Giudizio in cassazione
Si segnala il nuovo sito della Corte. Si dà conto delle novità giurisprudenziali sul ruolo della Corte, sul significato delle riforme sopravvenute in relazione ai motivi di ricorso, al “filtro” in appello, alla forma dei provvedimenti sulla competenza, al nuovo rito sui licenziamenti e alla consulenza tecnica preventiva nel processo previdenziale. Si richiamano le pronunce sulla rilevanza degli eventi interruttivi, sulle dimensioni del ricorso, sulla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio. Si pone in evidenza l’abbrivio della tendenza ad attribuire prevalenza al principio di ragionevole durata del processo sulle altre garanzie del giusto processo nelle pronunce sulla impugnazione delle sentenze non definitive su questioni, sulle notificazioni eseguite dagli avvocati e sulla nozione di eccezioni rilevabili d’ufficio in appello.
Il nuovo sito della Corte Il 18 luglio, il Primo Presidente,Giorgio Santacroce, ha presentato il nuovo sito della Corte (www.cortedicassazione.it): «Con l’inaugurazione del nuovo sito della Corte di cassazione, prende avvio un servizio, denominato “Sentenze Web”, con il quale, attraverso un motore di ricerca innovativo e di facile utilizzo, si rendono accessibili al pubblico – dunque, a tutti i cittadini e non solo agli operatori della giustizia – tutte le sentenze, per ora in materia civile e, poi, a breve, anche in materia penale, pronunciate dalla stessa Corte negli ultimi cinque anni. Con ciò viene data concretezza ad un’esigenza forte da molti manifestata – e anche per questo da me fatta oggetto di specifiche promesse in occasione della Relazione di apertura dell’attuale Anno giudiziario – che è quella di una sempre maggiore diffusione della giurisprudenza all’interno del corpo sociale. Si tratta di una prospettiva non solo di immediato interesse, ma anche di lungo respiro, che non si raccorda esclusivamente ad una logica di trasparenza, pur presente in questa scelta di libero accesso alle decisioni di legittimità, giacché – e di ciò ne sono certo – avere la possibilità di conoscere appieno la giurisprudenza della Cassazione è uno degli elementi che concorrono al rafforzamento dei valori della stabilità e della certezza del diritto e, dunque, alla costruzione di una società migliore».
Indubbiamente, il nuovo sito e le sue funzionalità contribuiscono ad una migliore conoscenza della giurisprudenza della Corte, talvolta oggetto di travisamenti mediatici; favoriscono il dialogo con i cittadini, con gli operatori della giustizia e con la dottrina. Prima del 18 luglio 2014, erano diffuse nel sito della Corte soltanto alcune decisioni, scelte dall’Ufficio del Massimario, nonché le Relazioni annuali sulla giurisprudenza di legittimità, civile e penale.
Dal 18 luglio 2014, tutte le decisioni della Cassazione italiana sono consultabili, al pari di quanto già avveniva ed avviene per quelle della Corte costituzionale: www.cortecostituzionale.it; del Consiglio di Stato: www.giustizia-amministrativa.it; della Corte dei conti: www.corteconti.it; nonché della Corte europea dei diritti dell’uomo: www.echr.coe.int; della Corte europea di giustizia (CorteUE):www.curia.europa.eu; della Corte Internazionale di giustizia: www.icj-cij.org; dellaCassazione francese:www.courdecassation.fr; del Bundesgerichtshof: www.bundesgerichtshof.de e del Bundesverfassunggericht:www.bundesverfassungsgericht.de; della Corte suprema del Regno Unito: www.supremecourt.uk; del Tribunal Supremo spagnolo: www.poderjudicial.es; del Supremo Tribunal de Justiça portoghese: www.stj.pt; dell’Oberster gerichtshof austriaco: www.ogh.gv.at/de; della Corte Suprema degli StatiUniti,www.supremecourt.gov; e di altre corti supreme straniere.
Ciascun sito ha un proprio motore di ricerca, con il quale l’utente deve prendere dimestichezza. Il che è ovvio per i siti stranieri, sebbene anche questi possano essere copiati o possano prendere a modello quelli italiani. La diffusione delle informazioni potrebbe spingere ad una integrazione dei modelli operativi, almeno tra le giurisdizioni superiori nazionali, tralasciando la presunzione di maggiore funzionalità del proprio sito. Il confronto potrebbe spingere se non verso un modello unico, almeno verso modelli con analoghi criteri di consultazione.
Le nuove funzionalità del sito della Cassazione italiana costituiscono un incentivo al dialogo con la dottrina soprattutto sulle questioni processuali, avviato da qualche anno dalla Formazione decentrata della Corte con l’Università Roma Tre e con l’Associazione italiana tra gli studiosi del processo civile.
Il carico di lavoro della Corte, annualmente indicato dal Primo Presidente nelle relazioni di apertura dell’anno giudiziario, rende difficile lo svolgimento della funzione di nomofilachia, come, in riferimento ad alcune questioni, si segnala anche nelle pagine che seguono, ma il dialogo ed il confronto possono scongiurare o limitare il rischio di decisioni affrettate e, quindi, dell’improvviso ed imprevedibile overruling.
Nelle pagine che seguono, sono segnalate, senza pretese di completezza, alcune delle decisioni che, ad avviso di chi scrive, si manifestano più significative, rinviando, per altri aspetti, alla Rassegna della giurisprudenza di legittimità pubblicata annualmente nel sito della Corte, nonché all’Osservatorio sulla Cassazione civile, in Riv. dir. proc.
2.1 Rapporti con la Corte costituzionale
Secondo Cass., 1.10.2014, n. 20661 (in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I, con note di A.D. De Santis e F.Dal Canto) è da escludere che «la funzione nomofilattica esercitabile dalla Corte di cassazione con l’enunciazione d’ufficio del principio di diritto nell’interesse della legge sia da cogliere in una dimensione statica e debba esaurirsi sul piano della legalità ordinaria. Il primato della Costituzione rigida, assistito dal controllo di costituzionalità delle leggi affidato alla Corte costituzionale, implica che, anche nell’esercizio della funzione giurisdizionale cui il giudice di legittimità può essere chiamato a norma dell’art. 363, co. 3, c.p.c., vi sia il potere-dovere di provocare l’incidente di costituzionalità».
L’art. 363 c.p.c. consente alla Corte di enunciare, su richiesta del procuratore generale, un principio di diritto «nell’interesse della legge» «quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile» e, anche d’ufficio, «quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importanza».
