GIUDIZIO UNIVERSALE
Il g. universale costituisce, nell'ambito della dottrina cristiana, il momento conclusivo della storia dell'umanità nel quale si compie in forma grandiosa e solenne la giustizia divina.Il concetto di g. universale - presente già nell'Antico Testamento, e in particolare nel libro di Daniele - assunse maggiore rilevanza nella letteratura neotestamentaria, nella c.d. apocalisse sinottica (Mt. 25,31-46, Mc. 13, 24-37 e Lc. 21,25-38) e soprattutto nell'Apocalisse di s. Giovanni, scritto conclusivo della Bibbia.In Occidente, nonostante le frequenti allusioni a tale evento contenute anche negli scritti apocrifi, nella letteratura patristica e in particolare in quella omiletica, non si conserva né è attestata alcuna rappresentazione del g. universale, nel senso stretto del termine, anteriore agli anni intorno all'800 (affreschi della chiesa di S. Giovanni a Müstair, nei Grigioni; miniature dei Carmina Sangallensia; avorio anglosassone, Londra, Vict. and Alb. Mus.); in Oriente tale limite cronologico arriva agli inizi del sec. 10° (Yılanlı Kilise nella regione di Ihlara, a E di Aksaray, in Cappadocia; S. Giovanni a Güllü Dere, nei pressi di Çavuşin, 913-920 ca.; S. Stefano a Castoria, in Macedonia, metà del sec. 10°). Un manoscritto dei Sacra Parallela di Giovanni Damasceno, del sec. 9° (Parigi, BN, gr. 923), presenta a c. 67v un g. universale in registri sovrapposti, ma il codice venne eseguito in Italia, a Roma o nelle regioni meridionali, e non in Palestina.In alcune opere di età paleocristiana si fa certamente riferimento a questo tema, sia pure in maniera indiretta, attraverso la parabola delle pecore e dei capri, come in un coperchio di sarcofago, della fine del sec. 3°-inizi 4°, conservato a New York (Metropolitan Mus. of Art), nel mosaico absidale della scomparsa basilica paoliniana di Fondi (prov. Latina), il cui soggetto è tramandato attraverso i tituli di s. Paolino di Nola, degli inizi del sec. 5°, e nel mosaico della navata di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, della prima metà del sec. 6°; tuttavia, forse con l'eccezione del sarcofago di Agilberto nella cripta di Saint-Paul a Jouarre (Ile-de-France), che presenterebbe (Brenk, 1964b), già intorno al 640, figure di defunti risuscitati ai lati di Cristo giudice, in nessuna opera paleocristiana o protobizantina un'apparizione trionfale del Cristo concepita come Seconda Venuta è associata a una risurrezione generale dei corpi e a una divisione tra gli eletti e i dannati. Beda il Venerabile (672-735), nella Historia Abbatum, lascia intendere che un'immagine del g. universale era inserita in un ciclo apocalittico, oggi scomparso, sul muro nord della chiesa di St Peter a Wearmouth: "vel extremi discrimen examinis quasi coram oculis habentes, districtius se ipsi examinare meminissent" (PL, XCIV, col. 718A). Il suo maestro s. Benedetto Biscop (628 ca.-690) aveva dunque fatto rappresentare in quella chiesa, intorno al 675, un g. universale secondo Ap. 20, 11ss., o forse una scelta di illustrazioni apocalittiche incentrate sulle realtà finali, alla maniera di ciò che si vedeva agli inizi del sec. 11° nel perduto ciclo, dovuto all'abate Gozlin (820-886), vescovo di Parigi, sulla controfacciata dell'abbazia benedettina di Saint-Pierre a Fleury (od. Saint-Benoît-sur-Loire, dip. Loiret).L'illustrazione dei Salmi, particolarmente in Occidente - per es. nei salteri, del primo quarto del sec. 9°, di Utrecht (Bibl. der Rijksuniv., 32) e di Stoccarda (Württembergische Landesbibl., Bibl. fol. 23) -, e quella dell'Apocalisse (v.) presentano d'altro canto già a partire dall'epoca carolingia, se non rappresentazioni complete del g. universale, almeno allusioni inequivocabili al ritorno di Cristo alla fine dei tempi, alla risurrezione dei morti, alla separazione tra i buoni e i malvagi e ai supplizi infernali. Queste immagini sono in larga misura il fedele riflesso di prototipi tardoantichi e non si può dunque escludere l'esistenza di rappresentazioni del g. universale nell'iconografia paleocristiana. Tali tentativi precoci rimasero comunque confinati in un ambito particolare, quello del libro miniato. La grande arte monumentale non esplorò questa via, né va considerata come eccezione la decorazione dell'arco absidale di S. Michele in Africisco a Ravenna (Berlino, Mus. für spätantike und byzantinische Kunst), della metà del sec. 6°: la lancia e la canna con la spugna nelle mani degli angeli che circondano Cristo (Ap. 8, 2-5) sono un'aggiunta del sec. 19° e i sette angeli con le trombe che l'accompagnano già nel sec. 6° raffigurano l'immagine della Chiesa in espansione cuncto tempore saeculi; con il medesimo senso, indicato dalle iscrizioni, la stessa raffigurazione compare in S. Pietro al Monte a Civate (prov. Como) alla fine dell'11° secolo.Ciò che avvenne del g. universale nei cicli narrativi d'origine romana è sotto questo aspetto rivelatore. Nell'Apocalisse di Treviri (Stadtbibl., 31), copia carolingia di un manoscritto del sec. 5°-6°, questo episodio è oggetto di una composizione già complessa (c. 67r): Cristo giudice, imberbe, troneggia su un globo fra sei angeli, due dei quali presentano aperti i libri in cui sono iscritte le opere dei risorti. L'aggiunta, sulla sinistra, della Gerusalemme celeste indica che il g. universale di Ap. 20, 11-15, conformemente all'uso medievale, probabilmente a partire da s. Agostino, veniva considerato come prolungantesi sino alla fine di Ap. 21, 8, dove è descritta la ricompensa promessa ai giusti dopo il racconto delle pene riservate ai malvagi. Sotto Cristo un gruppo di uomini nudi, i risorti, attende la sentenza; nel terzo registro, infine, un angelo ordina al mare di restituire i suoi morti, un altro presiede alla ricomposizione di un corpo tagliato a pezzi, mentre un terzo, sulla destra, spinge verso l'inferno, nello stagno di fuoco, quattro dannati e Satana incatenato.In un manoscritto nella Expositio