Abstract
Nell’ambito della giustizia penale differenziata, il giudizio abbreviato si inserisce nel solco dei procedimenti speciali deflativi del dibattimento. Riformato dalla l. n. 499/1999, esso presenta caratteristiche del tutto nuove rispetto all’impianto originario, costituendo oggi un modello deflativo dall’accesso automatico: all’imputato, infatti, è riconosciuto un vero e proprio diritto a rinunciare al contraddittorio per la prova in cambio di un apprezzabile effetto premiale in caso di condanna.
Originariamente fondato sul paradigma della logica negoziale, il giudizio abbreviato, richiesto dall’imputato, con il consenso del p.m., era concepito come un procedimento semplificato attraverso il quale, in forza dell’accordo sul rito, si chiedeva l’anticipazione della decisione nell’udienza preliminare. Tuttavia, a differenza di quanto stabilito per il patteggiamento sulla pena, il p.m. era libero di prestare o no il consenso, senza per ciò essere vincolato a parametri tipizzati, e l’eventuale dissenso non era sottoposto ad alcun sindacato giurisdizionale. Il giudizio abbreviato era adottato dal giudice in base al criterio della “decidibilità allo stato degli atti”, con ciò intendendosi, da un lato, che dagli elementi probatori acquisiti sino alla presentazione della richiesta non fossero emerse lacune superabili con un’integrazione probatoria, e, dall’altro, che per volontà delle parti l’ordinaria sequenza degli stati epistemici veniva interrotta “artificialmente”, congelando uno stato degli atti su cui doveva maturarsi la decisione del giudice (Di Chiara, G., Giusto processo, giusta decisione e riti a prova contratta, in Il giusto processo, Atti del Convegno presso l’Università di Salerno, 11-13 ottobre 1996, Milano, 1998, 232). Coerentemente con la scelta di sistema adottata dal legislatore del 1988, il giudice, infatti, era privato di qualsiasi potere istruttorio, dovendo utilizzare, ai fini della decisione, esclusivamente gli atti delle indagini preliminari. In altri termini, «il meccanismo convenzionale basato sulla rinuncia al diritto alla prova e il limite dello stato degli atti finivano con il prevalere sulle esigenze di accertamento reale del fatto» (Negri, D., Il «nuovo» giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di F. Peroni, Padova, 1999, 470).
Sul modello originario del rito abbreviato è intervenuta più volte la Corte costituzionale. A partire dal 1991 il Giudice delle leggi ha avviato un percorso orientato a risolvere una serie di criticità immediatamente emerse, sintomatiche della necessità di adeguare l’impianto ai principi costituzionali. È, infatti, con la decisione n. 81/1991 che la Corte costituzionale dichiarava costituzionalmente illegittimi, ex art. 3 Cost., gli artt. 438, 439, 440 e 442 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano un vaglio giurisdizionale sulla scelta del p.m. di non prestare il consenso all’abbreviato. Veniva sottolineato, da un lato, come l’organo inquirente, con un semplice atto di volontà immotivato, e quindi incontrollabile, di fatto privasse l’imputato di un «rilevante vantaggio sostanziale», ponendosi quale ostacolo insormontabile all’applicabilità della diminuente prevista dall’art. 442, co. 2, c.p.p.; dall’altro, come si corresse il rischio di trattare in modo diseguale due imputati destinatari di un’identica imputazione e portatori di un’analoga capacità a delinquere allorché il p.m. avesse assunto una posizione consenziente nei confronti dell’uno e dissenziente nei confronti dell’altro, «senza nemmeno dover esternare le ragioni e vederle sottoposte ad un qualsiasi controllo giurisdizionale» (C. cost., 15.2.1991, n. 81). Su tali premesse, la Corte individuava nel giudice del dibattimento l’organo più idoneo a verificare se il dissenso del p.m. fosse da ritenere ingiustificato e, lì dove la verifica si fosse risolta positivamente, a riconoscere all’imputato la riduzione della pena prevista dall’art. 442, co. 2, c.p.p. Seguendo il medesimo ragionamento, la Corte indicava il medesimo giudice del dibattimento quale organo di controllo più adatto a verificare la sussistenza del parametro della non definibilità del giudizio “allo stato degli atti” posto a fondamento del provvedimento di rigetto della richiesta di abbreviato presentata dell’imputato e a cui il p.m. aveva dato il proprio consenso (C. cost., 31.1.1992, n. 23). A tali dicta ne seguivano altri, volti a superare il limite imposto dal parametro della definibilità del procedimento “allo stato degli atti”, rilevandosi come lo stesso finisse con l’essere condizionato dal quomodo delle indagini svolte dagli organi inquirenti, precludendo, in caso di lacune o imprecisioni investigative, la concreta praticabilità del rito prescelto dall’imputato. Non potendo, tuttavia, la Corte risolvere la questione mediante un intervento additivo, si invitava a più riprese il legislatore a mettere ordine nella materia attraverso l’introduzione di meccanismi di integrazione probatoria (C. cost., 9.3.1992, n. 92; C. cost., 1.4.1993, n. 129; C. cost., 16.2.1993, n. 56).