Ai sensi dell’art. 23 l. 11.3.1953, n. 87, «nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale una delle parti o il pubblico ministero possono sollevare questione di legittimità costituzionale mediante apposita istanza, … qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata».
La sintetica motivazione prima riportata appare destinata ad alterare il rapporto tra le corti: l’ordinanza di rimessione ha parificato la «definizione» del giudizio, alla quale si riferisce l’art. 23 l. n. 87/1953, con l’enunciazione del principio di diritto di cui all’art. 363 c.p.c.
Nel caso di specie, un cittadino pakistano aveva chiesto l’ammissione al servizio civile nazionale, riservato ai cittadini italiani tra i 25 ed i 28 anni ai sensi dell’art. 3, co. 1, d.lgs. 5.4.2002, n. 77, e della corrispondente previsione del bando di concorso; contro il rigetto della sua richiesta, aveva denunciato il comportamento discriminatorio al giudice del lavoro ai sensi dell’art. 44 d.lgs. 25.7.1998, n. 286. La domanda era stata accolta in primo grado e la decisione era stata confermata in appello. L’amministrazione aveva proposto ricorso. Prima dell’udienza di discussione innanzi alla Corte, le parti avevano chiesto che fosse dichiarata la sopravvenuta cessazione della materia del contendere, perché il controricorrente aveva acquisito la cittadinanza italiana, perché aveva superato i limiti massimi di età e perché ormai aveva svolto il servizio civile dal quale era stato escluso.
La Corte ha ritenuto che l’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 77/2002 non potesse essere disapplicato, come avevano fatto i giudici di merito, ha dubitato della legittimità costituzionale della disposizione e, nonostante l’inammissibilità del ricorso per sopravvenuto difetto di interesse, ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale, motivando nel senso indicato sulla rilevanza della questione.
La previsione secondo la quale una questione di legittimità costituzionale è «rilevante» soltanto «qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla – sua – risoluzione», àncora la rilevanza della questione alla sua effettiva incidenza sulla controversia da decidere.
Con la decisione in rassegna, le Sezioni Unite hanno proposto di recidere questo collegamento e si sono attribuite il potere di investire la Corte costituzionale di ogni dubbio di costituzionalità, indipendentemente dal concreto collegamento con la definizione di una controversia.
L’accoglimento di questa proposta e la conseguente modificazione del controllo incidentale di legittimità costituzionale dipendono dalla valutazione di ammissibilità che sarà compiuta dalla Corte costituzionale.
2.2 «Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio»
Cass., 7.4.2014, nn. 8053 e 8054 (in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I) si sono occupate della novella dell’art. 360, n. 5: hanno affermato, contro la lettera dell’art. 54 d.l. 22.6.2012, n. 83, convertito in legge dalla l. 7.8.2012, n. 134, che la riforma si applica anche nel processo tributario di legittimità ed hanno fornito l’interpretazione della disposizione novellata.
Il primo esito, pur contestato (Le modifiche del giudizio di appello, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012, 616; e La riforma dell’appello, in Giusto proc. civ., 2013, 21), era prevedibile, perché sarebbe stato difficile ammettere che la Corte potesse tollerare una diversa disciplina dei motivi di ricorso tra la sezione tributaria e le altre sezioni civili.
Sulla seconda questione, la Corte ha affermato che la novella dell’art. 360, n. 5, c.p.c. «deve essere interpretata come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile». Secondo la Corte, «il nuovo testo del n. 5 dell’art. 360 introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia)»; ha specificato che «l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie»; ha, quindi, concluso nel senso che «la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso».
Cass., 9.6.2014, n. 12928, e Cass., 11.7.2014, n. 16009, hanno espressamente richiamato, in motivazione, la pronuncia delle Sezioni Unite. Cass., 22.9.2014, n. 19881 (in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I, con nota di P. Quero), ha riprodotto il principio di diritto appena riportato, senza menzionare il precedente specifico.
La lettura della riforma non riprende l’interpretazione della disposizione fornita dalla stessa Corte nel periodo di vigenza del testo dal 1942 al 1950, ma si adegua alle indicazioni contenute nella Relazione al codice: «nel n. 5 il legislatore ha disciplinato il ricorso per difetto di motivazione entro precisi limiti, diretti ad evitare gli abusi che si sono verificati nella pratica sotto il vigore del codice del 1865. La Corte di cassazione, in quanto organo supremo della giustizia, deve infatti conoscere il difetto dei motivi della sentenza impugnata, giacché la motivazione delle decisioni è una garanzia fondamentale di retta amministrazione della giustizia. La formula adottata fa sicuramente cadere l’obiezione che il giudice supremo non può ben giudicare sulla mancanza dei motivi avendo una inesatta nozione del fatto, giacché gli elementi di fatto, posti a base di questo mezzo di ricorso, devono chiaramente emergere dagli atti, in quanto hanno formato oggetto di discussione tra le parti».
Il testo attuale, infatti, corrisponde a quello originario del codice; l’art. 360, n. 5, non aveva corrispondenti nel codice del 1865, vigente il quale i vizi logici del provvedimento impugnato erano considerati come ragioni di nullità; la disposizione è stata quindi, modificata nel 1950 e nel 2006.
Come indicato nella relazione del 1940, la Corte ha collegato il nuovo testo al principio di autosufficienza del ricorso; l’omissione deve risultare dal testo della sentenza e dagli atti, non riguarda gli elementi istruttorii; la Corte ha anche analiticamente specificato i dati necessari al rispetto del principio di autosufficienza: l’indicazione del fatto, l’esame del quale sarebbe stato omesso, degli atti processuali, dai quali ne risulti l’esistenza e la discussione, e la sua
«decisività».
Questa equilibrata interpretazione e la progressiva sussunzione del controllo di legittimità sulle clausole generali o sulle norme elastiche nel n. 3 dell’art. 360 c.p.c., piuttosto che nel n. 5 (Cass., 23.3.2012, n. 4720, Cass., 17.8.2004, n. 16037) possono scongiurare i rischi paventati sugli effetti dirompenti della riforma del 2012.
2.3 Principio di autosufficienza e dimensioni del ricorso
La specifica indicazione degli elementi necessari in funzione dell’ammissibilità del ricorso dovrebbe contribuire ad evitare che l’applicazione del principio di autosufficienza costituisca uno strumento semplice ma arbitrario per liberarsi di ricorsi altrimenti infondati.