in Apocalypsin di Aimone di Auxerre (Oxford, Bodl. Lib., 352), databile al sec. 12° e proveniente dalla Germania meridionale, il miniatore non conservò del medesimo modello che i due angeli con il libro della vita e il libro della morte; Cristo inscritto in una mandorla mostra le sue piaghe (c. 12v), accompagnato da una croce trionfale, il segno del Figlio dell'uomo di Mt. 24, 28. D'altro canto gli eletti disposti su sette file sono assimilati ai cori di tutti i santi. Tra le leggende che accompagnano questa immagine e quella della c. 12r va notato il primo versetto di Ap. 21.Nelle apocalissi gemelle di Valenciennes (Bibl. Mun., 99), del sec. 9°, e di Saint-Amand (Parigi, BN, nouv. acq. lat. 1132), del sec. 10°, il g. universale non compare: a c. 37r del manoscritto di Valenciennes Cristo appare semplicemente seduto sopra la scena di diabolus e inferus incatenati insieme e gettati nello stagno di fuoco e di zolfo; le leggende rinviano tuttavia ad Ap. 20, 11-15. Queste due immagini sono dissociate nel manoscritto parigino: il Cristo di Ap. 20,11 a c. 31v, il diavolo e l'inferno definitivamente incatenati di Ap. 20,14 a c. 31r. Nell'Apocalisse di Bamberga (Staatsbibl., Bibl. 140), del 1001-1002 ca., appartenente al medesimo gruppo ma in una variante più prolissa, quella che doveva apparire come una lacuna del modello antico fu colmata da una visione di Matteo: Cristo con la croce siede in trono tra gli apostoli e gli angeli, al di sopra di altri due angeli che presiedono alla separazione dei buoni e dei malvagi. Il cenacolo apostolico, la croce trionfale tenuta da Cristo, le scritte sui filatteri dei due angeli ("Venite benedicti", "Discedite maledicti"), così come i quattro angeli che suonano la tromba al di sopra dei defunti che escono dalle loro tombe rinviano infatti ai capitoli di Mt. 19 e 24-25 e non all'Apocalisse, mentre Satana, legato, che contempla Cristo vittorioso, evoca più le figure dei prigionieri delle rappresentazioni trionfali antiche che non il diavolo incatenato e gettato nel fuoco di Ap. 20, 14.In un terzo gruppo di manoscritti (per es. un codice dei Commentari all'Apocalisse di Beato di Liébana conservato a Berlino, Staatsbibl., Theol. lat. fol. 561, del 1115 ca.) il g. universale è assente, oppure, come nel Liber floridus nella versione gotica di Parigi (BN, lat. 8865, c. 42v), potevano venire combinati, senza tener conto della tradizione esegetica, Ap. 20, 1-15 e Mt. 24-25. In questo caso, da una parte e dall'altra del Cristo in trono, gli eletti accompagnati dall'angelo con il liber vitae sono designati dall'iscrizione "Venite benedicti" e i dannati, sotto l'angelo che tiene il liber mortis, dall'iscrizione "Discedite maledicti". Nel Liber floridus il g. universale occupa comunque un posto limitato: un ottavo di pagina nella copia di Parigi, la più antica conservata integralmente.Nel momento in cui l'interesse per il g. universale andava diffondendosi, lacune ed esitazioni e soprattutto la necessità di rifarsi ad altre fonti rivelarono con chiarezza che l'Apocalisse, in particolare la visione di 20, 11-15, non poteva offrire materiali iconografici sufficienti e adeguati. In altri passi (per es. Ap. 11, 15-18; 19, 1-10) la rappresentazione delle visioni della gloria finale non comportava d'altronde mai digressioni sul tema del g. universale. A partire dal sec. 9°, in mancanza di veri modelli antichi, si dovette innovare, inventando una nuova tematica, e intorno agli schemi trionfali, reinterpretati come illustrazione sintetica di Mt. 24-25 o accessoriamente di Ap. 1, 11, si cristallizzarono diverse compilazioni di motivi legati al concetto di giudizio.A partire dagli inizi del sec. 9° cominciò dunque a configurarsi in Occidente quella che sarebbe divenuta in seguito la fisionomia generale delle apparizioni divine che preludono al g. universale. Nella chiesa di S. Giovanni a Müstair e nei Carmina Sangallensia il Cristo della Seconda Venuta era accompagnato dalla croce, il trofeo, il segno trionfale del Figlio dell'uomo. Egli è circondato da consiglieri, gli apostoli seduti di Mt. 19, 28, e da angeli, generalmente quattro, che suonano le trombe per risvegliare i defunti. Questi ultimi fuoriescono per lo più da sarcofagi in pietra e, più raramente e più tardi, direttamente dal terreno. I quattro versi in forma di tituli dei Carmina Sangallensia riassumono perfettamente la situazione: "Ecce tubae crepitant quae mortis iura resignant / Crux micat in caelis, nubes praecedit et ignis / Hic resident summi Christo cum iudice sancti / Iustificare pios, baratro damnare malignos".L'ostentazione delle piaghe, già contenuta nel manoscritto parigino dei Sacra Parallela, non si generalizzò affatto prima del sec. 9° e solo con l'11°, o piuttosto a partire dagli inizi del sec. 12°, vennero regolarmente raffigurati sia la piaga sul fianco destro, che appariva perciò scoperto, sia gli altri strumenti della passione, all'inizio in forma trionfale (portale meridionale dell'abbaziale di Saint-Pierre a Beaulieu-sur-Dordogne, nel Quercy, del 1130-1140) e, in seguito, con accenti sempre più realistici. Esistono però anche testimonianze precoci di questa nuova tematica, divenuta consueta nei secc. 12°-14°: Cristo con il fianco destro scoperto, con il sangue che cola dalla piaga aperta dalla lancia o Cristo tra i suoi arma, in questo caso la lancia, la croce e la spugna, sono già rappresentati intorno alla metà del sec. 10° nel Salterio di Aethelstan (Londra, BL, Cott. Galba A.XVIII, cc. 21r, 2v), in mezzo ai nove cori angelici e ai cori di tutti i santi. Cristo in trono al di sopra di un'immensa croce trionfale mostra ugualmente le sue piaghe in un avorio eseguito intorno all'anno Mille e conservato a Cambridge (Pembroke College), e compare ancora, ritratto di profilo, preceduto da angeli che portano gli strumenti della passione, mentre attraversa i nembi - come in S. Giovanni a Müstair o in S. Giovanni a Güllü Dere