e Dresda.
Col ritiro dalle scene, la cantante prese stabile residenza a Blevio, presso Como, nella villa che aveva acquistato nell’estate 1827. L’8 marzo 1846 perse il marito, che dopo l’iniziale condivisione della carriera l’aveva sempre assistita nei viaggi e nell’investimento dei proventi. Nel 1848, dapprima all’avvento e quindi allo scoppio della prima guerra d’indipendenza, ostentò il suo sentimento antiaustriaco aiutando economicamente profughi politici e mettendo a disposizione dei compatrioti il suo palazzo milanese nonché i sei cannoni già usati per salutare l’arrivo dell’Imperatore alla villa di Blevio; il 23 marzo, durante la cerimonia di ringraziamento sulla vetta del Pizz sopra Brunate per la cacciata degli austriaci, spiegò a sorpresa la voce sventolando il Tricolore. Reinsediatisi gli austriaci a Milano, fu punita con l’esilio, scontato per qualche tempo a Lugano, dove il 5 settembre prese parte a un concerto insieme con altri musicisti esuli.
Le ultime apparizioni artistiche documentate risalgono ai concerti tenuti nel luglio 1850 a Londra, Covent Garden e Haymarket; in quell’occasione pubblicò un’arietta da lei composta, Invito alla campagna (ed. in Una voce poco fa..., ovvero le musiche delle primedonne rossiniane, a cura di P. Adkins Chiti, Roma 1992): dedicato alla figlia, il brano riflette le caratteristiche vocali della cantante nei suoi anni migliori, dall’estensione richiesta – oltre due ottave, dal La grave al Do sopracuto – all’ornamentazione assai minuta.
Rientrata in Lombardia, per le difficoltà incontrate nell’ottenere il rinnovo del passaporto declinò nuove proposte di scrittura all’estero. Dopo il suicidio del genero Eugenio Ferranti nel 1861, si trattenne a Blevio ancora per tre anni, quindi, insieme con la figlia e la prole di lei, si stabilì nella casa materna di Como.
Ammalatasi di bronchite, morì a Como il 1° aprile 1865.
Per Regli (1860, pp. 383 s.), «il nome di Giuditta Pasta è segnato ad indelebili cifre negli annali della musica italiana, e come somma cantante, e come inarrivabile attrice. Ella possedeva ad un tempo il contralto e il soprano, la voce di petto e di testa, l’ingegno di regolare queste contraddizioni secondo il bisogno musicale, e le inspirazioni di un’anima informata a sentimento squisito e sublime. Era in lei la virtù di farsi udire, non coll’imporre fatiche preternaturali alla sua gola, ma col meritarsi il silenzio della fervente attenzione da uditori rapiti ai magici suoi modi d’adoperare la voce. Era in lei la peregrina virtù di destare l’applauso con un solo gesto, con un’occhiata». Le cronache dell’epoca e le caratteristiche delle partiture modellate sulla sua personalità danno in effetti conto di una vocalità estesa su più registri (quantomeno dal La grave al Re sovracuto, con evidenti scarti nel passaggio da un registro all’altro: nel 1824 Stendhal descrisse analiticamente l’affascinante «opposition de ses deux voix»), di un timbro un poco velato e del possesso impavido delle note più acute ma non di tessiture troppo elevate (secondo una tradizione non documentata ma verosimile, Casta diva che inargenti, la celebre cavatina di Norma composta in origine in Sol maggiore, sarebbe stata abbassata di un tono onde evitare alla cantante un eccessivo sforzo); notevole fu anche il dominio del canto d’agilità, seppure più per caparbietà d’esercizio tecnico che per dote di natura, come dimostra la preferenza data a parti dalla scrittura vieppiù spianata. Ammirata venerazione suscitarono in particolare, nel canto e sulla scena, la commovente forza dell’accento drammatico e la magistrale compostezza neoclassica della gestualità, capace d’immedesimarsi nel pathos muliebre più flebile (Nina, Amina, Desdemona) come nella regalità costernata o vilipesa (Semiramide, Anna Bolena), nell’eroismo ispirato (Zelmira, Norma) come nel furore omicida (Medea) e, sul versante virile, nella lugubre mestizia (Romeo) come nella cavalleresca fermezza (Tancredi). L’insieme di tali caratteristiche musicali e attoriali le eresse intorno il mito, romantico ma veritiero, di un «organo vocale ribelle» dominato al tempo stesso da un istinto espressivo impetuoso e da una ferrea autodisciplina drammatica («Madame Pasta suppléa aux imperfections de son organe par un travail incessant, par un style noble, tendre et savant»; Scudo, 1856, p. 125).
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