Ha suscitato eco mediatica Cass., 30.9.2014, n. 20589, segnalata dalla stampa non specialistica e in rete nel senso che avrebbe dichiarato inammissibile un ricorso soltanto perché prolisso.
In realtà non è così.
In primo luogo, il ricorso denunciava il vizio di motivazione, ignorando la riforma dell’art. 360, n. 5, applicabile nel caso di specie.
In secondo luogo, la sentenza ha ribadito quanto già affermato dalle Sezioni Unite (Cass., 11.4.2012, n. 5698), secondo le quali «una tecnica espositiva dei fatti di causa realizzata mediante la pedissequa riproduzione degli atti processuali non soddisfa il requisito di cui all’art. 366, n. 3, cod. proc. civ., che prescrive “l’esposizione sommaria dei fatti di causa” a pena di inammissibilità»; «costituisce onere del ricorrente operare una sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata in base alla sola lettura del ricorso»; «la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è dunque, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale s’è articolata; per altro verso, è inidonea a tener il luogo della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non serve affatto che sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in relazione ai motivi di ricorso»; «la selezione di ciò che integralmente rileva in funzione della pedissequa riproduzione, nonché la esposizione sommaria dei fatti di causa, entrambe correlate ai motivi di ricorso, vanno insomma fatte dal difensore del ricorrente che, per essere iscritto all’albo speciale di cui all’art. 33 del r.d.l. 27.11.1933, n. 1578 (convertito in legge dalla l. 22.1.1934, n. 36, come successivamente modificata), ha l’esperienza e la competenza necessarie ad un non delegabile compito di sintesi, non sempre del tutto agevole e, tuttavia, assolutamente ineludibile».
Cass., 30.9.2014, n. 20589, dunque, si sottrae alle censure mediatiche della quale è stata fatta oggetto. Già Cass., 4.7.2012, n. 11199 (in Foro it., 2014, I, 238, con note di A. De Santis e di chi scrive), peraltro, aveva espressamente affermato che l’ampiezza degli atti di parte non determina alcuna violazione di legge, anche qualora non sia proporzionale alla complessità giuridica o all’importanza economica delle fattispecie affrontate, scada nella prolissità e non favorisca la chiarezza e la ragionevole durata del processo.
In realtà, il principio di autosufficienza del ricorso, qualora non siano chiaramente determinati i presupposti e le condizioni, può costituire uno strumento di arbitrio. D’altro canto, il problema delle tecniche di redazione degli atti processuali, nonché dei provvedimenti, è questione che merita un’attenzione che prescinda da emozioni mediatiche: adde alle note a Cass. n. 11199/2012, da ultimo, Capponi, B., Sulla «ragionevole brevità degli atti processuali civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, 1075.
2.4 Rilevanza degli eventi interruttivi
«Annotare una sentenza di cui si condivide non solo il decisum ma anche tutte le sue piùo meno remote premesse e conseguenze sistematiche ampiamente indicate nella sua motivazione ècosa pressoché impossibile. Questo accade alla presenza della sentenza in epigrafe.Di essa èsolo possibile dire che pone probabilmente fine ad un lunghissimo periodo di incertezze giurisprudenziali (e dottrinali). E lo fa nel modo migliore poiché è consapevolmente rispettosa sia del diritto di azione sia del diritto di difesa delle parti. È auspicabile che le sezioni unite proseguano nel metodo adottato dalla sentenza in epigrafe componendo in tal modo le incertezze giurisprudenziali che saranno sottoposte al loro esame»: così Proto Pisani, A., in nota a Cass. 4.7.2014, n. 15295, incorso di pubblicazione in Foro it., 2014, I.
Con questa decisione, le Sezioni Unite hanno dichiarato ammissibile l’impugnazione notificata presso il difensore della parte colpita da un evento interruttivo non dichiarato nel precedente grado di giudizio ed hanno fatto chiarezza dopo i disorientamenti successivi a Cass., S.U., 21.2.1984, nn. 1228, 1229 e 1230, in Foro it., 1984, I, 664, che si sperava avesse definito i precedenti contrasti.
La questione riguardava l’ammissibilità dell’impugnazione in caso di eventi interruttivi verificatisi nel precedente grado di giudizio nei confronti della parte costituita a mezzo di difensore; era stata rimessa alle Sezioni Unite da Cass., 30.4.2013, n. 10216; su di essa si è svolto il 26 febbraio 2014, un «Dialogos», «Gli effetti sul processo del venir meno della parte. Una storia infinita»: v. il Report a cura di M. Acierno, in www.cortedicassazione.it.
Nella giurisprudenza che ha preceduto questa importante decisione erano state prospettate tutte le soluzioni astrattamente possibili: che l’impugnazione sia sempre e comunque inammissibile ovvero che essa sia sempre e comunque valida ed ammissibile, ovvero ancora che essa sia ammissibile, se chi l’ha proposta prova l’ignoranza dell’evento oppure se l’altra parte non prova che essa ne era a conoscenza.
Nella motivazione la Corte dà conto dell’intricato percorso della giurisprudenza e della dottrina, delle ragioni poste a fondamento delle diverse soluzioni e, nel più elevato esercizio della funzione di nomofilachia, pone fine ad una annosa ed intricata vicenda.
Sulla scia di questo precedente, le Sezioni Unite hanno anche risposto al quesito posto da Cass., 22.10.2013, n. 23890, sulla possibilità di condannare, ai sensi dell’art. 94 c.p.c., alle spese il difensore che non abbia tempestivamente comunicato l’evento interruttivo: Cass., 22.9.2014, n. 19887.
2.5 Esasperato formalismo in tema di notificazioni
Al compiacimento per il provvedimento del quale si è riferito nel paragrafo precedente, con il quale la Corte, nella sua composizione più autorevole, ha manifestato piena consapevolezza del proprio ruolo, si contrappone il disappunto per decisioni frettolose, espressione dell’ansia di liberarsi comunque di un ricorso, comunque destinato al rigetto.
