Abstract
Introdotto nell’ordinamento giuridico post-unitario dal codice di procedura penale del 1865 sub specie di procedimento per citazione direttissima, riprodotto nel codice Finocchiaro Aprile del 1913 e disciplinato, tra i giudizi speciali, dal legislatore fascista del 1930, il giudizio direttissimo rinviene la propria regolamentazione vuoi nell’attuale codice di procedura penale (artt. 449–452 e 558 c.p.p.), vuoi in una serie di leggi speciali, susseguitesi nel tempo, che, nonostante l’opzione “limitatrice” prescelta dal legislatore del 1988, parrebbero avere risvegliato «la vecchia tentazione d’usare [il rito de quo] come “strumento di repressione immediata ed esemplare”». L’analisi strutturale e funzionale dell’istituto – che batte sentieri codicistici e non – mette in luce la progressiva tendenza del sistema a muovere verso «modelli secchi» di giudizio direttissimo che, «sganciati da qualsiasi presupposto» riconducibile alla qualificata” evidenza probatoria, si appalesano, nell’ottica dell’imputato, senza dubbio alcuno, censurabili.
Introdotto nell’ordinamento giuridico post–unitario dal codice di procedura penale del 1865 – sulla falsariga delle Courts of police inglesi del 1839 e delle Loi sur les flagrants delict corretionales francesi del 1863 – (art. 371, co. 3, c.p.p. 1865), e riprodotto nel codice di procedura penale del 1913 (artt. 277–280 e 283 c.p.p. 1913), il procedimento de quo fu disciplinato, tra i giudizi speciali, dal codice di procedura penale del 1930, che ne avallò la celebrazione «[q]uando la persona [fosse] stata arrestata nella flagranza di un reato» ovvero «quando il reato [fosse stato] commesso da persona arrestata, detenuta o internata per misura di sicurezza» (artt. 502–505 c.p.p. 1930). Originariamente ancorato, di massima, a parametri improntati alla “qualificata” evidenza probatoria, il giudizio direttissimo fu dapprima esteso a procedimenti aventi ad oggetto i reati annonari (art. 15, d.lgs. 15.9.1947, n. 896), i reati elettorali (art. 112, d.P.R. 30.3.1957, n. 361; artt. 89–91 e 96, co. 2, d.P.R. 16.5.1960, n. 570; art. 1, l. 18.2.1968, n. 108), i reati commessi a mezzo della cinematografia o delle rappresentazioni teatrali (art. 14, l. 21.4.1962, n. 161), i reati in materia di armi, munizioni ed esplosivi (art. 9, l. 2.10.1967, n. 895; art. 35, l. 18.4.1975, n. 110), i reati valutari (art. 4, co. 1 e 2, l. 30.4.1976, n. 159), nonché i delitti di rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione (art. 10, d.l. 18.3.1978, n. 59, conv. in l. 18.5.1978, n. 191), quindi ridimensionato, nella propria portata applicativa, dal codificatore del 1988 che, recependo le critiche mosse da autorevole dottrina (Gaito, A., Il giudizio direttissimo, I, Milano, 1979, 50), ne circoscrisse nuovamente i confini (art. 233 disp. att. c.p.p.). In tempi recenti, non di meno, l’opzione “limitatrice” prescelta dal codice Vassalli sembrerebbe essere stata “scavalcata” «[dal]la vecchia tentazione d’usare [il rito de quo] come “strumento di repressione immediata ed esemplare”» (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, in Procedimenti speciali, a cura di L. Filippi, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, 4, t. 1, Torino, 2008, 355): allo stato, infatti, il p.m. sarà obbligato/autorizzato a procedere con giudizio direttissimo, non solo qualora «una persona [sia] stata arrestata in flagranza di un reato» (art. 449, co.1 e 2, c.p.p.) ovvero «[abbia] reso confessione» nel corso dell’interrogatorio (art. 449, co. 5, c.p.p.), ma anche laddove si tratti di accertare la commissione di reati in materia di manifestazioni sportive (art. 8 bis, l. 13.12.1989, n. 401; art. 8 bis, d.l. 20.8.2001, n. 336, conv. in l. 19.10.2001, n. 377; art. 4, d.l. 8.2.2007, n. 8, conv. in l. 4.4.2007, n. 41), di armi ed esplosivi (art. 12 bis, d.l. 8.6.1992, n. 356, conv. in l. 7.8.1992, n. 356), di discriminazione etnica, razziale e religiosa (art. 6, co. 5, d.l. 26.4.1993, n. 122, conv. in l. 25.6.1993, n. 205), nonché di immigrazione e condizione dello straniero (art. 12, co. 4, d.lgs. 25.7.1998, n. 286, così come sostituito da ultimo dall’art. 1, co. 26, lett. e, l. 15.7.2009, n. 94; art. 13, co. 13 ter, d.lgs. n. 286/1998, così come modificato dagli artt. 12, co. 1, lett. g, l. 30.7.2002, n. 189, e art. 1, co. 2 ter, lett. c, d.l. 14.9.2004, n. 241, conv. in l. 12.11.2004, n. 271; art. 14, co. 5 quinquies, d.lgs. n. 286/1998, così come modificato dall’art. 1, co. 5 bis, d.l. n. 241/2004, conv. in l. n. 271/2004 e sostituito dall’art. 1, co. 22, lett. m, l. 15.7.2009, n. 94).
