COLBERT, Giulia Vitturnia Francesca marchesa di Barolo
Terzogenita e ultima figlia del marchese Edouard Victurnien-Charles-René, discendente per via collaterale da J.-B. Colbert ministro di Luigi XIV, e della contessa Anne-Marie de Quengo de Crenolle, sua prima moglie, nacque il 27 giugno 1785 nel castello avito di Maulévrier (Maine-et-Loire).
Con la Rivoluzione francese la vita del castello di Maulévrier subì una serie di improvvise mutazioni; la famiglia venne poi coinvolta nella cruenta bufera della guerra di Vandea (Maulévrier era situato al confine traMaine-et-Loire e Vandea, nel massiccio del Mauges, culla dell'insurrezione realistica: uno dei cui capi militari fu Jean-Nicolas Stofflet guardiacaccia del castello di Maulévrier). In quelle vicende i Colbert persero diversi parenti sotto la lama della ghigliottina e videro il loro castello saccheggiato e dato alle fiamme.
Dopo aver peregrinato in Olanda ed in Germania la famiglia della C., emigrata nel 1792, si stabilì infine in una delle roccaforti della nobiltà francese emigrata, alla petite cour di Coblenza. Qui la C., sotto la stretta sorveglianza del padre (la madre morì in esilio nell'anno 1795), il quale impresse nei figli un sentimento religioso vivissimo, ricevette la sua educazione ad opera di scelti maestri, grazie ai quali si formò una cultura largamente superiore a quella delle donne del suo tempo e del suo stesso rango: in particolare studiò le lingue e le letterature francese, inglese, tedesca, italiana e latina, la storia, la geografia e la filosofia. Inoltre l'ambiente peculiarissimo in cui viveva, quello della nobiltà emigrata cioè, la influenzò ideologicamente in profondità portandola ad un sentire rigidamente monarchico e legittimista. L'esilio dei Colbert cessò nell'aprile 1802, allorché Napoleone Bonaparte concesse l'amnistia a quasi tutti gli emigrati del '92. Il ritorno in Francia comportò, secondo i desideri di Napoleone, la frequenza assidua alla corte imperiale: e proprio a corte la C. incontrò nel 1804 l'ultimo discendente di una delle più ricche e antiche famiglie piemontesi, Carlo Tancredi Falletti figlio di Ottavio marchese di Barolo (cui succedette nel titolo marchionale), al quale andò sposa nel 1807 col benestare dell'imperatore stesso. La giovane coppia prese dimora a Torino nell'avito palazzo dei Barolo, trascorrendo tuttavia diversi mesi all'anno a Parigi e spesso viaggiando.
Durante i soggiorni parigini i Barolo strinsero una serie di relazioni ad altissimo livello nel mondo politico e culturale. Ma particolarmente importanti per l'influenza che esercitarono sulla loro successiva azione filantropica furono i legami con personaggi come l'abate Dupanloup, rettore del seminario di Parigi e grande amico di F. Ozanam, il fondatore della Società di S. Vincenzo, come la marchesa de Pastoret, organizzatrice e promotrice d'asili d'infanzia, o come l'abate Legris-Duval, particolarmente attento al problema del recupero sociale delle fanciulle cosiddette perdute. Da questi esempi nacquero difatti molte delle iniziative poi realizzate a Torino dai coniugi Barolo, nel salotto dei quali si mosse anche gran parte di quel gruppo di aristocratici piemontesi (C. Alfieri di Sostegno, i fratelli Saluzzo, P. Santarosa, F. Sclopis, I. Petitti, i fratelli Cavour, L. Provana di Collegno, C. Bon Compagni, R. e Costanza d'Azeglio, i conti di Seyssel, ecc.) che col massimo impegno si dedicarono negli anni tra la Restaurazione e l'età albertina alla soluzione - secondo i modi e le prospettive del tempo - del problema dell'assistenza agli emarginati.