Cass., 19.2.2014, n. 3934, (in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I) ha dichiarato inammissibile il ricorso notificato direttamente, ai sensi dell’art. 1 l. 21.1.1994, n. 53 (nel testo allora vigente), dal difensore, perché mancava agli atti la deliberazione di autorizzazione del Consiglio dell’Ordine: «è allora risolutivo osservare che, per quanto richiamata dal notificante, l’autorizzazione di cui all’articolo 1 non è stata prodotta in giudizio, neppure in copia. Devesi pertanto ritenere insussistente il presupposto di validità della notificazione. Ed essendo l’invalidità sanabile soltanto dalla costituzione della parte avversa (nella specie non avvenuta), il ricorso va dichiarato inammissibile». La «risolutiva» premessa, tuttavia, non ha esonerato la Corte dall’esame del merito del ricorso, perché, nel prosieguo della motivazione, si afferma che «a ogni modo, reputa la corte di evidenziare che il ricorso sarebbe in ogni caso da disattendere»; sono quindi esaminati i motivi di ricorso e se ne è indicata specificatamente l’infondatezza.
Nella prospettiva accolta da questa pronuncia, l’ammissibilità dei ricorsi per cassazione potrebbe essere subordinata all’esibizione di una pluralità di documenti, compresa l’attestazione di esistenza in vita del difensore, prevista dall’art. 46, lett. g), d.P.R. 28.12.2000, n. 445.
Il dubbio sulla sussistenza della validità della notificazione, peraltro, avrebbe imposto di provocare il contraddittorio, ai sensi dell’art. 384, co. 3, c.p.c.
Ma ciò non è avvenuto, con gli esiti indicati.
2.6 Sentenze non definitive su questioni
La stagione nella quale il principio della ragionevole durata del processo è stato considerato prevalente su ogni altra garanzia del «giusto processo» ex art. 111 Cost., appare finalmente e definitivamente superata.
In un recente passato, la prevalenza attribuita a tale principio ha suscitato vivaci reazioni. Ne è stata emblematica espressione Cass., 9.9.2010, n. 19246 (in Foro it., 2010, I, 3014, e 2011, I, 117, inRiv. dir. proc., 2011, 210, in Corriere giur., 2010, 1447, in Corr. mer., 2010, 1190), sui termini di costituzione nella opposizione a decreto ingiuntivo. La questione è stata, quindi, rimessa, con una motivazione esemplare, alle Sezioni Unite, da Cass., 22.3.2011, n. 6514 (in Foro it., 2011, I, 1039). Sulla questione è, poi, anche intervenuto il legislatore, con la l. 29.12.2011, n. 218, della quale la Corte ha giàpreso atto: Cass., 16.2.2012, n. 2242 (in Foro it., 2012, I, 2414). Anche il dibattito sugli effetti dei mutamenti di giurisprudenza, repentini ed imprevedibili può ritenersi concluso: la Corte, nella sua composizione più autorevole, ha colto l’occasione di fare il punto sui principii che regolano la materia: Cass., S.U., 11.7.2011, n. 15144 (in Foro it., 2011, I, 2254).
L’abbrivio di quella stagione, tuttavia, si manifesta ancora in alcune pronunce.
Cass., 18.9.2014, n. 19697, Cass., 9.7.2014, n. 15601, Cass., 2.7.2014, n. 14991 e Cass., 9.6.2014, n. 12948 (in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I, con note di V. Mastrangelo,G. Balena), hanno dichiarato, ai sensi dell’art. 360, co. 3, c.p.c., inammissibili i ricorsi contro le sentenze con le quali il giudice di appello ha risolto questioni ed ha rimesso la causa al primo giudice. Le prime due e l’ultima hanno provveduto su sentenze di riforma della dichiarazione di estinzione; la terza su una sentenza con la quale il giudice di appello aveva rimesso al primo giudice per l’omesso esame «della domanda di chiamata in giudizio di terzi».
Queste decisioni si collegano a quelle che hanno accolto la medesima soluzione per i ricorsi contro le sentenze del giudice di appello dichiarative della giurisdizione negata dal primo giudice: Cass., 2.9.2013, n. 20073, Cass., 28.6.2013, n. 16310, Cass., 22.4.2013, n. 9684, Cass., 12.2.2013, n. 3268, Cass., 24.1.2013, nn. 1717 e 1718, Cass., 31.10.2012, n. 18698, Cass., 16.7.2012, n. 12105, Cass., 10.7.2012, n. 11510, Cass., 3.7.2012, n. 11072, Cass., 20.6.2012, n. 10136, Cass., 6.4.2012, n. 5573, Cass., 22.4.2013, n. 9688, Cass., 18.10.2012, n. 17841, Cass., 13.6.2012, n. 9588.
Ai sensi dell’art. 360, co. 3, c.p.c., «non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorché sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio».
La disposizione implica quanto previsto dall’art. 279, n. 4, c.p.c., nel quale è chiara la nozione di sentenze non definitive su questioni; corrisponde all’art. 827, co. 2, per il quale «il lodo che decide parzialmente ilmerito della controversia è immediatamente impugnabile, ma il lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo».
Queste norme si contrappongono a quelle che impongono, invece, l’impugnazione immediata di sentenze non definitive: all’art. 420 bis, co. 2, c.p.c., che consente soltanto il ricorso immediato per cassazione contro le sentenze non definitive sull’accertamento pregiudiziale dei contratti collettivi di lavoro; all’art. 4, co. 12, l. 1.12.1970, n. 898, che ammette solo l’appello immediato contro la sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Le sentenze, con le quali il giudice di appello dispone la rimessione al primo giudice nelle tassative ipotesi elencate negli artt. 353 e 354 c.p.c., definiscono il processo innanzi al giudice di secondo grado; debbono, quindi, provvedere sulle spese, ai sensi dell’art. 91, co. 1, c.p.c., per il quale «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa».
La distinzione tra sentenze non definitive su domande e sentenze parziali, oggetto di contrasti e di un risalente dibattito, si fonda appunto sulla circostanza che il provvedimento contenga, o no, la condanna alle spese; si ritiene sentenza non definitiva riservabile quella che rinvia alla pronuncia definitiva la liquidazione delle spese, mentre è considerata sentenza definitiva parziale quella che contiene il provvedimento accessorio: ripercorre l’evoluzione della giurisprudenza Cass., 25.3.2011, n. 6993 (in Giust. civ., 2013, I, 482); ne è traccia anche nell’ampia e perplessa motivazione di Cass., 9.7.2014, n. 15601, conforme, nel dispositivo, all’orientamento in esame.
Le sentenze di secondo grado, che dispongono la rimessione al primo giudice perché hanno dichiarato la giurisdizione negata in primo grado, la nullità della notificazione della citazione, la necessità del litisconsorzio, l’erronea estromissione di una parte, o l’errata dichiarazione di estinzione, nonché quelle che dichiarano la nullità della sentenza non sottoscritta, chiudono il processo davanti al giudice di appello, sono definitive, non sono riservabili e devono contenere la liquidazione delle spese.