Calato nel contesto procedimentale marcatamente inquisitorio proprio del codice Rocco, il giudizio direttissimo presentava effettivamente caratteri “speciali”: aprendo eccezionalmente la via alla formazione della prova «coram iudice et partibus» (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 356), la procedura de qua introduceva «prassi accusatori[e]» che autorevole dottrina giudicava «nient’affatto malriuscit[e]» (Cordero, F., Procedura penale, VIII ed., Milano, 2006, 1066). Disciplinando il giudizio direttissimo nel Titolo III del Libro VI dell’attuale codice di procedura penale, il legislatore del 1988 se, da un lato, mostra di condividere la sistematica propria del codice Rocco, dall’altro lato, pare obliterare che l’accusatorietà, oggi, rappresenta la regola. Su questo sfondo, è sembrato preferibile parlare, da parte di alcuni, di «rito semplificato» (Tonini, P., I procedimenti semplificati, in Le nuove disposizioni sul processo penale, a cura di A. Gaito, Padova, 1989, 99; De Caro, A., Il giudizio direttissimo, Napoli, 1996, 60). La specialità del giudizio direttissimo – è stato altresì osservato – non sembra originare nemmeno dal fatto che l’attivazione del rito, da parte del p.m., comporta deviazione dal paradigma ordinario “indagini preliminari–udienza preliminare–dibattimento”. La celebrazione dell’udienza preliminare – sottolineano i fautori della prefata tesi (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 355) – è pretermessa anche quando si procede con citazione diretta a giudizio ex artt. 549 e ss. c.p.p. Se l’obiezione dapprima prospettata sembra cogliere nel segno – rapportata a sistema processuale non (più) inquisitorio, la caratura accusatoria propria del giudizio direttissimo non imprime a quest’ultimo alcuna connotazione di specialità –, la seconda non pare condivisibile. A nostro parere, ogni modulo procedimentale difforme dal paradigma ordinario, ivi compreso quello disciplinato dagli artt. 549 e ss. c.p.p., si appalesa, in quanto tale, “speciale”. Se, da un lato, infatti, è dato osservare come “speciale” rappresenti, sul piano lessicale, il contraltare di “ordinario”, dall’altro lato, non pare revocabile in dubbio che la mera collocazione sistematica del procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica – cui il legislatore del 1999, come noto, ha riservato il Libro VIII del codice di procedura penale – non valga ex se a negare la caratura “speciale” del rito in esame.
Nel disegnare il giudizio direttissimo alla stregua di procedimento speciale deflativo dell’udienza preliminare, il legislatore del 1988 sembrerebbe averne subordinato la praticabilità alla ricorrenza di indici normativi oggettivi cui conferire valenza di “qualificata” evidenza probatoria. In quest’ottica, arresto in flagranza di reato (art. 449, co. 1 e 4, c.p.p.) e confessione resa nel corso dell’interrogatorio (art. 449, co. 5, c.p.p.) parametrerebbero contesti fattuali sì “indizianti” da giustificare l’omessa celebrazione dell’udienza preliminare. In dottrina, se alcuni hanno espresso perplessità sull’«omologa[zione]» normativa di situazioni tra loro non equiparabili – mentre la flagranza disciplinata dalla prima parte dell’art. 382, co. 1, c.p.p. («[è] in stato di flagranza chi viene colto nell’atto di commettere il reato») sembra richiamare alla mente il concetto di “prova diretta”, la quasi–flagranza passata in rassegna dalla seconda parte della prefata statuizione pare tutt’al più riconducibile al novero proprio degli indizi – (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 359), altri hanno criticato finanche l’effettiva idoneità della confessione a fungere da cartina di tornasole della “qualificata” evidenza probatoria – le dichiarazioni confessorie rese nel corso dell’interrogatorio devono (pur sempre) essere raffrontate con elementi di riscontro di ordine soggettivo ed oggettivo (Macchia, A., Confessione nel diritto processuale penale, in Dig. pen., III, Torino, 1989, 29). Dalla “qualificata” evidenza probatoria sembra prescindere, in ogni caso, il giudizio direttissimo “consensuale” disciplinato dall’art. 449, co. 2, c.p.p.