Come detto, gli interventi della Corte costituzionale sfociarono in un vero e proprio appello a una risolutiva iniziativa legislativa, devoluto in forma di ultimatum nella pronuncia n. 442/1994, ove il Giudice delle leggi, nel quadro di una organica e generale riforma del giudizio abbreviato, chiedeva al legislatore di provvedere tempestivamente a correggere «la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali» (C. cost., 23.12.1994, n. 442). La tanto attesa riforma legislativa giungeva nel 1999, con la l. 16.12.1999, n. 479, con la quale furono riscritti i nuovi connotati del giudizio abbreviato. Ne è derivato un rito dal volto del tutto rinnovato. La riforma si era avvertita come necessaria anche al fine di incentivarne l’adozione: l’assetto originario aveva avuto, infatti, un riscontro assai parziale e inadeguato alle aspettative. Il legislatore del 1999 ha, quindi, coniato un diverso modello con l’intento esplicito di farlo diventare, sul piano statistico, «ordinario», aspirando a una sua applicazione tendenzialmente generalizzata (Marzaduri, E., Quell’ingorgo sulla strada delle riforme che rischia di travolgere l’interprete, in Guida dir., 1999, fasc. 46, 8). A tal fine, le modifiche hanno toccato ogni aspetto qualificante del rito, dal momento della scelta al presupposto di ammissione, dalla gamma di reati per i quali si può procedere con tale rito al regime di pubblicità dell’udienza e ai limiti di impugnazione della sentenza. Il solo carattere rimasto inalterato ha riguardato la sua natura premiale, che seguita a essere computata in modo fisso, prevedendosi uno sconto della pena che il giudice intenda irrogare pari a un terzo.
Le novità riguardanti i presupposti del nuovo rito abbreviato assumono contorni assai pregnanti. Il rito è, infatti, ammesso dal giudice su richiesta del solo imputato, non essendo più necessario né il consenso del p.m. né la preliminare delibazione da parte del giudice sulla definibilità del procedimento “allo stato degli atti”. L’imputato diviene, pertanto, titolare di un vero e proprio diritto a rinunciare alle garanzie dibattimentali proprie del giudizio ordinario in cambio dell’effetto premiale previsto in caso di condanna, grazie a un modello deflativo dall’accesso ormai automatico: se richiesto, il giudice è tenuto a disporlo con ordinanza, privando di conseguenza il p.m. del proprio diritto al contraddittorio per la prova (parla di «‘diritto’ a ottenere lo sconto di pena», Tranchina, G., I procedimenti alternativi nella giurisprudenza costituzionale, in I nuovi binari del processo penale. Tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Atti del convegno presso l’Università di Napoli, Caserta-Napoli, 8-10 dicembre 1995, Milano, 1996, 122; critico Cordero, F., Procedura Penale, VIII ed., Milano, 2009, 1064, per il quale l’acquisito “diritto al premio” implicherebbe un automatismo che dissona dall’art. 101, co. 2, Cost). Il p.m. è, infatti, «ridotto a passivo spettatore delle altrui scelte» (Di Chiara, G., Sub art. 438, in Codice di procedura penale commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Milano, 2010, 5487), non essendogli riconosciuto alcun diritto di interlocuzione sulla richiesta dell’imputato, salvo il diritto all’ammissione della prova contraria nell’ipotesi prevista dall’art. 438, co. 5, c.p.p. Viene meno, dunque, la tradizionale logica contrattuale dell’accordo tra le parti su cui era fondata l’impalcatura originaria del vecchio modello, benché la possibilità di ricondurre la manifestazione di volontà del solo imputato allo schema del «negozio unilaterale» abbia indotto parte della dottrina a ritenere non soppressa, invece, la logica negoziale (Negri, D., op. cit., 456).