In questa prospettiva, Cass., 2.7.2014, n. 14991, riguarda, come già segnalato, una fattispecie diversa: la sentenza di riforma per l’omesso esame «della domanda di chiamata in giudizio di terzi», se non la si riconduce alla erronea estromissione di una parte, non rientra tra le tassative ipotesi di rimessione al primo giudice di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c.; può correttamente essere considerata una sentenza su una domanda, non una sentenza su una questione.
La decisione, tuttavia, è indice della tendenza espansiva dell’interpretazione dell’art. 360, co. 3, c.p.c. Questa trae fondamento da un obiter dictum della motivazione di Cass., 6.3.2009, n. 5456 (in Foro it., 2009, I, 3047), per la quale il ricorso incidentale condizionato deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito non siano state oggetto di decisione, mentre va esaminato solo in presenza dell’attualità dell’interesse, qualora, invece, sia intervenuta detta decisione.
In quella occasione, nella motivazione, la Corte ebbe a rilevare che «a sostegno dell’operatività del condizionamento del ricorso incidentale sulla questione di giurisdizione, proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel merito, milita anche la modifica apportata all’art. 360 c.p.c. dal d.leg. 2 febbraio 2006 n. 40.…Ne consegue che la sentenza che statuisca solo sulla giurisdizione, affermandola, non è immediatamente ricorribile per cassazione dalla parte soccombente sul punto; lo diventa solo a seguito di altra sentenza che definisca, almeno parzialmente, il giudizio e che sia oggetto di impugnazione dalla parte soccombente».
La confusione, in quella sede irrilevante, tra sentenza non definitiva sulla giurisdizione, ai sensi dell’art. 279, n. 4, c.p.c. e sentenza del giudice di appello di riforma della declinatoria, ai sensi dell’art. 353, co. 1, c.p.c., ha generato l’orientamento in esame, che ha trovato poi applicazione anche in riferimento alle altre ipotesi di rimessione della causa al primo giudice, nonché anche a fattispecie a questa estranee.
La riserva di impugnazione di cui agli artt. 340 c.p.c. può essere esclusa, come avviene nei casi previsti dagli artt. 420 bis, co. 2, c.p.c. e 4, co. 12, l. 1.12.1970, n. 898; può essere imposta, come avviene nella ipotesi considerata dall’art. 360, co. 3, c.p.c. In ogni caso deve essere possibile.
Ciò può avvenire soltanto per le sentenze che non chiudono il processo innanzi allo stesso giudice, perché, con l’impugnazione della sentenza definitiva, poi, è possibile impugnare anche la non definitiva.
Ma, con la medesima impugnazione, appare quanto meno improbabile che si possa impugnare la sentenza di primo grado che definisce il giudizio e quella del giudice di appello che abbia rimesso la causa al primo giudice.
L’applicazione del principio di ragionevole durata del processo consente alla Corte di liberarsi dei ricorsi contro le sentenze di rimessione al primo giudice ma sottrae questi provvedimenti ad ogni controllo: in questo senso v. le osservazioni di A. Proto Pisani, G. Balena, G. Olivieri, G. Ruffini, A. Carratta,D.Dalfino e di chi scrive a Cass., 9.7.2014, n. 15601, e a Cass., 2.7.2014, n. 14991, citt., in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I.
2.7 Contrasto sulla riforma dell’appello. Rinvio
Cass., 6.9.2010, n. 19051 (in Foro it., 2010, I, 3333, con nota diG. Scarselli, in Giur. it., 2011, 885, con nota di A. Carratta, in Giusto proc. civ., 2010, 1131 con nota di F.L. Luiso) aveva sterilizzato i possibili effetti dirompenti del processo di cassazione di cui all’art. 47, co. 1, lett. a), l. 18.6.2009, n. 69, chiarendo che, in assenza di vizi formali che determinano l’inammissibilità o l’improcedibilità del ricorso, questo può essere dichiarato «manifestamente infondato», non «inammissibile», e che l’ambito e l’oggetto del giudizio camerale affidato alla sesta sezione non sono circoscritti alle ipotesi di cui all’art. 375, nn. 1 e 5, c.p.c.
Sulla riforma del giudizio di appello, invece, si è già manifestato un aperto contrasto, del quale riferisce A. Carratta in questa sezione del volume, 2.1.1 “Filtro” in appello: prime applicazioni.
2.8 Termini e processi da ricorso
In ciascuna delle diverse e numerose ipotesi nelle quali la domanda si propone con ricorso da depositare è previsto un termine per la notifica del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza. Questo termine talvolta è espressamente qualificato «perentorio»; in altri casi, il legislatore tace. La questione era stata già esaminata dalla Corte in riferimento al ricorso introduttivo delle controversie di lavoro. Vi era, quindi, stata una pronuncia della Corte costituzionale.
La questione è nuovamente emersa in relazione al procedimento per la liquidazione dell’equa riparazione da durata irragionevole del processo.
Sull’argomento, il 22 maggio 2013, si è tenuto un incontro per iniziativa delle cattedre di diritto processuale civile dell’Università Roma Tre e della Formazione decentrata della Corte: «Conseguenze dell’omessa (o tardiva) notificazione del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza», in www.cortedicassazione.it.
La discussione, indipendentemente dalle soluzioni prospettate, ha messo in evidenza che la questione è comune a tutte le ipotesi nelle quali la domanda assume la forma del ricorso da depositare, sebbene l’ordinanza interlocutoria si riferisse ad una soltanto di esse e, quindi, quale che fosse la soluzione accolta dalle Sezioni Unite, sarebbe stato auspicabile che il problema fosse affrontato in generale, anche ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
Cass., 12.3.2014, n. 5700 (in Foro it., 2014, I, 1798, con ampia ed analitica nota d richiami di A.D. De Santis) ha affermato che, «nel procedimento per l’equa riparazione da irragionevole durata del processo, in caso di omessa notifica del ricorso introduttivo e del decreto di fissazione della camera di consiglio, qualora il resistente non si sia spontaneamente costituito, può essere concesso al ricorrente un nuovo termine perentorio per provvedere alla notifica».
La questione, quindi, è destinata a riproporsi in ciascuna delle fattispecie regolate dalla medesima disciplina.