Il primo modello disegnato dal codice di procedura penale (art. 449, co. 1, c.p.p.) non rappresenta «una novità assoluta rispetto allo scenario tradizionale del processo» (Macchia, A., Giudizio direttissimo, in Dig. pen., V, Torino, 1991, 545), ricalcando lo schema di giudizio direttissimo davanti al pretore disciplinato dall’art. 505 c.p.p. 1930. Seppure usato impropriamente – i giudizi aventi ad oggetto convalida dell’arresto e merito hanno autonomia funzionale, strutturale e cronologica – (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 363), l’aggettivo «contestuale» – «per la convalida e il contestuale giudizio» – tratteggia icasticamente il «dibattimento ex abrupto» (Cordero, F., Procedura penale, cit., 1066) destinato ad essere celebrato nell’ambito della (stessa) udienza di convalida dell’arresto. Come si evince dalla prima parte dell’art. 449, co. 2, c.p.p. – «[s]e l’arresto non è convalidato, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero» –, infatti, la prefata convalida costituisce presupposto di ammissibilità del rito. Convalidato l’arresto, il p.m. d’udienza sarà chiamato a formare il fascicolo per il dibattimento (artt. 431 c.p.p. e 138 disp. att. c.p.p.), selezionando gli atti, da utilizzarsi nel celebrando giudizio di merito, destinati a confluirvi. La previsione de qua, prima facie «più teorica che pratica» – le serrate cadenze proprie del rito in esame raramente consentono l’espletamento, da parte del p.m., di atti investigativi non irripetibili –, assume concreta importanza allorquando l’arresto sia conseguenza di pregresse indagini (quali, ad esempio, intercettazioni telefoniche o perquisizioni) da cui scaturisca la flagranza (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 546).
Nel secondo modello, alla regola generale – «[s]e l’arresto non è convalidato, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero» – fa da pendant l’eccezione: a giudizio direttissimo potrà procedersi altresì qualora, nonostante l’omessa convalida dell’arresto, «imputato e pubblico ministero vi consent[a]no» (art. 449, co. 2, c.p.p.). Mutuata dal previgente art. 505, co. 6, c.p.p. 1930, l’attuale formula normativa appare più ampia, imponendo la prestazione del consenso anche da parte del p.m. Esso consenso – è stato osservato – se, nell’ottica dell’imputato, equivale a (tacita) rinuncia alla celebrazione dell’udienza preliminare – «secondo … archetip[i] … che trova[no] un significativo equivalente nella contestazione del fatto nuovo disciplinata dall’art. 518, co. 2» c.p.p. –, nell’ottica del p.m. rappresenta «la manifestazione di volontà» che, invalidata l’originaria domanda di giudizio direttissimo in conseguenza dell’omessa convalida dell’arresto, «“integr[erebbe]” l’esercizio dell’azione penale» (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 546).
Obbligando il p.m. a presentare l’imputato in udienza entro trenta giorni dall’arresto – se «già … convalidato» e «salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini» – (art. 449, co. 4, c.p.p., così come modificato dall’art. 2, co. 1, lett. c, d.l. 23.5.2008, n. 92, conv. in l. 24.7.2008, n. 125), il terzo modello di giudizio direttissimo, a differenza del primo e del secondo, non mina l’imparzialità del giudice del dibattimento, essendo la decisione sulla convalida dell’arresto – nonché quella inerente l’eventuale applicazione di misura cautelare personale – funzionalmente demandata al g.i.p. L’uso, da parte del codificatore, del lemma «presentazione» – «presentando l’imputato in udienza» – cospira a far ritenere che questo modello di giudizio direttissimo sia attivabile solamente nei confronti dell’imputato in vinculis (Cass. pen., S.U., 23.11.1990, Colombo, in Cass. pen., 1991, 137). La locuzione «[l]’imputato in stato di custodia cautelare … è presentato all’udienza», contenuta nel successivo art. 449, co. 5, c.p.p., corrobora siffatta esegesi. Il termine entro cui l’imputato deve essere presentato in udienza se, da un lato, è condizione di valida instaurazione del rito, dall’altro lato, abilita il p.m. ad esperire atti d’indagine, sconfessando il tradizionale insegnamento secondo cui il giudizio direttissimo sarebbe caratterizzato dall’eliminazione della fase investigativa preliminare.