in Cappadocia -, nel Benedizionale di s. Etelvoldo, manoscritto inglese della fine del sec. 10° (Londra, BL, Add. Ms 49598, c. 9v).Venivano utilizzate anche altre formule. L'avorio anglosassone di Londra, eseguito intorno all'800, presenta semplicemente Cristo in trono, tra sei angeli che suonano la tromba, recante egli stesso due cartigli con le iscrizioni "Venite" e "Discedite", senza mostrare le sue piaghe e senza la croce. È peraltro vero che quest'ultima e gli altri strumenti del supplizio mancano ugualmente negli affreschi della controfacciata della basilica di Sant'Angelo in Formis, presso Capua, della fine del sec. 11°, nei portali del Saint-Lazare ad Autun (dip. Saône-et-Loire), del 1130-1135 ca., e del Saint-Trophime ad Arles (dip. Bouches-du-Rhône), della fine del sec. 12°, in un momento in cui invece l'ostentazione delle piaghe e dei signa, in forma spesso assai enfatica, come per es. a Santiago de Compostela, si era generalizzata al punto da divenire motivo quasi obbligatorio dell'iconografia occidentale della Seconda Venuta o del g. universale.Il ritorno di Cristo alla fine dei tempi, a parte qualche rara eccezione, era sempre interpretato in una visione statica e non come un adventus, ovvero come ingresso trionfale di un sovrano. L'iconografia non seguì dunque in questo l'esempio dei Padri della Chiesa, che fin dalle origini avevano invece interpretato tale avvenimento sul modello dell'adventus imperiale. L'immagine di Cristo che attraversa i nembi, preceduto dalla croce, sulla controfacciata di S. Giovanni a Müstair rimase così senza seguito, se non nel citato Benedizionale di s. Etelvoldo. Il fenomeno si presentò analogo in Oriente: l'esempio di S. Giovanni a Güllü Dere, di fatto comparabile a quello di Müstair, non ebbe seguito. Occorre attendere il sec. 14° per veder ricomparire questo motivo, per es. negli affreschi della chiesa del monastero di Dečani (1335-1350), in Serbia, in quello che può ben definirsi un tentativo fallito di riunire in un medesimo insieme l'immagine dinamica del ritorno e quella del g. universale. Cristo stante ma posto frontalmente e immobile, che tiene la propria corona, nelle pitture assai frammentarie della chiesa di S. Ambrogio (od. S. Carlo) a Negrentino, presso Prugiasco, nel Canton Ticino, della fine del sec. 11°, presenta un originale tentativo di combinare i due temi.In Occidente, tanto a N quanto a S delle Alpi, si imposero pressoché ovunque alcune formule stereotipate. Oltralpe predominò in una prima fase, sino agli inizi del sec. 13°, uno schema ereditato dalla Tarda Antichità - attestato per es. nel mosaico absidale di S. Pudenziana a Roma - nel quale Cristo giudice compare al di sotto della croce, come per es. a Müstair, nei Carmina Sangallensia, nelle lunette dei portali della Sainte-Foy a Conques, in Alvernia, del 1125-1135 ca., di Beaulieu, del portale centrale sud della cattedrale di Chartres (intorno al 1210 ca.) e nella Bibbia di Farfa (Roma, BAV, Vat. lat. 5729). In Italia, invece, predominò un altro schema antico, la croce sotto i piedi di Cristo, testimoniato già in un'ampolla di Bobbio (Mus. dell'Abbazia di S. Colombano, inv. nr. 2), che ricorre per es. nelle porte in bronzo di S. Zeno a Verona, della seconda metà del sec. 11°, nel g. universale dipinto da Pietro Cavallini in S. Cecilia in Trastevere a Roma alla fine del sec. 13° e in quello di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova, agli inizi del sec. 14°, ma anche nei pulpiti del battistero di Pisa, del duomo di Siena e di S. Giovanni Fuorcivitas a Pistoia, della seconda metà del 13° secolo. La croce veniva talvolta presentata dinanzi o al di sopra di un altare, presso il quale comparivano frequentemente i martiri di Ap. 6, 9-11, confusi con i santi martiri innocenti (g. universale dipinto in S. Giovanni a Porta Latina, 1191-1198; in S. Cecilia in Trastevere a Roma; nel coro delle monache in S. Maria Donnaregina a Napoli, del 1330 ca.; in S. Maria in Vescovio presso Torri in Sabina, prov. Rieti, della fine del sec. 13°). La formula italiana non era peraltro meno diffusa a N delle Alpi, come mostrano l'avorio di Cambridge, il Salterio di Enrico di Blois, del 1129-1171 (Londra, BL, Cott. Nero C.IV), in relazione con un altare, come pure nell'Evangeliario di Wolfenbüttel (Herzog August Bibl., Helmst. 65) del 1194 circa. Al contrario la formula nordica era praticamente sconosciuta in Italia.A partire dagli inizi del sec. 13° l'ostentazione della croce assunse nella grande scultura gotica carattere meno enfatico. Tenuta assai sovente da un angelo, alla destra o alla sinistra di Cristo, essa tendeva a perdere il proprio status di segno di gloria privilegiato, come nei portali con il g. universale di Notre-Dame a Parigi, del 1220-1230, di Notre-Dame ad Amiens (dip. Somme), del 1220-1235, di Saint-Etienne a Bourges (dip. Cher), del 1255-1260, di Saint-Pierre a Poitiers (dip. Vienne), del 1250 ca., ecc.; tale soluzione diffusa nel Gotico francese si impose soprattutto nella scultura monumentale, dal San Isidro a León (intorno al 1270) alla cattedrale di Ferrara e al duomo di Bamberga. A questo proposito si è spesso indicato il portale di Notre-Dame a Parigi come il modello della nuova formula iconografica: il prestigio della città ebbe senza dubbio un ruolo importante, ma non va dimenticato che già precedentemente, nel St. Georg a Oberzell nella Reichenau (Baden-Württemberg), degli inizi del sec. 12°, nel portale meridionale reimpiegato della facciata di Notre-Dame a Laon (dip. Aisne) e nel Salterio di Aethelstan, la croce veniva presentata insieme con gli altri strumenti della passione ai lati di Cristo; anche il g. universale del Salterio della regina Ingeborga (Chantilly, Mus. Condé, 9, già 1695, c. 33r), anteriore a quello del portale di Notre-Dame a Parigi, presenta questa disposizione. Si rilevano infine alcune altre varianti del binomio Cristo-croce: nel portale centrale dell'abbaziale