2.9 Provvedimenti sulla competenza
Cass., S.U., 29.9.2014, n. 20449, ha risolto la questione sollevata da Cass., 2.8.2013, n. 18577: questa ordinanza interlocutoria aveva chiesto se «il provvedimento del giudice adito (nella specie monocratico), che, nel disattendere eccezione di parte, confermi la propria competenza e disponga la prosecuzione del giudizio davanti a sé, sia insuscettibile d’impugnazione con regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42 c.p.c., ove non preceduto dalla rimessione della causa in decisione e dal previo invito alle parti a precisare le rispettive integrali conclusioni anche di merito».
La Corte, nella sua composizione più autorevole, all’esito di un’ampia ed approfondita analisi della normativa sopravvenuta, degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità e di merito e dando conto anche delle opinioni espresse in dottrina, ha risposto con l’enunciazione del seguente principio di diritto: «il provvedimento del giudice adito (nella specie monocratico), che, nel disattendere eccezione di parte, confermi la propria competenza e disponga la prosecuzione del giudizio davanti a sé, è insuscettibile d’impugnazione con regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42 c.p.c., ove non preceduto dalla rimessione della causa in decisione e dal previo invito alle parti a precisare le rispettive integrali conclusioni anche di merito; ciò con la sola eccezione che il giudice del merito, pur avendo affermato la propria competenza senza previa rimessione della causa in decisione mediante invito alle parti precisare le rispettive conclusioni anche di merito, lo abbia fatto, conclamando in termini di assoluta inequivocità ed incontrovertibilità l’idoneità della propria determinazione a risolvere definitivamente, davanti a sé la questione di competenza».
La competenza, al pari di ogni altra questione pregiudiziale di rito e delle questioni preliminari di merito, può essere decisa separatamente ovvero unitamente al merito. È una questione pregiudiziale di rito avente carattere impediente ed idonea a definire il giudizio. La sua definizione, pertanto, impone, ai sensi degli artt. 187, co. 3, 420, co. 4, nonché dell’art. 101, co. 2, c.p.c., che sia provocato il contraddittorio tra le parti. La riforma dell’art. 38 c.p.c. e la previsione della forma dell’ordinanza per i provvedimenti che la decidono non ne hanno modificato la natura.
In questa prospettiva, il chiarimento fornito dalla Corte, si manifesta utile: le ordinanze con le quali il giudice rinvia la decisione della questione di competenza unitamente al merito sono prive di contenuto decisorio e non sono autonomamente impugnabili.
Sennonché la precisazione espressa nell’ultima parte del principio di diritto si presta a complicazioni probabilmente non previste.
Se, infatti, il giudice ha invitato le parti a precisare le conclusioni, ha fissato i termini per lo scambio delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero ha invitato le parti alle discussione orale, e, poi, con ordinanza, ha dichiarato la propria competenza ed ha provveduto sulla prosecuzione del processo, non può dubitarsi che il provvedimento abbia definito la questione di competenza e sia, quindi, impugnabile con il regolamento di competenza.
Ugualmente non sembra possano sussistere incertezze nell’opposto caso in cui il giudice abbia espressamente rinviato la decisione della questione di competenza unitamente al merito: il provvedimento è meramente ordinatorio e non è impugnabile.
Se, invece, il giudice, con ordinanza, senza provocare il contraddittorio tra le parti sulla questione e senza stabilire alcuno degli adempimenti previsti per la decisione, dichiara la propria competenza e dispone per la prosecuzione del processo, la natura del provvedimento si manifesta incerta. Tale incertezza non è fugata dalla affermazione della Corte secondo la quale, il provvedimento sarebbe impugnabile soltanto qualora «conclami» «in termini di assoluta inequivocità ed incontrovertibilità l’idoneità della … determinazione – del giudice – a risolvere definitivamente, davanti a sé la questione di competenza».
Nell’ipotesi considerata, l’assoluta inequivocità ed incontrovertibilità della determinazione del giudice monocratico non emerge dallo svolgimento delle attività previste per lo svolgimento della fase decisoria: precisazione delle conclusioni, scambio di comparse conclusionali ovvero discussione della causa.
Nell’ipotesi considerata, l’ordinanza sarebbe nulla per violazione dell’art. 101, co. 2, c.p.c., ma la nullità sarebbe destinata ad essere sanata per raggiungimento dello scopo con la proposizione del regolamento di competenza e l’eventuale replica dell’altra parte. Non sarebbe ammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione con la quale fosse denunciata soltanto la violazione del principio del contraddittorio, senza contestare anche la decisione sulla competenza; l’impugnazione dovrebbe comunque avere ad oggetto la decisione sulla competenza e consentirebbe di realizzare il contraddittorio.
Sennonché, di fronte ad un’ordinanza, pur palesemente viziata, con la quale il giudice abbia dichiarato la propria competenza ed abbia disposto la prosecuzione del processo, il difensore prudente proporrà regolamento di competenza, per sottrarsi al rischio che, in occasione della decisione di merito, il giudice affermi di avere già deciso sulla competenza e ritenga, quindi, preclusa ogni discussione sul punto.
Il contrapposto rischio di inammissibilità del regolamento sarebbe compensato dalla possibilità di interloquire ancora sulla questione di competenza.
Il chiarimento fornito della Corte in risposta all’ordinanza interlocutoria rischia, pertanto, di aprire nuovi ed imprevisti orizzonti contro il principio di ragionevole durata del processo. Questo, infatti, non significa liberarsi di un fascicolo,ma, in generale, implica, anche e soprattutto, scongiurare nuove occasioni di contenzioso su questioni processuali.
2.10 Sentenza parzialmente sottoscritta
Ancora nella sua composizione più autorevole, la Corte ha risolto le incertezze sul regime della sentenza parzialmente sottoscritta. Cass., 11.5.2014, n. 11021 (in Foro it., 2014, I, 2072, con nota di O. Desiato e F. Auletta), ha affermato che la sentenza emessa da un organo collegiale, sottoscritta dall’estensore ma non anche dal presidente, è nulla, non inesistente e la nullità è soggetta al principio di conversione di cui all’art. 161, co. 1, c.p.c.
2.11 Eccezioni rilevabili d’ufficio in appello
Cass., 7.5.2013, n. 10531 (in Foro it., 2013, I, 3500), aveva finalmente chiarito che la proposizione di eccezioni rilevabili d’ufficio nel corso del processo di primo grado ed anche in appello può implicare anche l’allegazione di nuovi fatti, se questi ultimi non sono controversi e risultano già dagli atti del processo.
