GIUDIZIO (fr. jugement; sp. juicio; ted. Urteil; ingl. judgment)
In generale, nome della funzione logica che connette, affermativamente o negativamente, un soggetto con un predicato.
La prima, e classica, determinazione di tale forma logica fu data da Aristotele nel De interpretatione, ma l'esigenza a cui essa rispondeva era assai più antica. Il problema del giudizio si può dire fosse nato fin da quando Parmenide, osservando come di tutte le cose si affermasse universalmente l'essere e nello stesso tempo come tale predicazione fosse intrinsecamente contraddittoria (perché affermando che una data cosa era in un certo modo, con un certo attributo, si affermava per ciò stesso che essa non era altrimenti: sommando quindi insieme, in modo assurdo per Parmenide, un essere con un non essere), aveva considerato come unica asserzione non contraddittoria quella dell'essere puro. Il problema del giudizio era con ciò posto negativamente, in quanto era esclusa la possibilità di ogni sua forma specifica, in cui l'essere fosse non semplicemente affermato ma bensì posto in relazione con le cose e in servizio delle relazioni fra le cose. Questa fondamentale aporia eleatica generò, nella sofistica e nella socratica, una lunga serie di difficoltà e di tentativi di soluzione, gli uni (p. es. Licofrone) rinunciando addirittura a valersi della predicazione dell'essere per tentar così di salvare la predicabilità dei concetti singoli, gli altri (p. es. Antistene e varî tra i socratici) vedendo nella predicazione una semplice identità e pensando quindi che non si potessero avere altri giudizî all'infuori di quelli in cui il soggetto fosse predicato di sé stesso. In un caso e nell'altro non si giustificava il giudizio nella sua forma più piena e normale, come fu possibile invece fare quando, tradotta da Platone in esistenza metafisica la realtà ideale dei concetti socratici, il rapporto logico del soggetto partecipante all'essere del predicato corrispose al rapporto reale onde la cosa partecipava all'essere dell'idea, non identificandosi con essa ma bensì traducendo nel particolare la sua universalità. In forza di tale costruzione logico-metafisica Platone può essere considerato l'iniziatore della giustificazione teoretica dell'attività giudicante: costruzione assai più importante, anche da tale punto di vista, della particolare dottrina onde egli teorizzò il giudizio (λόγος) come sintesi di ὄῆμα e di ῥῆμα, di "nome" e di "verbo" (forse non senza un ricordo del metodo seguito da coloro che, per evitare l'uso dell'"essere", avevano sostituito alla predicazione nominale la verbale).
Aristotele, nemico acerrimo dell'essere assoluto dell'eleatismo, poté, dopo averne compiuto la dissoluzione logica, sentirsi libero anche delle ultime tra le difficoltà che ne erano derivate quanto alla funzione del giudizio; e definì questo come sintesi di due "noemi" (νοήματα, concetti, o, più in generale, contenuti unitarî di pensiero), ciascuno dei quali era conosciuto in forza dell'attività noetica del pensiero, mentre la loro sintesi (σύνϑεσις, συμπλοκή) era opera del pensiero dianoetico (διάνοια), che a tale scopo si serviva del concetto dell'essere, abbassato con ciò a funzione copulativa. Non che non restassero per Aristotele, accanto a tali giudizî propriamente detti, anche quelli semplicemente esistenziali, affermanti soltanto l'esserci del soggetto (περὶ τοῦ ὑπάρχειν τι ἤ μὴ ὑπάρχειν): ma essi restavano in seconda linea, e non avevano luogo nella sillogistica (v.), in cui tipicamente si manifestava la funzione del giudizio. Connettendo i due noemi, il giudizio li sottraeva poi a quella indifferenza quanto al valore di verità o falsità, che ad essi spettava finché fossero rimasti nella loro singolarità irrelata; e si distingueva appunto come λόγος ἀποϕαντικός ("proposizione dichiarativa") dal λόγος σημαντικός ("proposizione espressiva") in quanto doveva sempre, a differenza dell'altro, essere o vero o falso, determinando anzi, quando le sue fomie affermativa e negativa si fossero riferite allo stesso soggetto e allo stesso predicato, un'antitesi contradittoria (ἀντίϕασις, composta della κατάϕασις "affermazione" e dell'ἀπόϕασις "negazione"), un membro della quale doveva esser di necessità vero e l'altro falso, secondo quel principio di contraddizione (v.) che ad essa propriamente si riferiva. E se dal punto di vista della "qualità" il giudizio si distingueva, così, in affermativo e negativo, dal punto di vista della "quantità" si distingueva in universale e particolare, a seconda che il predicato fosse stato affermato (o negato) di tutti o soltanto di alcuni dei componenti la molteplicità espressa dal soggetto: "indeterminato" infine, apparendo il giudizio, qualitativamente quando il segno della negazione fosse stato connesso non con la copula ma direttamente col predicato, e quantitativamente quando fosse mancata la determinazione della particolarità o dell'universalità: (ἀόριστος e ἀπροσδιόριστος, a seconda di ciascuno dei due casi). Dal vario combinarsi di queste quattro forme fondamentali di giudizio (i cui rapporti d'implicazione o esclusione reciproca venivano minutamente studiati dai successori di Aristotele) prendeva le mosse la sillogistica, allo stesso modo che una parte di essa era, infine, basata sulla distinzione a cui i giudizî erano sottoposti quando si considerava la relazione del soggetto col predicato come di semplice inerenza o di possibilità o di necessità (v. su ciò modalità).