Il quarto modello di giudizio direttissimo, disciplinato dall’art. 449, co. 5, c.p.p. (così come modificato dall’art. 2, co. 1, lett. d, d.l. n. 92/2008, conv. in l. n. 125/2008), deve essere “attivato” nei confronti della persona, “a piede libero” ovvero in vinculis, che, nel corso dell’interrogatorio, abbia reso confessione – sempre «che ciò [non] pregiudichi gravemente le indagini»–. Nel parafrasare lo schema che, vigente il codice Rocco, obbligava il procuratore della Repubblica a procedere con istruzione sommaria (art. 389, co. 2, c.p.p. 1930), il codificatore del 1988 equipara la confessione ad «una sorta di atto negoziale» che, surrogando in chiave normativa la rinuncia alla celebrazione dell’udienza preliminare, si appalesa «lato sensu dispositivo del rito» (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 548). La prefata confessione, non di meno, se, da un lato, dovrà mostrarsi «genuina, spontanea ed attendibile» (De Caro, A., Il giudizio direttissimo, cit., 118), dall’altro lato, dovrà essere resa nel corso dell’interrogatorio, ovvero nel corso di attività procedimentale, regolata dagli artt. 64 e 65 c.p.p., che garantisca la preventiva conoscenza, da parte dell’interrogando, dell’addebito provvisorio (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 371). Il termine di trenta giorni – entro il quale il p.m. dovrà citare a comparire l’imputato “a piede libero” ovvero presentare all’udienza l’imputato in vinculis – (art. 449, co. 5, c.p.p., così come modificato dall’art. 2, co. 1, lett. d, d.l. n. 92/2008, conv. in l. n. 125/2008) decorrerebbe, secondo alcuni, dal giorno in cui il nominativo della persona alla quale il reato è attribuito è iscritto nel registro ex art. 335 c.p.p. (De Caro, A., Il giudizio direttissimo, cit., 124; Zanetti, E., Il giudizio direttissimo, in I procedimenti speciali in materia penale, a cura di M. Pisani, Milano, 1997, 381; Gaeta, P., Giudizio direttissimo, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 649). L’impostazione che precede non sembra cogliere nel segno: la pur ambigua formulazione letterale della norma – che, a differenza di quella che contrassegna il successivo art. 454, co. 1 c.p.p., non contiene le parole «della notizia di reato» – non pare autorizzare consimili letture. Allorquando il codificatore ha voluto ancorare la decorrenza del termine all’iscrizione nominativa della persona, infatti, lo ha espressamente fatto, usando locuzioni quale quella contenuta negli artt. 405, co. 2 c.p.p. e 459, co. 1 c.p.p. – «entro sei mesi dalla data in cui il nome della persona … è iscritto nel registro delle notizie di reato» –.