In riferimento a tale questione, l’orientamento prevalente, condiviso da una parte della dottrina, era nel senso che il rilievo d’ufficio di eccezioni, una volta maturate le preclusioni, non implicasse comunque la possibilità di allegare fatti nuovi, ma soltanto quella di trarre le conseguenze dai fatti estintivi, modificativi o impeditivi tempestivamente entrati nel processo; una parte minoritaria della giurisprudenza e la prevalente dottrina, invece, erano nel senso che la possibilità del rilievo d’ufficio consentisse tutte le attività comprese nella proposizione delle eccezioni.
Proporre un’eccezione, infatti, significa allegare un fatto estintivo, modificativo o impeditivo dei fatti costitutivi dedotti dall’altra parte e dichiarare di volersene avvalere; la distinzione tra eccezioni in senso stretto, rilevabili soltanto dalla parte, ed eccezioni in senso lato, rilevabili anche d’ufficio, risiede nella circostanza che i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi a fondamento di queste ultime hanno un’immediata ed automatica efficacia distruttiva dei fatti costitutivi, mentre quelli a fondamento delle prime richiedono una manifestazione di volontà dell’interessato.
L’orientamento restrittivo della giurisprudenza si fondava anche sulla impossibilità di provare, dopo la maturazione delle preclusioni istruttorie o in appello, i fatti estintivi, modificativi ed impeditivi pur dotati di un’immediata ed automatica efficacia distruttiva dei fatti costitutivi.
Le Sezioni Unite hanno risolto la questione, ammettendo l’allegazione di fatti nuovi, ma subordinando la proposizione o il rilievo dell’eccezione all’inutilità di ogni attività istruttoria su di essi. Cass., 3.7.2013, n. 16602 (in Foro it., 2014, I, 168, con nota di richiami), ha ignorato la decisione delle Sezioni Unite ed ha negato la proponibilità in appello delle eccezioni rilevabili d’ufficio fondate «su fatti non tempestivamente allegati in primo grado»; in particolare, la Corte ha negato la possibilità di contestare, in appello, i poteri di rappresentanza dell’autore di una dichiarazione confessoria, acquisita nel giudizio di primo grado.
L’apprezzamento dei contributi alla certezza del diritto forniti dalla Corte nell’esercizio delle sue funzioni di nomofilachia si perde di fronte a decisioni emesse in violazione dell’art. 374, co. 3, c.p.c.
2.12 Il nuovo rito sui licenziamenti
Cass., 31.7.2014, n. 17443, in corso di pubblicazione in Foro it., 2014, I, con nota di D. Dalfino) si è occupata del nuovo rito sui licenziamenti di cui all’art. 1, co. 49 ss., l. 28.6.2012, n. 92. Anche questa decisione delle Sezioni Unite è stata provocata da un’ordinanza interlocutoria delle sezioni semplici: Cass., 18.2.2014, n. 3838 (in Foro it., 2014, I, 1845, e in Riv. dir. proc., 2014). Le questioni sottoposte alle Sezioni Unite riguardavano l’ammissibilità dell’azione di accertamento negativo del datore di lavoro, l’ammissibilità della domanda riconvenzionale del lavoratore licenziato e l’ambito dei poteri del giudice nella prima fase del procedimento, destinata a chiudersi con ordinanza, in riferimento alla definizione delle questioni pregiudiziali di rito. Anche questa pronuncia è stata preceduta da un «Dialogos», frutto della collaborazione della Formazione decentrata della Corte con l’Università Roma Tre, tenutosi il 15 aprile 2014.
Nel corso del dibattito, era stato posto in evidenza che le Sezioni Unite avrebbero potuto risolvere positivamente la seconda questione e liberarsi della prima: la proposizione della domanda riconvenzionale del lavoratore licenziato, infatti, rende irrilevante la questione relativa all’ammissibilità dell’azione di accertamento negativo del datore di lavoro; le Sezioni Unite avrebbero anche potuto affrontare le diverse e complesse questioni del nuovo rito per il quale, vuoi nella prima fase, vuoi nel giudizio di opposizione, vuoi in sede di reclamo innanzi alla corte di appello, il giudice ha il potere di regolare il procedimento nelmodo che ritiene più opportuno, con evidente pregiudizio del principio di uguaglianza; le Sezioni Unite, infine, avrebbero anche potuto dichiarare la facoltatività del nuovo procedimento, come avviene in ogni altro caso in cui sia previsto un procedimento speciale, che si aggiunge alle forme ordinarie di tutela.
La Corte, nella sua composizione più autorevole, è andata oltre la prima soluzione. Ha affermato che «il ricorso per regolamento di competenza può avere ad oggetto soltanto il presupposto della litispendenza e non anche profili concernenti la causa pendente dinanzi al giudice preventivamente adito».
Non ha colto l’occasione di pronunciarsi sull’argomento neppure ai sensi dell’art. 363 c.p.c.
2.13 L’a.t.p. nel processo previdenziale
Se, in riferimento al rito speciale sui licenziamenti, le Sezioni Unite hanno rifiutato di esercitare le funzioni di nomofilachia, la sesta sezione se ne è fatta carico in relazione alla consulenza tecnica preventiva inmateria previdenziale di cui all’art. 445 bis c.p.c.: Cass., 17.3.2014, nn. 6010, 6084 e 6085 (in Foro it., 2014, I, 1499, con nota di S. Gentile), hanno deciso i ricorsi proposti ed hanno delineato le caratteristiche del nuovo procedimento.
La Corte ha dichiarato ammissibili i ricorsi nei confronti dei decreti di omologazione della consulenza tecnica con esclusivo riferimento al capo sulle spese, mentre ha ritenuto che ogni altra questione possa essere fatta valere nell’ambito del giudizio di merito diretto alla liquidazione della prestazione.
La decisione non ha trovato diffuso consenso tra i giudici di merito. È stata interpretata nel senso che il giudice sia tenuto ad accogliere ogni ricorso diretto all’espletamento di una consulenza tecnica sulle condizioni di invalidità.
Appare ragionevole dubitare della correttezza di questa interpretazione, pur fondata sulla lettera di alcuni passaggi della motivazione.
La dichiarata inammissibilità dei ricorsi, infatti, non implica negazione del potere del giudice di merito di verificare la sussistenza di tutti le condizioni e di tutti i presupposti giuridici della domanda. Tali verifiche, secondo la Corte, non sono decisorie e definitive e vincolanti nel successivo, eventuale giudizio di merito, nell’ambito del quale potranno essere contestate e riviste.