di Saint-Denis, del primo terzo del sec. 12°, Cristo appare davanti alla croce, mentre nel St. Michael a Burgfelden (Baden-Württemberg), della seconda metà del sec. 11°, è collocato dietro. Lo stesso motivo venne in seguito ripreso, intorno al 1267-1276, in un manoscritto di Oxford (Keble College Lib., 49, c. 235v), proveniente dal convento di Heilig Kreuz a Ratisbona; alla sommità della pagina Cristo in trono, tra la Vergine e cinque apostoli a sinistra e quattro angeli con gli strumenti della passione a destra, mostra le sue piaghe con due spade che gli fuoriescono dalla bocca. La parte bassa del corpo è coperta da un'immensa croce latina di colore verde che fluttua dinanzi a lui. Accade anche che il Cristo tenga o presenti egli stesso il suo segno, sia a guisa di scettro, come nel Lezionario di Bernulfo, del 1030 ca. (Utrecht, Rijksmus. Het Catharijneconvent, 1503, c. 41v), o nella cappella di S. Silvestro del monastero dei Ss. Quattro Coronati a Roma, del 1246 ca., sia come pesante trofeo aureo che splende al suo fianco, secondo la formula della citata Apocalisse di Bamberga (c. 53r).A questa volontà sempre più espressa di assimilare il Cristo giudice della Seconda Venuta al Cristo crocifisso e risuscitato della Prima è probabilmente collegata - a partire dagli inizi del Duecento e soprattutto a N delle Alpi - la presenza, ai lati della figura principale, di s. Giovanni Evangelista e della Vergine in veste di intercessori privilegiati. Così come avevano assistito Cristo nella sua agonia, essi l'accompagnano nel suo ritorno trionfale, e senza dubbio per le stesse ragioni, a partire dal sec. 13° - per es. nel portale di Amiens -, Cristo giudice, che era essenzialmente il Cristo risorto, venne progressivamente assimilato, sempre a N delle Alpi, al Cristo di Ap. 1, 12-20. Dalla visione iniziale del settenario delle lettere alle chiese d'Asia (Ap. 1, 9-20), immagine per eccellenza di Cristo risorto - compare già intorno al 300 nel commentario di Vittorino di Pettau (In Apocalypsin; CSEL, XLIX, 1916) e ritorna ancora agli inizi del sec. 13° nella Bibbia moralizzata latina di Vienna (Öst. Nat. Bibl., 1179) -, si riprese soprattutto l'attributo della spada a doppio taglio. A partire dal sec. 14° Cristo che mostra le piaghe, con la spada e un giglio che gli escono dalla bocca, divenne l'immagine tipica del g. universale.Sin dal sec. 13°, nelle bibbie moralizzate, il g. universale poteva essere introdotto dall'incoronazione della Vergine, di fatto un'incoronazione dell'Ecclesia, immagine che, come mostra il g. universale dipinto da Buonamico Buffalmacco nel Camposanto di Pisa nel sec. 14°, venne regolarmente adottata, sotto forme diverse, nel Trecento e nel Quattrocento. Parallelamente va notata la presenza della donna di Ap. 12, così come quella del drago che emette il suo torrente d'acqua, nel g. universale di S. Maria Donnaregina a Napoli. Va ricordato infine che il g. universale poteva servire da allegoria del riposo del Creatore al termine dell'opera dei sei giorni, per es. nelle bibbie moralizzate in genere o nel cleristorio meridionale, al livello del rosone occidentale, della cattedrale di Laon, sia nella versione con il Cristo solo sia in quella con l'Ecclesia da lui incoronata. Infine, l'idea di antica origine che fosse l'intera Trinità a presiedere al g. universale sotto l'aspetto del Figlio trovò solo tardiva consacrazione iconografica e appare appena suggerita negli archivolti del portale centrale di Saint-Denis.I consiglieri del Cristo giudice erano all'inizio gli apostoli, conformemente alla promessa di Mt. 19, 28. In Occidente, a partire dal primo terzo del sec. 12° (per es. Saint-Lazare ad Autun, Saint-Denis), a essi vennero associati i vegliardi seduti di Ap. 4,4, destinati a scomparire, insieme con gli apostoli, intorno agli inizi del sec. 13° a vantaggio di consiglieri anonimi, sempre più numerosi, che rapidamente vennero assimilati ai cori di tutti i santi. Le trentotto piccole figure sedute del timpano di Santiago de Compostela occupano un posto secondario, così come le nove figure anonime in trono associate con Pietro e Paolo del portale della collegiata di Saint-Silvain a Levroux (dip. Indre), della fine del sec. 12°-inizi 13°, nel Berry, e per i quindici uomini e donne seduti in compagnia di nove apostoli nella vetrata con il g. universale del deambulatorio della cattedrale di Bourges, mentre a partire dagli inizi del sec. 13°, soprattutto negli esempi di Chartres, Parigi, Amiens e Bourges, questi nuovi consiglieri appaiono disposti su più ordini e, negli archivolti dei grandi portali gotici, si riunisce una corte di giustizia, di volta in volta progressivamente sempre più numerosa e più gerarchizzata.Agli apostoli e ai vegliardi e, in seguito, ai cori di tutti i santi si unirono i cori angelici, anch'essi distinti da attributi e suddivisi in ordini a partire dagli inizi del Duecento (per es. nel transetto meridionale della cattedrale di Chartres). In numero di nove essi sono già attestati nel Salterio di Aethelstan (c. 2v) e ricorrono in seguito a Sant'Angelo in Formis, in Saint-Trophime ad Arles, a Chartres e nel battistero di Firenze (1270 ca.), nonché intorno alla mandorla del Cristo giudice della facciata del duomo di Orvieto (sec. 14°) e, disposti in gruppi di tre, nel citato Salterio di Utrecht (c. 59r). Il g. universale in S. Maria Donnaregina a Napoli riunisce tutti questi consiglieri e testimoni: i nove cori angelici, i vegliardi, sotto l'aspetto di apostoli e patriarchi, e tutti i santi suddivisi secondo l'ordine gerarchico. La partecipazione dei cori angelici e soprattutto dei cori di tutti i santi tese così a divenire uno dei temi dominanti dell'iconografia del g. universale nei secc. 13° e 14° e poi nel Quattrocento.In Occidente si ebbero diverse figure di intercessori nel g. universale: la Vergine, s. Giovanni Evangelista o s. Giovanni Battista, ma anche s. Pietro, in