Sono previsti due modelli di giudizio abbreviato: quello “ordinario” e quello “condizionato”. A differenza del primo modello, ove l’imputato chiede che il processo sia definito in udienza preliminare “allo stato degli atti”, in quello cd. “condizionato”, l’imputato chiede che l’ammissione del rito sia subordinata alla condizione che si proceda a una determinata integrazione della prova, ritenuta necessaria ai fini della decisione. Si è voluto così «riequilibrare la posizione della difesa rispetto a una ricostruzione della fattispecie basata in prevalenza sugli atti dell’accusa» (Negri, D., op. cit., 477). A fronte della richiesta “condizionata”, il giudice è tenuto a compiere una duplice valutazione, verificando, sulla base degli atti già acquisiti e utilizzabili, da un lato, che la prova ad integrandum risulti necessaria per la decisione e, dall’altro, che la sua acquisizione non contrasti con le finalità di economia processuale proprie del rito. L’esito positivo del vaglio porrà il giudice nelle condizioni di potere accogliere la richiesta sub condicione così come presentata dall’imputato, non essendogli consentito né di modificare i termini della condizione apposta, né di disporre un accoglimento parziale, (il provvedimento che accoglie parzialmente la domanda di rito abbreviato condizionato è stato ritenuto abnorme da Cass. pen., sez. VI, 23.10.2008, n. 42696, e il relativo vizio, inquadrato nella nullità di cui all’art. 179, lett. c, c.p.p., potrà essere dedotto in appello, e, se non impugnato, dovrà ritenersi sanato). Nel caso di diniego, resta salva la possibilità per l’imputato di ripresentare la richiesta non oltre le conclusioni formulate nell’udienza preliminare; la stessa dovrà essere diversamente modulata tenendo conto dell’orientamento espresso, anche in forma officiosa, dal giudice circa i confini dell’integrazione probatoria ritenuti compatibili con l’esigenza di speditezza del procedimento (Negri, D., op. cit., 477, che parla di spazio riservato a eventuali «aggiustamenti progressivi»). La mancanza di un’esplicita norma che preveda un controllo successivo del diniego ha fatto riemergere quei profili di incostituzionalità affrontati dalla Consulta nel 1992, non potendosi attribuire in modo preclusivo al giudice dell’udienza preliminare l’extremum verbum sulla scelta dell’imputato, incidendo in modo significativo sulla misura della pena. La Corte costituzionale ha, così, definitivamente messo un punto sulla quaestio relativa all’immanenza, nel sistema, del principio della necessità di un sindacato giurisdizionale da parte del giudice del dibattimento sul precedente rigetto della richiesta di giudizio abbreviato “condizionato”. Nulla osta, quindi, a che sia lo stesso giudice del dibattimento a celebrare il giudizio abbreviato qualora, riproposta, prima dell’apertura del dibattimento, la richiesta ex art. 438, co. 5, c.p.p., ritenga ingiustificato il precedente rigetto disposto in udienza preliminare (C. cost., 23.5.2013, n. 169). La riproposizione della richiesta – hanno, in seguito, affermato le Sezioni Unite – è presupposto operativo del meccanismo di controllo introdotto dalla Consulta (Cass. pen., S.U., 27.10.2004, n. 44711). Con la tale decisione i giudici di legittimità hanno colmato diverse lacune che, sul piano operativo, residuavano dopo la sentenza n. 169/2013, stabilendo, tra l’altro, come, tanto il giudice del dibattimento quanto quello d’appello, in ipotesi di conferma del rigetto della richiesta riproposta o presentata per la prima volta in giudizio, siano comunque tenuti, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, a rivalutarne funditus i presupposti e, di conseguenza, applicare la diminuente prevista dall’art. 442, co. 2, c.p.p. qualora considerino infondato il precedente diniego. È, inoltre, precisato come il controllo non dovrà condursi esclusivamente sulla base del criterio storico – mediante, cioè, una prognosi postuma ex ante – dovendosi tener conto anche del concreto andamento dell’istruttoria dibattimentale che, pertanto, concorrerà «quale strumento di misurazione e verifica di ragionevolezza della decisione sindacata» (Cass. pen., 11.7.2014, n. 48642).