L'inizio dell'attività specifica della C. nel mondo delle carceri risale al 1815 quando, su indicazione del confessore don Pio Brunone Lanteri, si iscrisse alla Compagnia della Misericordia dedicandosi alla distribuzione di viveri alla porta delle prigioni. Nel 1818 riuscì ad ottenere il permesso di entrare nel carcere del Senato a contatto diretto con le detenute: e da questo momento la sua attività filantropica nel mondo della detenzione si svolgerà ininterrottamente fino al 1848, quando cioè le nuove leggi preclusero definitivamente ai civili l'ingresso nelle carceri. Dalla frequentazione quotidiana con le detenute la C. trasse le indicazioni per le linee fondamentali della propria azione, in modo del tutto indipendente (se si eccettuano alcuni rapporti epistolari in un periodo successivo con Elizabeth Fry, che nel carcere femminile londinese di Newgate conduceva un esperimento analogo) dalle esperienze similari realizzate o in via di sperimentazione all'estero.
In particolare la C. si convinse che solo operando sia sul piano materiale, sia sul piano morale si sarebbe potuto procedere ad un serio tentativo di recuperare socialmente le detenute. Inizialmente essa si avvicinò alla condizione di queste donne attraverso la conversazione e la pratica cristiana della carità per arrivare poi, a poco a poco, a riorganizzare totalmente la vita interna del carcere. Fornendo capi di vestiario, coperte, stoffe ed invogliando le detenute a dedicarsi al lavoro, favorendo la pratica e l'istruzione religiosa, introducendo il canto corale come elemento di svago collettivo, provocò una modificazione sostanziale nel ritmo di vita delle prigioniere, sottraendole a quella continua, alienante inattività che costituiva il maggior fattore di degradazione morale e materiale e che favoriva (per la complicità interessata del personale di custodia) la diffusione massiccia della piaga dell'alcolismo.
La fama dell'opera svolta dalla C. nel carcere del Senato si diffuse rapidamente in Torino, suscitando da un lato il fattivo interesse di diversi membri della casa reale, dall'altro la richiesta, da parte delle detenute stesse, di allargare l'assistenza anche alle ospiti delle altre carceri femminili torinesi. Fu sulla base di questi interessi e di queste istanze che essa ottenne nel 1821 di poter riunire tutte le detenute torinesi in un'unica prigione, quella cosiddetta delle Forzate, in cui poté realizzare fino in fondo i propri progetti.
Alle Forzate essa introdusse difatti alcune novità di grosso rilievo: separò le donne inquisite da quelle già condannate; affidò alle detenute stesse, pur seguendole da vicino, il compito di redigere il regolamento di disciplina del carcere; attuò una razionalizzazione ed un principio di programmazione dei lavori quotidiani affidandone la gestione alla contessa di Seyssel; ed infine, con la collaborazione di un'altra dama, la contessa Villamarina, si applicò al compito di alfabetizzare le ospiti del carcere. Per seguire in maniera costante ed ottimale quest'opera, la C. ottenne poi di sostituire il normale personale di custodia con le suore di S. Giuseppe, poi sostituite dalla Congregazione delle suore di S. Anna della Provvidenza da lei stessa fondata nel '34. In tal modo, nel 1838, quando le suore presero dimora stabile nel carcere, questo aveva assunto ormai, a detta dei contemporanei, un aspetto più di monastero che non di luogo di pena.
La frequenza quotidiana coi problemi delle detenute mise ben presto la C. a contatto con un'altra gravissima piaga sociale, quella delle ragazze madri o, come si diceva a quel tempo, delle fanciulle traviate. Attraverso l'esperienza parigina dell'abate Legris-Duval (fondatore dell'istituto Bon Pasteur) col quale i Barolo erano in relazioni d'amicizia, la C. ebbe sott'occhio un modello di soluzione più realistico che non le vecchie istituzioni torinesi del tipo della Casa di ricovero delle povere penitenti, o del Ritiro delle donne disoneste, o delle Rosine. In effetti il problema che le stava a cuore era quello di offrire a queste donne una alternativa alla via della prostituzione, l'unica che la società del tempo consentisse loro. Fu così che, sul modello francese, nacque nel 1822 l'Opera del rifugio in un edificio in Borgo Dora, acquistato dal governo ma ristrutturato a spese dei Barolo.