particolare in Inghilterra. Nel sec. 13° in Francia fu s. Giovanni Evangelista a essere più frequentemente associato alla Vergine; la presenza del Battista, qui più rara, era invece comune in Italia e nell'area germanica (per es. nel portale dei Principi nel duomo di Bamberga). A partire dal sec. 14° s. Giovanni Evangelista finì per cedere quasi ovunque il posto al Battista.Pur senza essere marginale, il ruolo dell'Apocalisse non risultò preponderante. Poteva accadere certamente che una Maiestas Domini o il Cristo circondato dai viventi introducessero un g. universale (per es. in Saint-Trophime ad Arles e nel pulpito di Nicola Pisano nel battistero di Pisa) e che i vegliardi andassero a completare, negli archivolti di un portale, il cenacolo del g. (cattedrale di Mâcon, od. Vieux Saint-Vincent; Saint-Lazare ad Autun; Saint-Denis; Amiens). Una prima testimonianza della loro presenza in questo particolare contesto è fornita nel sec. 9° da un poema di Rabano Mauro (De fide catholica rythmus), nel quale Mt. 24-25 e Ap. 4-5 sono strettamente collegati; purtroppo non è possibile sapere se questi versi siano stati composti per servire da tituli a un'immagine del g. universale. Se si tiene conto solo dei monumenti conservati, l'esempio più antico di una riunione di vegliardi intorno al Cristo giudice è quello del Saint-Lazare ad Autun; benché i vegliardi seduti nell'archivolto inferiore siano oggi scomparsi, la loro originaria presenza in quel punto è certa. A Saint-Benoît-sur-Loire, nella controfacciata della chiesa di Saint-Pierre, decorata al tempo dell'abate Gozlin, i vegliardi circondavano non il Cristo giudice di Ap. 20,11 bensì l'Anonimo circondato dai viventi di Ap. 4,2. È vero che a Fleury tutta l'Apocalisse serve da preludio al g. universale, ma si tratta di una concezione del tutto inusuale; è infatti solo con il sec. 12° che un'assemblea di vegliardi compare regolarmente associata a un'apparizione divina che prelude alla fine dei tempi e al g. universale. Tuttavia la loro presenza intorno al Cristo giudice, quest'ultimo talvolta assimilato all'Anonimo di Ap. 4,2, ha condotto numerosi storici dell'arte a confondere Apocalisse e fine dei tempi, a riconoscere in ogni Maiestas Domini, circondata o meno dai vegliardi, se non una prefigurazione del g. universale, almeno un'anticipazione della fine dei tempi. Si tratta tuttavia di una interpretazione erronea, anche se all'interno della visione iniziale dell'Apocalisse l'Anonimo in trono (4,2) e i vegliardi seduti (4,4) suscitarono nella tradizione commenti di carattere escatologico e giudiziario. Accadde anche che visioni presenti nell'Apocalisse, per es. quella degli anonimi in trono (20,4) o dei martiri sotto l'altare (6,9-11), venissero trasferite alla fine dei tempi e servissero da supporto a notazioni legate al tema del g. universale; sembra dunque opportuno evitare generalizzazioni affrettate tendenti a collocare senza esitazione nel solo ambito del tema della fine dei tempi ogni immagine che comporti un elemento apocalittico. I sette sigilli che chiudono il libro tenuto da Cristo in trono non sono sufficienti a farne il giudice della fine dei tempi, allo stesso modo della presenza dei viventi, degli angeli con le trombe, dell'alfa e dell'omega o di ogni altro attributo apocalittico.A partire dagli inizi del sec. 13° il Cristo giudice che mostra le sue piaghe, posto tra angeli che presentano i suoi signa, venne circondato da una folla di eletti sempre più folta, che divenne sovente quella di tutti i santi. Questi ultimi erano talvolta assimilati ai sedentes anonimi e ai decollati di Ap. 20,4, alla folla degli adoratori dell'Agnello di Ap. 7,9-17 o 14,1-5, della liturgia del 1° novembre (Ognissanti) e del 28 dicembre. Nel portale laterale occidentale del transetto sud della cattedrale di Chartres gli innocenti intronizzati sono dunque associati a coloro che "hanno lavato le loro vesti [...] col sangue dell'Agnello" (Ap. 7,14), come rivela la presenza di una protome di montone con grandi occhi aperti, dalla cui gola colano due larghi fiotti di sangue, raccolti dai martiri in trono. Altre divergenze si osservano in tutto il corso del sec. 13°: mentre in Francia, intorno al 1250, nella cattedrale di Saint-Etienne a Bourges e poi nel Saint-Pierre a Poitiers gli archivolti erano occupati solo da angeli e dalle figure sedute di tutti i santi, in Spagna, sia nella cattedrale di Tudela (prov. Navarra), intorno al 1210, sia a León, verso il 1270, gli archivolti restarono il luogo in cui si concentravano, come in precedenza, le scene narrative del g. universale; anche in Guascogna, per es. nella cattedrale di Dax, nell'ultimo quarto del sec. 13°, e in quella di Saint-Jean a Bazas, in Aquitania, dopo il 1250, gli episodi relativi all'inferno e al paradiso rivestivano gli archivolti. Alla soglia del sec. 14° nella pittura monumentale italiana i cori degli angeli, degli eletti e di tutti i santi invasero a tal punto lo spazio del g. universale che la risurrezione dei morti, la separazione propriamente detta e l'immagine dell'inferno vennero respinte ai margini della composizione, come in S. Cecilia in Trastevere, sulla facciata del duomo di Orvieto, in S. Maria Donnaregina a Napoli. Alcuni monumenti italiani del sec. 14° rivelano parallelamente una tendenza opposta: a Pisa, nel Camposanto, Buonamico Buffalmacco (v.) assegnò all'inferno una superficie uguale a quella riservata all'intero g. universale e Satana in trono nel suo regno occupa più spazio di quello di Cristo e della Vergine del campo opposto. Nel sec. 14° si esitò a lungo tra un'immagine del g. universale centrata esclusivamente sull'inferno, inteso come luogo specifico e non più come la porta che viene attraversata da un corteo di dannati, e una seconda immagine, che tendeva a confondersi con la rappresentazione della festa di Ognissanti.In Italia la figura di Satana - o Ade (v.) o Tartaro o Inferus - arrivò ad acquisire