In questa sua grande analisi formale, la logica aristotelica aveva sempre presupposto come possibile ed effettiva la veridicità di quell'appercezione noetica del reale, che stava a fondamento di tutte le predicazioni dianoetiche. Al pensiero postaristotelico si presentò invece in primo piano il problema della sua possibilità: sostenuta dagli stoici in forza della "comprensione" (κατάληψις) che doveva garantire l'"assenso" (συγκατάϑεσις), e all'incontro negata dagli scettici, che di tale "assenso" prescrivevano la "sospensione". Nella funzione del giudizio tornò così ad assumere importanza quella forma esistenziale, che nella logica aristotelica era invece rimasta in ombra: e il giudizio, come atto della deliberazione o del rifiuto dell'assenso a una data realtà, venne ad assumere un aspetto volontario, che lo staccò dalla sfera teoretica per riconnetterlo a quella pratica. S'iniziò così quella tradizione della dottrina volontaristica del giudizio, che tornò in onore specialmente in età in cui risorgeva, e in formulazioni non molto diverse da quelle antiche, il problema dello scetticismo gnoseologico e del suo superamento (p. es., nella dottrina cartesiana dell'actus iudicandi), per sopravvivere infine, in età moderna, nei teorici della cosiddetta dottrina "idiogenetica" del giudizio (Brentano, ecc.). Ma accanto a tale tradizione si perpetuava, e con intensità assai maggiore, quella del formalismo aristotelico, che attraverso le rielaborazioni medievali provocava, nell'età moderna e fin nella contemporanea, una smisurata messe di ricerche concernenti la natura della sintesi predicativa e i rapporti reciproci di estensione e di comprensione del soggetto e del predicato: ricerche nelle quali le antiche distinzioni e classificazioni delle forme dei giudizî si accrescevano e moltiplicavano senza limite.
E da tale tradizione (già riaffermata del resto, contro Cartesio, da pensatori come Spinoza e Leibniz) prese inizialmente le mosse anche chi, come Kant, doveva arricchire di tante nuove determinazioni anche la dottrina del giudizio. Tratta dall'idea del rapporto di comprensione tra soggetto e predicato era la sua distinzione dei giudizî in analitici, in cui il predicato era implicito nel soggetto, e sintetici, in cui esso invece aggiungeva al soggetto una determinazione nuova: distinzione da cui moveva poi tutta la sua indagine gnoseologica, concepita come ricerca della possibilità di giudizî sintetici che fossero a priori come gli analitici. Il concreto conoscere, costituito di senso e di intelletto, che a quell'esigenza doveva rispondere, gli si conformò così nell'aspetto di un giudizio che per mezzo delle categorie sintetizzasse, nell'unità trascendentale dell'appercezione, gli elementi di un'esperienza possibile: nelle categorie stesse venendo quindi a tradursi quelle forme dei giudizî, che aveva distinto la logica classica. Diverso, d'altronde, da questo "giudizio" era quello (che per Kant non era più Urtheil ma Urtheilskraft, nel senso di vis aestimativa, "facoltà di valutazione, di apprezzamento") a cui l'ultima delle Critiche attribuiva l'interpretazione estetica e teleologica della realtà.
Nel pensiero postkantiano il giudizio, quando non tornò a essere analizzato formalisticamente nel senso della tradizione aristotelica, fu dal dialettismo degl'idealisti posto in stretta connessione col momento logico del concetto. Per Fichte non v'era giudizio senza concetto né concetto senza giudizio, per Hegel il giudizio era la stessa scissione intrinseca onde il concetto si faceva chiaro a sé stesso; l'idea è riapparsa nell'interpretazione attualistica della logica classica come logica dell'astratto. Più fedeli, nella veste esteriore, alle forme della logica classica sono rimaste le dottrine crociane del "giudizio definitorio" e del "giudizio individuale" come elementi della metodologia e dell'attività storiografica.
Bibl.: v. le voci concernenti i filosofi e i movimenti di pensiero ricordati, e inoltre apodissi; concetto; contraddizione; modalità; sillogistica. Ampia ma disordinata serie di rinvii e di citazioni in R. Eisler, Wörterbuch d. philos. Begriffe, III, 4ª ed., Berlino 1930, pp. 344-377.