Ad azione penale esercitata mediante richiesta di rinvio a giudizio, il rito abbreviato può essere chiesto nel corso dell’udienza preliminare dall’imputato, oralmente o per iscritto, «fino a che non siano formulate le conclusioni» a norma degli artt. 421 e 422 c.p.p. Sull’individuazione del dies ad quem si è formato un contrasto giurisprudenziale risolto recentemente dalle Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 15.5.2014, n. 20214). Il quesito era il seguente: se può ritenersi tempestiva la richiesta di giudizio abbreviato, proposta nel corso dell’udienza preliminare, prima che il giudice dichiari chiusa la discussione ma dopo le conclusioni del p.m. I giudici di legittimità, dopo avere chiarito come la richiesta di giudizio abbreviato possa essere formulata, anche per la prima volta, a seguito dell’attività di integrazione probatoria svolta dal giudice nell’udienza preliminare ai sensi degli artt. 421 bis e 422 c.p.p., essendo un dato ormai pacifico che ha riscontro non solo normativo ma anche interpretativo, hanno posto l’accento sui diversi momenti in cui si snoda lo svolgimento dell’udienza preliminare, ognuno tra loro concettualmente distinto e separato, stabilendo che la fase delle «conclusioni», cui si riferisce l’art. 438 c.p.p., coincide con il momento in cui ogni singola parte vi procede in via definitiva. È, dunque, questo il momento ultimo in cui è possibile chiedere il rito abbreviato, successivamente, cioè, alla formulazione delle conclusioni da parte del p.m., e non quello in cui l’ultimo difensore prende la parola, in quanto ad assumere un rilievo decisivo per le scelte dell’imputato sono soltanto le conclusioni del p.m. e non anche quelle degli altri imputati.
Se nel corso dell’istruzione dibattimentale il p.m. modifica l’imputazione ai sensi degli artt. 516 e 517 c.p.p., l’imputato ha il diritto di chiedere il giudizio abbreviato in relazione alla nuova contestazione, sia essa “fisiologica” o “patologica”. La restituzione di termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni sul rito è il risultato di una serie di interventi additivi della Corte costituzionale volti a porre rimedio a situazioni reputate lesive del principio di uguaglianza e dell’inviolabilità del diritto di difesa (C. cost., 30.6.1994, n. 265; C. cost., 18.12.2009, n. 333; C. cost., 26.10.2012, n. 237; C. cost., 5.12.2014, n. 273).
Il giudizio abbreviato si svolge, di regola, in camera di consiglio. La segretezza dell’udienza, infatti, evitando lo strepitus fori, funge da incentivo per l’imputato. Tuttavia, la l. n. 479/1999 ha introdotto la possibilità per l’imputato di chiedere, formalmente e prima che l’udienza abbia inizio, che il rito si svolga nella forma pubblica. La volontà dell’imputato prevale sulle altre parti, sicché qualora lo richieda, non sarà necessaria neanche l’autorizzazione del giudice. Se vi sono più imputati, allora occorrerà che tutti si esprimano a favore della pubblicità dell’udienza, altrimenti si procederà in camera di consiglio. Alla parte civile è concessa la facoltà di non accettare il rito semplificato, nel qual caso se il giudice pronuncia sentenza di proscioglimento, tale provvedimento non avrà efficacia di giudicato e il danneggiato dal reato potrà esercitare l’azione risarcitoria in sede civile senza subire la sospensione del processo fino alla pronuncia della sentenza definitiva penale, prevista dall’art. 75, co. 3, c.p.p. Per contro, se la parte civile accetta il rito, si applicherà la predetta sospensione e la sentenza penale passata in giudicato farà stato in sede civile. Quanto alla titolarità di un proprio diritto alla prova, questo è escluso, residuando in capo alla parte civile un mero potere sollecitatorio dell’attività di integrazione probatoria ex officio, di cui all’art. 441, co. 5, c.p.p.