nel corso dei secoli crescente importanza. Egli comparve inizialmente al margine della zona infernale, di profilo in basso alla sinistra di Cristo (a Sant'Angelo in Formis; sui pulpiti dei Pisano del duomo di Siena e di quello di Pisa), o frontale, al centro dell'inferno (nel pulpito del battistero di Pisa, negli affreschi della cappella degli Scrovegni a Padova e in quelli di S. Maria Maggiore a Tuscania, prov. Viterbo), infine sull'asse della composizione (tavola conservata a Bologna, Pinacoteca Naz., inv. nr. 57856; inferno del Camposanto di Pisa). La sua presenza è attestata già, sia pure marginalmente, nell'Apocalisse di Bamberga e soprattutto a Saint-Benoît-sur-Loire, intorno al 1020, nel perduto ciclo della chiesa di Saint-Pierre, incatenato nella caverna della sua prigione mentre vomita fiamme (vv. 63-64 dei tituli). La precocità della sua apparizione in Occidente e l'importanza che gli venne accordata dalla fine del sec. 13° lasciano presumere che un influsso bizantino non sia sufficiente a spiegarne l'origine e lo sviluppo.Se si esclude la particolare versione, a registri sovrapposti, del codice parigino dei Sacra Parallela, nel mondo bizantino non rimane alcuna attestazione del g. universale anteriore agli inizi del 10° secolo. Le pitture di S. Giovanni a Güllü Dere risalgono agli anni 913-920, quelle della cappella 2b della necropoli di Göreme in Cappadocia alla metà del sec. 10°, datazione che è plausibile anche per gli affreschi di S. Stefano a Castoria; le due scene del g. universale della regione di Ürgüp associano all'apparizione del Cristo quella della sua croce, come in Occidente. A Güllü Dere la croce, contenuta all'interno di un disco, è presentata da due angeli al di sopra del Cristo in trono, mentre un'iscrizione ne fa il segno precorritore di Gesù che cammina nel cielo nella parte orientale della volta. Questo errore rivela che si è al cospetto di un tentativo di adattare a un nuovo tema schemi compositivi tradizionali di significato differente. A Göreme, per contro, la croce è presentata da due angeli al di sotto del Cristo giudice. Va altresì notato che queste due rappresentazioni del g. universale o della Seconda Venuta con risurrezione dei morti decorano una cappella funeraria. Lo stesso accade a Yılanlı Kilise, ove il g. universale decora le pareti di un nartece a destinazione funeraria: Cristo seduto all'orientale, le gambe incrociate, è semplicemente presentato in una mandorla da due angeli, circondato dai quaranta martiri di Sebaste e dai ventiquattro vegliardi dell'Apocalisse, tutti stanti. Tutte e tre queste pitture propongono varianti dell'apparizione del Cristo alla fine dei tempi vicine a quelle adottate in Occidente, ma che in Oriente furono rapidamente abbandonate. Gli angeli che presentano le opere dei morti a Güllü Dere, con riferimento diretto ad Ap. 20,14, vennero ugualmente eliminati, allo stesso modo dei vegliardi; quanto alla croce, essa lasciò il posto al trono dell'Etimasia. Per contro, la Vergine e il Battista erano già presenti, raffigurati stanti ai lati del Cristo, a Güllü Dere e a Göreme; a Göreme si riconoscono già Ade con l'Anticristo, la Vergine in paradiso, l'inferno suddiviso in parti distinte; a Güllü Dere, Ade, la terra e il mare restituiscono i loro morti; a Yılanlı Kilise, infine, si vedono la pesatura delle anime, i tre patriarchi, i dannati disposti in scomparti su più registri o tormentati da serpenti, vale a dire una serie di elementi accessori che vennero adottati in seguito, a partire dal sec. 11°, nel g. universale bizantino 'classico'. Le pitture del nartece di S. Stefano a Castoria, di controversa datazione, preludono a una sorta di formulazione definitiva. Tra gli apostoli in trono disposti intorno al Cristo, a sua volta assiso entro una mandorla, s'intercalano busti di angeli, secondo una disposizione che preannuncia quella del sec. 11°; anche a Castoria compare la pesatura delle anime.La diversità delle prime rappresentazioni bizantine del g. universale lascia dunque supporre che anche in Oriente non si disponesse, dopo la crisi iconoclasta, di un'immagine standard che potesse servire da modello comune. Non si può dunque accettare l'ipotesi (Brenk, 1964a; 1966) secondo la quale la formulazione 'definitiva' - quella nota attraverso le cc. 51v e 93v del codice di Parigi (BN, gr. 74), le icone 150 e 151 del Sinai (S. Caterina sul monte Sinai, Mus.), le pitture della Panaghia ton Chalkeon a Salonicco (dopo il 1028) - sarebbe stata creata a Costantinopoli alla fine dell'8° secolo. Schreiner (1983) ha invece proposto una datazione intorno all'anno Mille, ma tenendo conto dell'analisi comparativa delle prime immagini bizantine del g. universale, sembra invece preferibile optare per la metà o la seconda parte del sec. 10°, sia pure indicando una soluzione del tutto provvisoria. Il modello era certamente costantinopolitano e questa soluzione compositiva potrebbe essere stata messa a punto nel convento di S. Giovanni di Studios, partendo da elementi eterogenei, alcuni dei quali già usati agli inizi del 10° secolo.Laddove è completo, questo allestimento iconografico dagli esiti qualitativi piuttosto disparati comprende i seguenti elementi: Cristo in trono in una mandorla tra la Vergine e il Battista stanti, cherubini e serafini e le piccole ruote fiammeggianti della visione di Ezechiele; le mani e i piedi di Cristo portano il segno dei chiodi, ma la piaga nel costato non compare mai. Da una parte e dall'altra rispetto alla visione divina e della Déesis stanno gli apostoli, seduti su una comune panca con al di sopra busti di angeli a formare una guardia allineata, che in qualche caso corre a semicerchio al di sopra del Cristo. Dal trono di Dio, ai piedi del quale sono talvolta inginocchiati Adamo ed Eva, sgorga il fiume di fuoco che forma a destra, nel registro mediano, il lago di fuoco in cui troneggia Satana, con l'Anticristo sulle ginocchia, su