L'istituto era aperto a tutte le donne, pentite, che attraverso il lavoro e la preghiera desiderassero reinserirsi nella società. Il lavoro era particolarmente importante perché non solo provvedeva al sostentamento delle ospiti (le sovvenzioni statali erano misere e saltuarie e il finanziamento dei Barolo, pur generoso, insufficiente a garantire il mantenimento di una media di circa settanta donne), ma garantiva la costituzione di una specie di dote che esse potevano ritirare al momento di lasciare il Rifugio.
Dal Rifugio al monastero delle maddalene, ad un istituto cioè destinato ad accogliere quelle donne che non tenessero più a ritornare nel consorzio sociale per dedicarsi invece ad una vita di pentimento e di lavoro, il passo era breve: e la C., confortata dai consigli dell'arcivescovo di Torino, mons. L. Fransoni, e colla protezione di Carlo Alberto, nel 1833 diede il via anche a questa iniziativa, la cui regola venne poi approvata dal papa Gregorio XVI con breve dell'8 marzo 1846. Negli anni successivi la sfera d'azione delle maddalene si allargò uscendo dai confini del regno sardo: nel '51 esso ebbe buona accoglienza nel Napoletano; nel '53 venne aperta una casa a Cremona, e nel '63 a Brescia.
Le esperienze condotte tra il 1818 ed il 1825 fra le detenute e le donne traviate, convinsero la C. della necessità d'intervenire non solo in fase di redenzione e di recupero sociale, ma di partire addirittura dalla educazione. Nacque così l'interesse specifico per gli asili d'infanzia, per i quali i Barolo si riferirono al modello francese realizzato dalla de Pastoret e derivato dalle iniziative inglesi di R. Owen. In questo settore essi, operando contemporaneamente a F. Aporti ma senza alcun contatto con lui, furono certamente dei precursori. Il primo asilo sorse nel 1829 in alcune sale del palazzo Barolo, senza esser preceduto dalla formulazione di alcun programma specifico, ma solamente col generico indirizzo di fornire ai bambini tra i due anni e mezzo ed i sei la prima educazione morale ed i primi rudimenti del cristianesimo.
L'insegnamento era impartito da maestre laiche scelte ed addestrate personalmente dalla C., ma nel '32, per dissipare i sospetti di protestantesimo che gli insegnanti laici suscitavano a Torino, essa affidò l'insegnamento alle suore della Provvidenza, di ispirazione rosminiana; i programmi d'insegnamento e di gestione dell'asilo vennero studiati dal Rosmini stesso con cui i Barolo si tennero a stretto contatto in quegli anni. L'iniziativa ebbe un grosso successo: nel '35 venne aperto un secondo asilo e ben presto l'istituzione giunse ad ospitare oltre duecentocinquanta bambini. Ma il successo maggiore, e certamente più appagante per i promotori, derivò senza dubbio dal dilagare delle iniziative analoghe, a Torino e nel Piemonte, ad opera della nobiltà e della stessa casa reale.
Fra le altre iniziative della C. va ancora ricordata l'istituzione, nel 1847, del convitto delle famiglie operaie, in cui venivano ospitate giovinette tra i quattordici ed i diciotto anni, di umile condizione sociale: nel convitto esse ricevevano un'istruzione professionale, venivano collocate a bottega e si raccoglievano per i pasti e per le ore di riposo. Infine, l'ultima realizzazione, destinata a raccogliere l'eredità materiale e morale della C. ed a proseguirne l'opera, fu l'Opera pia Barolo, sorta nel 1864 per esecuzione delle disposizioni testamentarie che la nobildonna aveva dettato fin dal 1856.