Come detto, con il nuovo modello di rito abbreviato viene meno la caratteristica di giudizio “a prova contratta”. Un’integrazione della piattaforma probatoria, infatti, potrà essere sollecitata dall’imputato ai sensi dell’art. 438, co. 5, c.p.p., ovvero essere disposta d’ufficio dal giudice ex art. 441, co. 5, c.p.p. La prima ipotesi rimanda all’opzione del modello cd. condizionato. In tal caso non sembra che il legislatore abbia posto alcun limite alla tipologia di prove oggetto dell’integrazione richiesta, che, pertanto, potrà riguardare tutti i mezzi di ricerca della prova e i mezzi di prova previsti dal codice di rito. Tuttavia, per l’assunzione di questi ultimi si procederà con le forme indicate nell’art. 422 c.p.p. La seconda è prevista dall’art. 441, co. 5, c.p.p., che attribuisce al giudice ampi poteri di integrazione probatoria sul presupposto che non possa decidere “allo stato degli atti”. Tale paradigma, quindi, se nel modello originario rappresentava un ostacolo per l’ammissione del rito, oggi, nella ridisegnata struttura, rappresenta, invece, la condizione in presenza della quale è riconosciuto in capo al giudice il potere-dovere di integrare l’insufficiente quadro probatorio, ammettendo, anche d’ufficio, le prove ritenute necessarie ai fini della decisione (Di Chiara, G., Sub art. 441, in Codice di procedura penale commentato, cit., 5525). In giurisprudenza si è puntualizzato come il requisito della “necessità” sia da correlare a una situazione di incompletezza dell’informazione probatoria in atti, rispetto alla quale è possibile pronosticare un suo completamento per il tramite dell’attività integrativa (Cass. pen., 17.3.2009, n. 11558). Le Sezioni Unite hanno, inoltre, stabilito che deve considerarsi necessario quel contributo istruttorio il cui valore probante risiede «nell’oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio» (Cass. pen., S.U., n. 44711/2004 cit.).
L’art. 441 bis c.p.p., introdotto dalla l. 5.6.2000, n. 144, stabilisce che, a seguito dei meccanismi di integrazione probatoria attivabili dall’imputato ai sensi dell’art. 438, co. 5, c.p.p., o dal giudice ex art. 441, co. 5, c.p.p., il p.m. può adeguare l’imputazione alle nuove acquisizioni, procedendo alle contestazioni previste dall’art. 423, co. 1, c.p.p., opzione che, invece, rimane esclusa quando si procede “allo stato degli atti”. In linea di principio, infatti, la modifica dell’imputazione è preclusa nel giudizio abbreviato, salvo che se ne presenti la necessità onde «adeguare il thema decidendi alle nuove risultanze penetrate, in itinere, nell’area del materiale utilizzabile» (Di Chiara, G., Sub art. 441 bis, in Codice di procedura penale commentato, cit., 5530), grazie all’attivazione dei predetti meccanismi integrativi. Trattasi, dunque, di un’ipotesi eccezionale – circoscritta ai casi di modifica dell’imputazione per fatto diverso, reato connesso ex art. 12, co. 1, lett. b), c.p.p. o circostanza aggravante – strettamente legata alle fattispecie che la giustificano (così, C. cost., 14.4.2010, n. 140, ove si chiarisce, altresì, come l’ampliamento dell’accusa non possa scaturire, quand’anche si sia proceduto a iniziative probatorie, da una mera rivalutazione di elementi già acquisiti ma non utilizzati per l’esercizio dell’azione penale). Il rinvio alla disciplina della modifica dell’imputazione nell’udienza preliminare ex art. 423 c.p.p., e non a quella delineata dagli artt. 516 ss. c.p.p., ha, tuttavia, lasciato perplessa parte della dottrina, che ha sottolineato come il carattere proprio del decisum conclusivo del giudizio abbreviato, entrando nel merito della regiudicanda, avrebbe dovuto piuttosto consigliare il ricorso ai meccanismi di modifica dell’accusa tipici della fase dibattimentale (Orlandi