un mostro derivato dall'antico coetos. Al centro è posto il trono dell'Etimasia con la croce, il libro, in qualche caso una colomba e gli altri strumenti della passione; accade anche che questo trono sia adorato da Adamo ed Eva. Dalla parte opposta rispetto al lago di fuoco, nel quale generalmente due angeli spingono i dannati, alcuni gruppi di eletti, suddivisi in ordini, si dirigono verso il centro, in direzione del Cristo giudice; i loro cori, identificati da iscrizioni, divennero con il passare del tempo sempre più numerosi e differenziati. A partire dalla fine del sec. 11° (per es. nelle due icone di S. Caterina sul monte Sinai, Mus.) fecero la loro comparsa alcuni gruppi di dannati, anch'essi indicati da iscrizioni, collocati dalla parte opposta rispetto agli eletti, al di sopra del lago di fuoco. Tra questi katákritoi si riconoscono sovente differenti categorie di eretici e un gruppo di stranieri, i nemici del momento. La risurrezione dei morti, che prevedeva assai spesso la presenza di due angeli che suonano la tromba, era quasi sempre suddivisa in due distinte figurazioni: da una parte comparivano i defunti che escono dai sarcofagi, dall'altra i corpi risputati o vomitati da belve (la terra) e da animali marini (il mare). La tradizione bizantina della risurrezione dei defunti si riferirebbe dunque, sia pure indirettamente, ad Ap. 20,13. Alla base della composizione si allineavano infine, da sinistra a destra, motivi che potevano essere dispersi in un contesto monumentale: Abramo con Lazzaro e alcuni eletti, la Vergine in trono in paradiso, il buon ladrone, s. Pietro o un angelo che introducono gli eletti al paradiso, la cui porta è sorvegliata da un cherubino, e, al di là della pesatura delle anime, le sezioni dell'inferno nelle quali sono ammassati i dannati, nel fuoco o nell'oscurità, o, ancora, semplici crani, talvolta divorati dai vermi; tra i dannati, il ricco malvagio è talora oggetto di una rappresentazione isolata. L'avvolgimento del cielo, quasi sempre presente, compariva laddove lo spazio lo permetteva; tanto in Giotto quanto nell'iconografia delle icone russe in generale esso costituiva la bordura superiore.Questa suddivisione non variò molto nei secc. 12°-13°, nonostante l'ampliamento delle scene infernali e l'accrescersi del ruolo assegnato ai cori dei santi. Anche la figura di Satana subì una metamorfosi: invece di sedere su di un mostro marino, egli cominciò a sedere su un trono mostruoso, che era una variante vivente del faldistorium antico. Nella sua forma originale, completa o incompleta, la formulazione iconografica bizantina venne ripresa in area germanica (per es. nell'Hortus deliciarum di Herrada di Landsberg, già Strasburgo, Bibl. Mun., cc. 251-255), in Italia (nel mosaico della cattedrale di Torcello, probabilmente della fine del sec. 11°; in un avorio di Londra, Vict. and Alb. Mus.), in Russia, in Serbia e perfino in Islanda. In Italia le immagini monumentali del g. universale degli anni 1280-1330 subirono questa stessa influenza, per es. nelle pitture della cappella degli Scrovegni a Padova, dove Giotto adottò le immagini del fiume di fuoco e del ripiegamento del cielo e, soprattutto, il movimento da sinistra a destra, in direzione del centro, degli eletti suddivisi in ordini. In S. Cecilia in Trastevere a Roma, in S. Maria Donnaregina a Napoli ma anche nei rilievi di Lorenzo Maitani sulla facciata del duomo di Orvieto e, in generale, in tutta la pittura italiana dei secc. 13°-14° si coglie una diffusa influenza dell'iconografia bizantina. Pertanto con estrema discrezione Cristo mostrava la piaga del fianco in uno spiraglio della sua tunica. Per contro, a Napoli e a Padova si osserva che la semplice folla angelica al di sopra del cenacolo degli apostoli si era trasformata in un'immagine dei nove cori angelici, soluzione che non compare in Oriente se non nella chiesa metropolitana di Mistrà, dedicata a s. Demetrio, agli inizi del 14° secolo.Fu solo con il sec. 14°, soprattutto in Serbia, in una prima fase nella chiesa di Nostra Signora a Prizren (1310-1313), nel nartece della chiesa del monastero di Gračanica (1318-1321), poi in quella del monastero di Dečani (1335-1350), nonché nella chiesa della Panaghia Phorbiótissa ad Asinou (intorno al 1335) a Cipro e anche in Grecia, a Mistrà, che fecero la loro comparsa alcune vere innovazioni. Le pitture del parekklésion della Kariye Cami a Costantinopoli (1315-1350) sono per contro assai più tradizionali dal punto di vista iconografico, anche se vi si riconoscono alcune citazioni occidentali: un corteo di dannati incatenati, l'avaro con la borsa attaccata al collo, il trono dell'Etimasia trasformato in altare. Ad Asinou, nel nartece della Panaghia Phorbiótissa, il g. universale è introdotto da un Cristo Pantocratore nella cupola circondato dai busti di Maria, Michele, Gabriele e da nove altri medaglioni angelici. La Déesis è in questo caso assente, al pari dell'Etimasia, del fiume e del lago di fuoco, di Satana e dell'Anticristo.A Mistrà, nel nartece della chiesa metropolitana (prima del 1312) vanno segnalate altre innovazioni, come quella del trono dell'Etimasia adorato dai nove cori angelici o quella dei due angeli intenti a consultarsi su libri aperti circa l'operato dei defunti risuscitati. Questa immagine, che fa riferimento a Dn. 7,10 e ad Ap. 20,12, è talvolta attestata in Occidente nei cicli illustrati dell'Apocalisse; essa è presente agli inizi del sec. 10° in S. Giovanni a Güllü Dere ma, al pari di quella della Venuta del giudice sui nembi, scomparve rapidamente in Oriente.Nella chiesa del monastero di Dečani, sempre nel nartece, il programma è ancora più ricco e originale: nella volta della campata centrale il Cristo Emanuele della Seconda Venuta è portato nel cielo su di un trono da due angeli; alla sua destra altri due angeli avvolgono il cielo in presenza di una coppia di angeli buccinatori e di una coppia di angeli che