Questa apparentemente ovvia soluzione è quella accolta dalla giurisprudenza in riferimento al procedimento del quale quello di cui all’art. 445 bis c.p.c. costituisce una specie: la consulenza tecnica preventiva di cui all’art. 696 bis c.p.c.
Appunto in relazione a quest’ultimo, con ampia ed articolata motivazione, sono stati individuati i poteri del giudice e le facoltà delle parti nell’ambito del procedimento diretto alla ammissione della consulenza tecnica preventiva: v. Trib. Milano, 30.6.2011, in Foro it., 2012, I, 1605, e in Giur. it., 2012, 1108.
Si è, quindi concluso: «Se nonostante i rilievi d’ufficio, l’instaurazione del contraddittorio, l’assunzione di sommarie informazioni non siano provati, neppure con cognizione sommaria, la competenza del giudice adìto o il fumus boni iuris del diritto fatto valere (anche in considerazione delle mere difese e/o delle eccezioni di controparte) o la strumentalità rispetto all’azione da proporsi nel giudizio di merito, ovvero ancora la consulenza richiesta non rientri nel novero delle materie specificamente indicate dalla norma, il giudice non disporrà la consulenza tecnica e rigetterà il ricorso ex art. 696 bis c.p.c. (con possibilità per il ricorrente di riproporre l’istanza solo ai sensi dell’art. 669 decies, applicato in via analogica e fatta salva, in ogni caso, la proponibilità del reclamo ex art. 669 duodecies per effetto della sentenza C. cost., 16.5.2008, n. 144, in Foro it., 2009, I, 2634).
Una ragionevole lettura dei provvedimenti della Corte appare conforme ai risultanti raggiunti dalla giurisprudenza di merito in relazione al procedimento assunto a modello.
2.14 Nullità del matrimonio e ordine pubblico
Ancora nell’esercizio delle funzioni di nomofilachia, la Corte, nella sua composizione più autorevole, è stata chiamata a comporre il contrasto sulla dichiarazione di efficacia nell’ordinamento interno delle sentenze di nullità del matrimonio pronunciate dal giudice ecclesiastico in caso di convivenza protratta: Cass., S.U., 17.7.2014, n. 16739.
La motivazione della sentenza sulla rilevanza del matrimonio come rapporto costituisce un esempio ed un modello dell’esercizio della più elevata funzione del Giudice di legittimità. La sua lettura suscita emozione e riconcilia con lo svolgimento di un’attività sempre più difficile ed ingrata.
Secondo la Corte, «la convivenza “come coniugi” deve intendersi… quale elemento essenziale del “matrimonio – rapporto”, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari»; «in tal modo intesa, la convivenza “come coniugi”, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio “concordatario” regolarmente trascritto, connotando nell’essenziale l’istituto del matrimonio nell’ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano” e, pertanto… è ostativa… alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell’”ordine canonico” nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale».
Alla base di questo principio di diritto, sebbene giustamente non menzionato nella motivazione, sembra essere il Canone 1623 del Catechismo della Chiesa Cattolica, per il quale «sono gli sposi, come ministri della grazia di Cristo, a conferirsi mutuamente il sacramento del Matrimonio esprimendo davanti alla Chiesa il loro consenso», cosicché ogni interazione tra i coniugi costituisce celebrazione del sacramento per tutto il corso della vita matrimoniale.
All’esito di questa esemplare motivazione e dopo l’enunciazione del riferito principio di diritto, tuttavia, la Corte ha affermato che «convivenza “come coniugi”» «deve qualificarsi siccome eccezione in senso stretto (exceptio juris) opponibile da un coniuge alla domanda di delibazione proposta dall’altro coniuge» e «può essere eccepita esclusivamente, a pena di decadenza nella comparsa di risposta, dal coniuge convenuto in tale giudizio interessato a farla valere».
Ne consegue che l’osservanza dell’«ordine pubblico italiano» è rimessa alla tempestiva iniziativa di parte e quindi alla disponibilità delle stesse; qualora la «convivenza “come coniugi”» non sia tempestivamente eccepita, le sentenze dichiarative della nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici possono comunque essere dichiarate efficaci nell’ordinamento italiano.
Nelle pagine che precedono si è dato conto di quanto è stato fatto con le risorse a disposizione e sono state messe in evidenza, in relazione ad alcune specifiche pronunce, le luci e le ombre dell’attività della Corte, oberata da un numero di ricorsi non comparabile con quello di altre corti supreme.
Non può essere, tuttavia, pretermesso che il controllo di legalità sui provvedimenti giurisdizionali è affidato alla Corte di cassazione, perché la Costituzione garantisce il ricorso per cassazione per «violazione di legge».
Senza modificare la Costituzione, quindi, l’appello potrebbe essere abolito. Oppure, modificando la Costituzione, si potrebbe limitare l’accesso alla Cassazione.
Questa seconda soluzione diretta a costruire una Corte di cassazione diversa da quella unificata nel 1923 ed alla quale i costituenti hanno attribuito il controllo di legalità, implica una corte suprema di pochi componenti, selezionati in modo diverso dal concorso, con funzioni di indirizzo di politica del diritto, nonché, probabilmente, la unificazione delle funzioni della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, come previsto negli Stati Uniti; e presuppone altresì una profonda revisione della struttura delle corti d’appello, alle quali sarebbe affidato il monopolio del controllo di legalità sui provvedimenti giurisdizionali.
La prima soluzione, realizzabile nel vigente quadro costituzionale, implica un incremento delle risorse della Corte di cassazione, innanzi alla quale sarebbero concentrate tutte le impugnazioni.
Sennonché l’una e l’altra richiedono profondi interventi strutturali e non sono di breve periodo. Occorre anche considerare che quasi il 40% dei ricorsi per cassazione riguarda le controversie tributarie, alle quali occorre aggiungere quelle previdenziali, nonché i ricorsi in materia di sanzioni amministrative proposti prima del 2006, quando è stata prevista l’appellabilità delle relative decisioni. La gestione di questa tipologia di controversie implica interventi organizzativi estranei all’esperienza di ogni altra corte suprema.
Una prospettiva seria e realistica non può prescindere dall’incidenza del contenzioso seriale, dai profili organizzativi del lavoro della Corte, dalle delicate questioni relative alla tecnica di redazione degli atti e, soprattutto, dei provvedimenti, sebbene il dibattito generale sul ruolo della Corte sia comunque orientato sul futuribile, sottraendo energie alla soluzione delle questioni concrete.