Se lo scopo fondamentale della vita della C. fu l'attività benefica e filantropica, tuttavia essa non trascurò la vita di società, almeno sino al 1838, quando nel corso di un viaggio nel Lombardo-Veneto perse il marito presso Brescia. Il salotto dei Barolo, negli anni '20 e '30, costituì un centro cospicuo e vivace dell'intellettualità torinese. La squisitezza di spirito e l'intelligenza della C., testimoniateci del resto dalle ricche corrispondenze con alti prelati, come il card. Lambruschini, con letterati di fama come A. Lamartine, con filosofi come il Rosmini, fecero sì che il salotto, nonostante le tendenze politicamente conservatrici dei padroni di casa, risultasse aperto a tutte le voci ed idee. E fu proprio qui che nacque, propiziata dal comune amico C. Balbo, l'amicizia tra i Barolo e S. Pellico, sul finire del '37: un'amicizia fedele e profonda rinsaldata nel tempo da una strettissima comunanza di ideali e da un proficuo rapporto di collaborazione. Dopo la morte del marito, la C. si dedicò in modo quasi esclusivo alle varie opere che con lui aveva edificato, e con la collaborazione devota del Pellico e di pochissimi altri intimi amici provvide a rinsaldarne le basi con un fervore instancabile benché poco sorretto dalla salute.
I mutamenti politici successivi al '48 la colsero totalmente impreparata. Temperamento passionale, nel momento della cosiddetta laicizzazione dello Stato sardo, vedendosi tra l'altro personalmente colpita dall'allontanamento delle dame del Sacro Cuore che lei stessa aveva fatto venire a Torino, si schierò decisamente contro il governo, guadagnandosi la fama di donna rigidamente reazionaria. Tra le sue molteplici ed impegnative attività trovò modo di dedicarsi anche alla letteratura, rivelandosi scrittrice assai fine, specialmente nell'inedito Journal d'une femme, nelle sue lettere e nelle memorie, parzialmente pubblicate dal Pellico, dal Lanza e dal Conti.
Si spense a Torino il 19 genn. 1864.
Scritti: Journal d'une femme, inedito, ora a Barolo nell'Arch. d. Opera pia Barolo; Costituzioni e regole delle sorelle pentite di S. Maria Maddalena, Torino s.d.; Regolamento ed istruzione pel ritiro delle Figlie del rifugio, ibid. s.d.; Disposizioni testamentarie della marchesa Giulia di Barolo, ibid., s. d.; Ammonimenti,istruzioni,esortazioni della piissima marchesa di Barolo alle sue dilette maddalene, Cremona 1880, 2 voll.; Lettere a S. Pellico nel viaggio per l'Italia dal 2 nov. 1833 al 16 apr. 1834, a c. di G. Lanza, Torino 1886; Memorie,appunti,pensieri della marchesa di Barolo, trad. da G. Lanza, ibid. 1887; La marchesa di Barolo, "Dalle memorie di una giovane signora", Alba 1942.
Fonti e Bibl.: S. Pellico, La marchesa G. Falletti di Barolo nata C. Memorie, Torino 1864; A. de Melun, La marquise de Barol. Sa vie et ses oeuvres suivies d'une notice sur S. Pellico, Paris 1869; V. P. Ponti, Lett. ined. di A. de Lamartine alla marchesa di Barolo, Torino 1926; P. C. Falletti Fossati, S. Pellico e la marchesa di Barolo, in Saggi, Palermo 1885, pp. 3-67; G. Lanza, La marchesa G. Falletti di Barolo, Torino 1892; T. Canonico, Sulla vita intima e sopra alcuni scritti inediti della marchesa G. Falletti di Barolo C., Torino 1893; D. Mazzè, Il paese del Barolo, Alba 1928, passim; R. M. Borsarelli, La marchesa G. di Barolo e le opere assistenziali in Piemonte nel Risorgimento, Torino 1933; B Allason, La vita di S. Pellico, Milano 1933, passim; E. Busca, Nel centenario della morte del marchese Tancredi Falletti di Barolo, Torino 1939; A. Biancotti, La marchesa G. di Barolo, Torino 1938 (biogr. romanzata); P. Morazzetti, I marchesi di Barolo e l'Istituto di S. Anna, in Vigilia eroica, Tivoli 1951, pp. 1-25; G. De Montis, La marchesa di Barolo, Torino 1964; L. Larese-Cella, Era una marchesa... Profilo stor. sociale di G. di Barolo, Milano 1968.