portano candelabri. Il Cristo appare così nel cielo al di sopra del trono dell'Etimasia ugualmente portato da due angeli e affiancato dalla Vergine e dal Battista; immediatamente al di sotto sono inginocchiati Adamo ed Eva. Nel registro successivo due cherubini e due troni dominano una rappresentazione molto enfatica della croce e degli altri strumenti della passione, mentre il Cristo giudice compare rappresentato solo nella parte bassa della parete, affiancato dalla Vergine, dal Battista e dalla sua guardia angelica. Gli apostoli, intesi come eletti privilegiati più che come consiglieri nell'Etimasia, sono raffigurati sulle pareti nord e sud, al di sopra dei cori di tutti i santi; il paradiso e l'inferno, di dimensioni ridotte, sono sovrapposti.Come già a Müstair e a Güllü Dere, il Cristo della Seconda Venuta è distinto dal Cristo giudice circondato dai suoi apostoli e, come precedentemente a Gračanica, l'ostentazione degli strumenti della passione si aggiunge a quella del trono dell'Etimasia. Rimane aperta la questione se in tali elementi possa essere colta un'influenza occidentale. A Gračanica va anche notata la rappresentazione, assai singolare, del paradiso nella forma di una città fortificata e turrita con il cherubino armato al di sopra della sua porta. Vi si riconosce l'eco della Gerusalemme celeste di tradizione occidentale.In Oriente, anche nel sec. 14° la rappresentazione dell'inferno non conobbe lo sviluppo talvolta eccezionale che si riscontra in Occidente alla stessa epoca, anche se nei secc. 12°-14° si rafforzò il realismo delle pene infernali. Come in Occidente, tuttavia, dalla metà del sec. 14° si coglie, in particolare a Dečani, una tendenza inversa, mirante a ridurre il ruolo dell'inferno e a dare priorità all'immagine degli eletti; si tratta di un g. universale nel quale manca in qualche misura la punizione (Millet, 1945, p. 11). Ne risulta una composizione talvolta originale denominata hói hághioi pántes, di cui l'esempio più noto è quello della c.d. dalmatica di Carlo Magno, un sákkos del sec. 14° (Roma, Tesoro di S. Pietro): il Cristo Emanuele troneggia in mezzo ai quattro viventi e ai cori degli angeli e dei santi; in alto, alcuni angeli circondano o presentano solennemente la croce, mentre ai suoi piedi la Vergine e il Battista venerano l'Etimasia. Abramo, posto tra gli eletti, e il buon ladrone sono i testimoni di questa teofania finale riservata ai soli giusti di Mt. 25, 34.Il ritorno di Cristo alla fine dei tempi, con la rappresentazione delle sue conseguenze - la risurrezione della carne, la comparizione generale dei vivi e dei morti, il g. universale, la separazione dei buoni dai cattivi, il loro premio o castigo -, non è dunque attestato, se non sporadicamente e in maniera del tutto allusiva, nell'arte cristiana anteriore al 9° secolo. Per contro, a partire da tale data, immagini di questo genere si moltiplicarono tanto in Oriente quanto in Occidente, in Irlanda come in Armenia o in Cappadocia, sotto forme assai diverse. A partire dai secc. 9°-10° ovunque si provò il bisogno di associare a una visione divina, che per questo era collocata alla fine dei tempi, una narrazione sempre più dettagliata dei quattro Novissimi dell'umanità intera. Le iscrizioni (Sainte-Foy a Conques, Saint-Lazare ad Autun) e i commentari (per es. quello di Beda il Venerabile a proposito di Wearmouth) lasciano comunque intendere che queste rivelazioni di un futuro ancora lontano celavano in realtà un messaggio attuale destinato a ciascun individuo, come già accadeva in Isidoro di Siviglia (560 ca.-636): che ciascuno mediti sulla propria fine, giacché, quando lascerà il mondo, per lui sarà già la fine del mondo (Chronica; MGH. Auct. ant., XI, 2, 1894, p. 181).In Oriente il bisogno di rappresentare il g. universale - o per lo meno la Seconda Venuta accompagnata da una risurrezione dei morti - sembra essersi manifestato in una prima fase in contesti funerari; in seguito tale immagine trovò collocazione quasi costantemente nel nartece. In Occidente essa venne collocata ugualmente a O, in controfacciata, e poi all'esterno della facciata stessa, ma, abbastanza rapidamente e più spesso di quanto generalmente si creda, il g. universale invase il santuario: così nelle pitture, della metà del sec. 12°, di Saint-Martin a Thévet-Saint-Julien (dip. Indre-et-Loire) o nelle chiavi d'arco dell'architettura plantageneta nella Francia occidentale, oppure nelle medesime immagini nelle vetrate delle parti alte dell'abside delle cattedrali di Bourges o di Le Mans (dip. Sarthe).Per quello che si può dedurre, stante la scarsità della documentazione conservata, l'iconografia del g. universale non ricevette alcun brusco stimolo all'avvicinarsi dell'anno Mille. Non si coglie infatti alcun cambiamento degno di nota nella sua evoluzione tra il 950 e il 1050. Il vero punto di svolta si colloca intorno all'800 in Occidente, dopo la crisi iconoclasta in Oriente, a partire dal momento in cui alcune visioni divine presenti furono regolarmente posposte alla fine dei tempi. Almeno fino al sec. 12° l'Occidente, che non disponeva di una formula di g. universale standard, evitò di distinguere nettamente tra visioni presenti e visioni future. Ne nacque ogni sorta di esitazioni tra visioni della Seconda Venuta e visioni del g. universale, a seconda che venissero arricchite o private di questo o quel motivo. Al contrario del mondo bizantino, l'Occidente sembra aver conservato queste confusioni o almeno queste ambiguità, donde probabilmente lo spazio relativamente ridotto lasciato all'inferno prima del sec. 14° e la relativa rarità dei veri e propri g. universali prima del Duecento. Nel corso dei secoli, in Oriente come in Occidente, il g. universale non cessò mai di arricchirsi con l'aggiunta di motivi accessori; inversamente, lo spazio riservato alla visione divina si andò progressivamente riducendo.
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