L’instaurazione del rito segue cadenze modulate sullo status libertatis del soggetto: «[q]uando procede a giudizio direttissimo, il pubblico ministero fa condurre direttamente all’udienza l’imputato arrestato in flagranza o in stato di custodia cautelare» (art. 450, co. 1, c.p.p.). La locuzione «fa condurre» suscita perplessità. Secondo alcuni, instaurato il giudizio direttissimo ex art. 450, co. 1, c.p.p., il p.m. avrebbe il potere di ordinare la traduzione coattiva in udienza dell’imputato refrattario a comparire (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 550; Zanetti, E., Il giudizio direttissimo, cit., 392; Gaeta, P., Giudizio direttissimo, cit., 650). Autorizzerebbe consimile lettura l’art. 451, co. 4, c.p.p., a mente del quale il rappresentante della pubblica accusa, «fuori del caso previsto dall’art. 450, co. 2, [c.p.p.], contesta l’imputazione all’imputato presente». La tesi che precede non pare condivisibile. L’imputato in vinculis, benché tratto a giudizio direttissimo ex art. 450, co. 1, c.p.p., ha sempre la facoltà di non presenziare al celebrando dibattimento. Corrobora siffatta impostazione l’art. 484, co. 2 bis, c.p.p., che, richiamando l’art. 420 quinquies c.p.p., ne autorizza espressamente l’assenza. A contrarie conclusioni, a nostro avviso, non sembra possibile pervenire nemmeno facendo leva sulla clausola di compatibilità contenuta nel prefato art. 484 co. 2 bis, c.p.p.: letta in negativo, infatti, essa cozzerebbe con la generale facultas agendi, accordata al prevenuto, di non presenziare all’udienza, minandone le insindacabili scelte strategico–difensive (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 383). Se quanto precede è corretto, si tratterà allora di acclarare se, nell’ambito del presente contesto processuale, l’imputato assente possa essere rappresentato dal difensore (arg. ex artt. 484, co. 2 bis, e 420 quinquies, co. 1, c.p.p.). E, laddove si convenisse sul fatto che la rappresentanza legale del patrono sorge solamente a seguito della notificazione del decreto di citazione – e, dunque, a seguito della previa, regolare, contestazione dell’imputazione – (De Caro, A., Il giudizio direttissimo, cit., 169), non sembra esservi altra via se non quella di «sostituire [l]’accusa scritta alla vocale …, notificando … la citazione» ex art. 450, co. 3, c.p.p. (Cordero, F., Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990, 514).
«Se l’imputato è libero» o assoggettato a misura cautelare personale non custodiale, «il pubblico ministero lo cita a comparire all’udienza per il giudizio direttissimo». In questo caso, «[i]l termine per comparire non può essere inferiore a tre giorni» (art. 450, co. 2, c.p.p.). Stante l’espresso rinvio operato dall’art. 450, co. 3, c.p.p. all’art. 429, co. 1, lett. a), b), c) e f) c.p.p., il decreto di citazione deve contenere: «le generalità dell’imputato e le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo, nonché le generalità delle altre parti private, con l’indicazione dei difensori» (art. 429, co. 1, lett. a, c.p.p.); «l’indicazione della persona offesa dal reato qualora risulti identificata» (art. 429, co. 1, lett. b, c.p.p.); «l’enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge» (art. 429, co. 1, lett. c, c.p.p.); «l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della comparizione, con l’avvertimento all’imputato che non comparendo sarà giudicato in contumacia» (art. 429, co. 1, lett. f, c.p.p.). In ossequio al combinato disposto degli artt. 450, co. 3, e 429, co. 2, c.p.p., il decreto è nullo «se l’imputato non è identificato in modo certo ovvero se manca o è insufficiente l’indicazione di uno dei requisiti previsti dal[l’art. 429] comma 1 lett. c) e f)» c.p.p. Decreto e fascicolo ex art. 431 c.p.p. sono trasmessi alla cancelleria del giudice del dibattimento (art. 450, co. 4, c.p.p.). L’avviso della data fissata per il giudizio è notificato, senza ritardo, al difensore (art. 450, co. 5, c.p.p.), che ha facoltà di prendere visione e di estrarre copia, nella segreteria del p.m., della documentazione relativa alle indagini espletate (art. 450, co. 6, c.p.p.).
Nel regolare il corso del giudizio direttissimo, l’art. 451, co. 1, c.p.p. richiama espressamente gli artt. 470 e ss. c.p.p. Risultano, in tal modo, estromesse dal presente contesto processuale attività predibattimentali di primaria importanza. In particolare, non troveranno applicazione le prescrizioni dettate dall’art. 468 c.p.p., con conseguente omessa discovery delle esaminande fonti di prova. Le parti – necessarie ed eventuale (parte civile) – potranno, non di meno, «presentare nel dibattimento testimoni senza citazione» (art. 451, co. 3, c.p.p.). Persona offesa dal reato e testimoni potranno altresì essere citati a comparire anche oralmente, a cura di un ufficiale giudiziario o di un agente di polizia giudiziaria (art. 451, co. 2, c.p.p.).
Allorquando l’imputato è presentato in udienza a norma dell’art. 449, co. 1, 2 e 4, c.p.p., la contestazione orale dell’accusa da parte del p.m. (art. 451, co. 4, c.p.p.) contrassegna il vero atto di esercizio dell’azione penale.