R., Sub art. 29, l. 16.12.1999, n. 479, in Legisl. pen., 2000, 457). Formulata la nuova contestazione, sono riconosciute all’imputato due alternative: richiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, oppure scegliere per la prosecuzione del giudizio speciale. Appare chiaro come a fondamento della prima opzione vi sia il diritto dell’imputato a rivalutare la perdurante convenienza del giudizio abbreviato illo tempore richiesto con riguardo all’originaria imputazione. In tale evenienza, infatti, il giudice dovrà revocare l’ordinanza con cui era stato disposto il giudizio abbreviato e fissare l’udienza preliminare per la sua prosecuzione, con evidente regressione del processo alla fase e allo stato in cui fu presentata la richiesta del rito alternativo. È previsto, inoltre, che gli atti di integrazione probatoria compiuti ai sensi degli artt. 438, co. 5, e 441, co. 5, c.p.p., avranno la medesima efficacia di quelli compiuti ai sensi dell’art. 422 c.p.p. e che la regressione del processo preclude all’imputato la riproposizione della richiesta di giudizio abbreviato. Se, invece, l’imputato decide di proseguire con il rito speciale, l’art. 441 bis, co. 5, c.p.p. gli garantisce la possibilità di chiedere, in relazione alle nuove contestazioni, l’ammissione di nuove prove anche oltre i limiti previsti dall’art. 438, co. 5, c.p.p., riservando al p.m. il diritto alla prova contraria. Il giudice, quindi, in fase di ammissione, dovrà attenersi ai più ampi criteri di cui all’art. 190 c.p.p.
Ai fini della deliberazione, il giudice potrà utilizzare gli atti contenuti nel fascicolo depositato dal p.m. insieme alla richiesta di rinvio a giudizio, la documentazione relativa alle eventuali indagini suppletive compiute sia dall’organo inquirente sia dal difensore dell’imputato, nonché le prove assunte tanto nel corso dell’udienza preliminare quanto durante lo svolgimento del medesimo giudizio abbreviato. A prevederlo è l’art. 442, co. 1-bis, c.p.p., inserito dalla l. n. 479/1999. Si tratta per lo più di atti formati al di fuori del contraddittorio, sicché l’utilizzazione degli stessi per la decisione si giustifica grazie al consenso dell’imputato che è implicito nella scelta del rito e nella contestuale rinuncia al diritto alla prova. Nessuna frizione, dunque, con l’art. 111 Cost. venendosi a integrare proprio una delle deroghe che il medesimo precetto costituzionale prospetta al co. 5. Tuttavia, tra gli atti contenuti nel fascicolo del p.m. ve ne potrebbero essere alcuni assunti contra legem. Ed è in merito a questi che si è formato un contrasto giurisprudenziale, poi risolto dalle Sezioni Unite, le quali hanno affermato come l’accesso al rito semplificato, se è in grado di sanare l’inutilizzabilità “fisiologica”, non possa, invece, sanare quella “patologica”, che, come noto, è rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ai sensi dell’art. 191 c.p.p. La natura negoziale del giudizio abbreviato, infatti, non può incidere sul corretto svolgimento del procedimento probatorio e sul potere-dovere del giudice di esserne garante della legalità, sicché è da considerarsi ammissibile l’eccezione d’inutilizzabilità sollevata dall’imputato dopo avere avuto accesso al rito (Cass. pen., S.U., 21.6.2000, n. 16). La soluzione, peraltro, pare trovare un riscontro normativo nell’art. 438, co. 5, c.p.p., ove si fa riferimento «agli atti già acquisiti e utilizzabili» per indicare il materiale di cui il giudice dovrà tenere conto per pronunciarsi sull’ammissibilità o meno della richiesta “condizionata”. Un altro nodo interpretativo ha riguardato il raccordo tra giudizio abbreviato e investigazioni difensive. Si rilevava che i risultati di queste ultime, raccolti unilateralmente da uno degli antagonisti, avrebbero