In questo contesto, formulata l’imputazione, il presidente avvisa l’imputato delle facoltà accordategli ex lege e sostanziantisi nella possibilità di chiedere vuoi la definizione anticipata e premiale del procedimento – avanzando domanda di giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena ex artt. 444 e ss. c.p.p. – (art. 451, co. 5, c.p.p.), vuoi un termine “a difesa” «non superiore a dieci giorni» (art. 451, co. 6, c.p.p.). Benché il codice di procedura penale “taccia” sull’estensione minima del prefato termine – quantificato solamente nel massimo –, la dottrina maggiormente garantista concorda sul fatto che non possa ritenersi validamente concesso al prevenuto un termine ad horas (Macchia, A., Giudizio direttissimo, 551; Zanetti, E., Il giudizio direttissimo, cit., 404; Gaeta, P., Giudizio direttissimo, cit., 653 e ss.). Se l’imputato chiede termine per preparare la propria difesa, il dibattimento è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva allo spirare dello stesso. A parere della Corte di cassazione, termine “a difesa” e sospensione del dibattimento ex art. 451, co. 6, c.p.p. possono essere accordati solamente laddove l’imputato non opti, a norma dell’art. 451, co. 5, c.p.p., per la definizione anticipata e premiale del processo (Cass. pen., sez. I, 17.9.1992, Spasiano, in CED Cass., 192129). Nonostante l’infelice formulazione normativa – parlando di sospensione del «dibattimento», l’art. 451, co. 6, c.p.p. si appalesa ambiguo –, sembra corretto affermare che l’imputato possa chiedere termine per preparare la propria difesa anche in vista di una migliore messa a fuoco della futura, eventuale, scelta del rito. A siffatta ricostruzione – senza dubbio alcuno, maggiormente aderente allo «spirito del sistema» (Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 392) – non pare ostare nemmeno l’art. 452, co. 2, c.p.p., che si limita a precisare che il giudizio abbreviato deve essere chiesto prima che il giudice, con ordinanza, dichiari aperto il dibattimento.
«Sotto l’unificante rubrica di “trasformazione del rito”» (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 551), l’art. 452 disciplina, in realtà, fenomeni stravaganti tra loro: a mente del comma 1, qualora il giudizio direttissimo «[sia] promosso fuori dei casi previsti dall’art. 449» c.p.p., il giudice restituisce con ordinanza gli atti al p.m. La conseguente regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari – è stato osservato – autorizzerebbe il p.m. finanche ad avanzare richiesta di archiviazione (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 551; Moscarini, P., Giudizio direttissimo, cit., 393. Contra, Garuti, G., Il procedimento per citazione diretta a giudizio davanti al tribunale, Milano, 2003, 104, che ricorda come «nel nostro sistema processuale vig[a] il principio di irretrattabilità dell’azione penale»), laddove, esperite ulteriori investigazioni, questi si convinca dell’opportunità di siffatto epilogo (De Caro, A., Il giudizio direttissimo, cit., 183).
L’art. 452, co. 2, c.p.p. regola la «trasformazione» del rito in giudizio abbreviato, causando, di fatto, la regressione del processo alla fase dell’udienza preliminare, nell’ambito della quale il giudizio abbreviato trova la propria «fisiologica collocazione» (Macchia, A., Giudizio direttissimo, cit., 551). Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni degli artt. 438, co. 3 e 5, 441, 441 bis, 442 e 443 c.p.p. Se, a seguito delle nuove contestazioni previste dall’art. 423, co. 1, c.p.p. – qui applicabile in virtù dell’espresso richiamo operato dalla statuizione in commento all’art. 441 bis c.p.p. –, l’imputato chiede che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, il giudice, revocata l’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, dispone procedersi oltre, fissando l’udienza per il giudizio direttissimo (art. 452, co. 2, c.p.p., così come sostituito dall’art. 2 nonies, co. 1, d.l. 7.4.2000, n. 82, conv. in l. 5.6.2000, n. 144).
Davanti al tribunale in composizione monocratica, il procedimento “contratto” per convalida e contestuale giudizio può essere instaurato ad opera vuoi della p.g., vuoi del p.m. Nel primo caso – disciplinato dall’art. 558, co. 1, c.p.p. – gli ufficiali/agenti di p.g. «che hanno eseguito l’arresto in flagranza o che hanno avuto in consegna l’arrestato», datane immediata notizia al p.m. (art. 386, co. 1, c.p.p.) – su cui grava l’onere di formulare l’imputazione –, citati, anche oralmente, persona offesa dal reato e testimoni e avvisato il difensore – di fiducia o d’ufficio –, «conducono [l’imputato] direttamente davanti al giudice del dibattimento per la convalida dell’arresto e il contestuale giudizio». Se il tribunale in composizione monocratica «non tiene udienza», sarà onere degli stessi ufficiali/agenti di p.g. notiziare immediatamente il giudice, che fisserà udienza «entro quarantotto ore dall’arresto». Nelle more – in deroga alla previsione di carattere generale di cui all’art. 386, co. 4, c.p.p. (art. 558, co. 2, c.p.p.) –, l’arrestato potrà essere «custodito» nella propria abitazione, in altro luogo di privata dimora, in luogo pubblico di cura e assistenza ovvero, «ove istituita», in casa famiglia protetta (arg. ex art. 284, co. 1, c.p.p., così come novellato dall’art. 1, co. 2, l. 21.4.2011, n. 62). Quanto sopra a patto che detti luoghi non si appalesino «mancan[ti], indisponibil[i] o inidonei[…]», non si trovino «fuori dal circondario in cui è stato eseguito l’arresto» e non sussista «pericolosità dell’arrestato»: in caso contrario, infatti, il p.m. dovrà ordinare che il medesimo sia custodito o «presso idonee strutture» nella disponibilità degli ufficiali/agenti di p.g. o presso la casa circondariale (art. 558, co. 4 bis, c.p.p., inserito dall’art. 1, co. 1, lett. b, d.l. 22.12.2011, n. 211, conv. con modif. in l. 17.2.2012, n. 9) – puntualmente motivando, in siffatta ultima ipotesi, le ragioni che non hanno reso possibile utilizzare le cd. “camere di sicurezza” (Amato, G., Decreto motivato per la conduzione nei penitenziari, in Guida dir., 2012, n. 10, 33). La regola che precede – preme osservare – non troverà applicazione laddove si proceda ex art. 380, co. 2, lett. e bis) e f) c.p.p. (art. 558, co. 4 ter, c.p.p., inserito dall’art. 1, co.1, lett. b, d.l. d.l. 22.12.2011, n. 211, conv. con modif. in l. 17.2.2012, n. 9). Conclusa la relazione orale dell’ufficiale/agente di polizia giudiziaria, il giudice procederà all’interrogatorio dell’arrestato, «sente[ndo], in ogni caso, [anche] il suo difensore (artt. 558, co. 3 e 391, co. 3 c.p.p.). Se l’arresto è convalidato, procederà immediatamente a giudizio (art. 558, co. 6, c.p.p.). Nel secondo caso, disciplinato dall’art. 558, co. 4, c.p.p. (così come sostituito dall’art. 1, co. 1, lett. a, d.l. n. 211/2011, conv., con modif., in l. n. 9/2012), a presentare direttamente all’udienza l’imputato «in stato di arresto» provvederà il p.m. «entro quarantotto ore dall’arresto» – è quanto accade laddove il rappresentante della pubblica accusa ordini che l’arrestato in flagranza sia posto a sua disposizione – (Fiorio, C., Sovraffollamento carcerario e tensione detentiva, in Dir. pen. processo, 2012, 408 e ss.). Anche in siffatta ipotesi, il giudice, convalidato l’arresto, procederà immediatamente a giudizio (art. 558, co. 6, c.p.p.). Nel primo come nel secondo caso, se l’arresto non è convalidato, il giudice restituirà gli atti al p.m., procedendo, non di meno, a giudizio direttissimo «quando l’imputato e il pubblico ministero vi consent[a]no» (art. 558, co. 5, c.p.p.).
L’imputato, se, da un lato, ha facoltà di chiedere un termine per preparare la difesa «non superiore a cinque giorni» – con conseguente sospensione del dibattimento fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine – (art. 558, co. 7, c.p.p.), dall’altro lato, potrà formulare richiesta di giudizio abbreviato ovvero di applicazione della pena. In siffatte ipotesi, il giudizio, regolato dalle disposizioni di cui all’art. 452, co. 2, c.p.p., si svolgerà davanti allo stesso giudice del dibattimento (art. 558, co. 8, c.p.p.).
Nei casi previsti dall’art. 449, co. 4 e 5, c.p.p., il p.m. è autorizzato a procedere con giudizio direttissimo anche davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 558, co. 9, c.p.p.).