fatto parte integrante del materiale utilizzabile ai fini della decisione, senza per ciò trovare giustificazione nel consenso dell’imputato, giacché questo – a dire del giudice rimettente – può essere espresso soltanto con riguardo agli elementi raccolti dalle altre parti e sfavorevoli al medesimo imputato. Sulla quaestio è intervenuta la Corte costituzionale dichiarandone la infondatezza. Secondo il Giudice delle leggi, l’art. 111 Cost. conterrebbe una «protezione costituzionale specifica per l’imputato, particolarmente in tema di prove», prevedendone, al contempo, una deroga connessa alla sua rinuncia, senza con ciò determinare uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti. Non può, pertanto, dirsi leso il principio della parità delle parti se si consente l’utilizzabilità degli atti di investigazione difensiva: la fase delle indagini è, infatti, caratterizzata da un marcato squilibrio di partenza fra le posizioni delle parti e tale squilibrio non è stato sanato dalle novità introdotte dalla l. 7.12.2000, n. 397 (C. cost., 22.6.2009, n. 184).
L’art. 442, co. 2, c.p.p. prevede, in caso di condanna, che la pena sia diminuita di un terzo. Si tratta di un meccanismo che ha natura processuale e come tale non è assimilabile alle circostanze del reato. La diminuente in questione, pertanto, non è soggetta a giudizio di comparazione, non influisce sui termini di prescrizione (Cass. pen., S.U., 31.5.1991, n. 7707) ed è applicata dal giudice sul quantum della pena che in concreto intenda irrogare, come premio riconosciuto all’imputato che ha optato per un iter processuale contratto dalle garanzie probatorie limitate. Apportando un vantaggio non connesso alle caratteristiche del reato, né alla personalità del reo, si è dubitato della sua legittimità costituzionale, ma la Consulta ne ha rimarcato la piena sintonia con il proposito del legislatore di prevedere in seno all’ordinamento strumenti di rapida e snella definizione del giudizio (C. cost., 11.6.1990, n. 284). Nella versione attuale dell’art. 442, co. 2, c.p.p., si legge che alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta e che alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo. La distinzione tra le due ipotesi è frutto di un innesto intervenuto a distanza di poco tempo dall’entrata in vigore della l. n. 479/1999 che aveva reintrodotto la possibilità – in precedenza dichiarata costituzionalmente illegittima da C. cost., 23.4.1991, n. 176 – di chiedere il rito abbreviato in relazione ai reati puniti con l’ergastolo, prevedendo, in caso di condanna, la sostituzione di quest’ultimo con la pena di anni trenta di reclusione. Sotto la “discussa” etichetta di «Interpretazione autentica dell’art. 442, co. 2, c.p.p.», invero, il legislatore, con l’art. 7 del d.l. 24.11.2000, n. 341, convertito dalla l. 19.1.2001, n. 4, ne modificava il contenuto, al fine, non tanto di risolvere un problema ermeneutico, quanto di rimediare all’irragionevole appiattimento verso il basso della sanzione applicabile in caso di concorso di reati o di reato continuato che era stato provocato dal nuovo dettato normativo immesso dalla l. n. 479/1999.
Originariamente alquanto ampi, i limiti all’appello della sentenza emessa all’esito del giudizio abbreviato sono stati ridimensionati dalla l. n. 479/1999, e circoscritti a due sole ipotesi. La prima impedisce sia all’imputato sia al p.m. di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento (art. 443, co. 1, c.p.p.); la seconda ricade esclusivamente sull’organo dell’accusa, precludendo la possibilità di appellare le sentenze di condanna, ad eccezione di quelle che modificano il titolo del reato (art. 443, co. 2, c.p.p.).
Artt. 438-443 c.p.p.
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