Allo stato, come detto (v. supra, § 1.1), il p.m. sarà autorizzato a procedere con giudizio direttissimo anche qualora si tratti di accertare la commissione di reati in materia di manifestazioni sportive, di armi ed esplosivi, di discriminazione etnica, razziale e religiosa, nonché di immigrazione e condizione dello straniero. Come osservato da autorevole dottrina, a venire qui in emergenza sono fattispecie «connotat[e] da una escalation di esemplarità, contrassegnata dal progressivo allontanamento dal modello tipico», che, se in origine erano temperate «dalla esigenza di procedere al rito ordinario in presenza della necessità di speciali indagini», attualmente si appalesano «sganciat[e] da qualsiasi presupposto», dando vita ad un «modello secco» di giudizio direttissimo (Spangher, G., I procedimenti speciali, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2010, 516), senza dubbio alcuno, censurabile.
Nel processo penale a carico di imputati minorenni il giudizio direttissimo (art. 25, co. 2, d.P.R. 22.9.1988, n. 448) è ammesso solamente laddove p.m. e giudice possano, non di meno, acquisire elementi sulla personalità dell’imputato (art. 9, d.P.R. n. 448/1988), assicurando a quest’ultimo assistenza affettiva e psicologica (art. 12, d.P.R. n. 448/1988). Dopo la novella del 1991, il giudizio direttissimo è altresì ammesso nei confronti del minorenne accompagnato presso gli uffici di polizia siccome «colto in flagranza di un delitto non colposo per il quale la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni» (art. 25, co. 2 bis, d.P.R. n. 448/1988, aggiunto dall’art. 43, d.lgs. 14.1.1991, n. 12). In nessun caso potrà procedersi con giudizio direttissimo se «ciò pregiudic[a] gravemente le esigenze educative del minore» (art. 25, co. 2 ter, d.P.R. n. 448/1988, aggiunto dall’art. 12 quater, d.l. n. 92/2008, conv. in l. n. 125/2008).
Fonti normative
Artt. 449–452 e 558 c.p.p.; d.P.R. 22.9.1988, n. 448; l. 13.12.1989, n. 401; d.lgs. 14.1.1991, n. 12; d.l. 8.6.1992, n. 356, conv. in l. 7.8.1992, n. 356; d.l. 26.4.1993, n. 122, conv. in l. 25.6.1993, n. 205; d.lgs. 25.7.1998, n. 286; d.l. 20.8.2001, n. 336, conv. in l. 19.10.2001, n. 377; d.l. 14.9.2004, n. 241, conv. in l. 12.11.2004, n. 271; d.l. 8.2.2007, n. 8, conv. in l. 4.4.2007, n. 41; d.l. 23.5.2008, n. 92, conv. in l. 24.7.2008, n. 125; l. 15.7.2009, n. 94; d.l. 22.12.2011, conv. con modif. in l. 17.2.2012, n. 9.
Bibliografia essenziale
Amato, G., Decreto motivato per la conduzione nei penitenziari, in Guida dir., 2012, n. 10, 33; Cordero, F., Codice di procedura penale commentato, Torino, 1990; Cordero, F., Procedura penale, VII ed., Milano, 2006; Dalia, A.A., Giudizio direttissimo, in I procedimenti speciali, a cura di A.A. Dalia, Napoli, 1989; De Caro, A., Il giudizio direttissimo, Napoli, 1996; Fiorio, C., Sovraffollamento carcerario e tensione detentiva, in Dir. pen. processo, 2012, 409; Gaeta, P., Giudizio direttissimo, in Enc. dir., Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 636; Gaito, A., Il giudizio direttissimo, I, Milano, 1979; Gaito, A., Giudizio direttissimo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, 1; Macchia, A., Giudizio direttissimo, in Dig. pen., V, Torino, 1991, 541; Moscarini, P., Giudizio direttissimo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2001, 1; Moscarini, P., Giudizio direttissimo, in Procedimenti speciali, a cura di L. Filippi, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, IV, t. I, Torino, 2008; Spangher, G., I procedimenti speciali, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2010; Tonini, P., I procedimenti semplificati, in Le nuove disposizioni sul processo penale, a cura di A. Gaito, Padova, 1989; Zanetti E., Il giudizio direttissimo, in I procedimenti speciali in materia penale, a cura di M. Pisani, Milano, 1997; Zappalà, E., I procedimenti speciali, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, Milano, 2011.