GIULIANO da Muggia (Iulianus de Hystria)
Nacque a Muggia, presso Trieste, da Bernardo de' Cermisoni verso il 1458.
Entrato tra i francescani conventuali, probabilmente nel convento della sua patria, si recò, prima del 1488, a Bologna a studiare teologia presso il convento di S. Francesco. Nel 1488 predicò la quaresima a Capodistria e, dopo aver soggiornato brevemente a Muggia nel suo antico convento, rientrò in agosto a Bologna. Nel 1489 fu di nuovo quaresimalista a Capodistria e l'8 luglio venne nominato "custos Istriae" dal generale dell'Ordine Francesco Sansone. Durante la quaresima del 1491 predicò in S. Petronio di Bologna con tale successo e concorso di popolo che il 21 marzo gli stessi Riformatori dello Stato di libertà chiesero al generale e al Collegio teologico di concedere a G. il magistero in teologia. La laurea gli fu conferita il 28 marzo con una cerimonia cui assistettero anche Antongaleazzo e Annibale, figli di Giovanni Bentivoglio signore di Bologna. Subito dopo è probabile che G. si sia recato a Firenze nel convento di S. Croce, dove è presente agli inizi del 1492.
Partì poi per Milano per tenervi le prediche della quaresima, alle quali, il 7 febbraio, assistette anche la duchessa madre Bona di Savoia. Durante i sermoni G. (che Bernardo Calco in una lettera a Ludovico il Moro paragona a fra Mariano da Genazzano [Ghinzoni, p. 61]) tuonò, come si legge negli atti del processo che gli fu poi intentato, contro la corruzione della Chiesa di Roma, chiamandola "Babilonicam Urbem", criticando aspramente papa e cardinali per la loro mondanità, e in particolar modo Giuliano Della Rovere (il futuro Giulio II) "qui ad edificandum sibi magnum pallatium proiecit et prostravit ad terram conventum Sancti Francisci Rome, in tantum quod fratres nostri erant reducti in artum locum" (ibid., p. 66).
G. non aveva giocato, come nota il Dionisotti (p. 310), solo "la carta vecchia e sempre nuova della polemica anticuriale ed antiromana", ma aveva affacciato uno spunto teologico più sottile e pericoloso, di origine forse conciliarista, quale quello di una possibile indipendenza della Chiesa ambrosiana da quella romana: "dixit ambrosianam ecclesiam multum liberam et propter hoc obligatam domino Deo ex eo quia non subiciebatur illi ecclesie babilonice Romane et ex hoc felices fore Mediolanenses" (Ghinzoni, p. 66).
A causa di queste affermazioni il 5 maggio successivo il generale Sansone, su richiesta di alcuni confratelli, iniziò, nel convento milanese, un processo contro di lui. Ma l'uditorio laico delle prediche sostenne potentemente G. presso il Moro, che, pur simpatizzando col frate, il 7 maggio, per non aver fastidi da papa Innocenzo VIII in un momento politicamente delicato, chiamò presso di sé a Vigevano, dove allora risiedeva, il Sansone e contemporaneamente fece tradurre G. nelle carceri di quel castello. Il 10 maggio 1492 il Moro ordinò all'arcivescovo di Milano Guidantonio Arcimboldi di esaminare il processo del Sansone e di proseguirlo con testimoni laici.
In realtà Ludovico predispose un procedimento farsa, che si sarebbe dovuto concludere, come scriveva al Calco ordinandogli di informare Roma e Firenze, con una cerimonia, in cui G. avrebbe dovuto parzialmente ammettere la sua colpa e chiedere perdono al generale: "el predicatore dominica, etiam che 'l non confessi essere vera l'imputazione data, per fare l'officio de bon religioso domanderà perdono al Generale […] a ciò che 'l Generale para havere cercato de fare quello che 'l debito richiede" (ibid., p. 64). Durante il processo istruito dall'arcivescovo, che si tenne a Milano, presente G., l'11 e il 12 maggio, i testimoni laici - tutti legati alla corte - minimizzarono le affermazioni di G. o lo lodarono apertamente. Il 13 maggio ebbe luogo sulla piazza del duomo la predisposta ritrattazione di G. e il poeta Bernardo Bellincioni informò subito il Moro che la cittadinanza aveva ben capito la "mascarata" e che si erano fatti "assai epigrammi e sonetti" (ibid., pp. 89 s.).
Parecchi poeti della corte sforzesca, infatti, in quella occasione lodarono e sostennero G. indirizzandogli componimenti: Bellincioni compose il sonetto O Milan cristianissimo, al ciel grato, per ringraziare "Milano che abbia liberato frate Giuliano dagli invidi suoi nemici" e celebrare, per il suo patrocinio, il poeta Gasparo Visconti (B. Bellincioni, Le rime, riscontrate sui mss. e annotate da P. Fanfani, I, Bologna 1876, p. 229). Giacomo Alfieri, che aveva testimoniato per G. nel processo, è autore della sestina Un lupo muta el pelo el vizo no (ms. Fonds Ital. 1543 della Bibl. nationale di Parigi, c. 122r e ms. Magliab. II.II.75 della Bibl. nazionale di Firenze, cc. 90-94).
Al favore dei Milanesi seguì immediatamente quello, rinnovato, di Ludovico, che pochi giorni dopo invitò G. a Pavia a predicare alla sua presenza.
Nel febbraio 1493 G. tenne sermoni a Firenze nella chiesa degli Angeli, dove incontrò Marsilio Ficino, che, inviandogli i suoi De sole e De lumine appena pubblicati, gli scrisse una lettera da cui traspare un'antica consuetudine. Il 16 maggio di quell'anno il Moro, avvertito che G. era di nuovo nei guai per l'ostilità non placata del Sansone, interveniva ancora in suo favore presso il cardinale Ascanio Sforza, suo fratello. Nell'estate 1493 G. si recò di nuovo nel convento di Muggia per poi riprendere i suoi quaresimali in giro per l'Italia, predicando nel 1494 a Brescia e nel 1496 a Venezia. Benché fossero fallite le trattative per ritornare nella quaresima del 1497 a Milano, G. - come apprendiamo da una lusinghiero cenno presente nel De natura angelica (VI, cap. 14) pubblicato a Firenze nel luglio 1499 dal confratello Giorgio Benigno Salviati (Juraj Dragišić), acceso savonaroliano - avrebbe predicato un'altra volta in quella città tra il 1495 e il 1499. In questa occasione egli, secondo il Benigno, avrebbe disputato "contra quemdam alium declamatorem […] apud cautissimum Ludovicum Ducem" difendendo la tesi, poi ripresa da Erasmo, "de ingenti numero salvandorum et paucissimo damnandorum".
Probabilmente a questa disputa si riferisce il sonetto di G. Alfieri Se li dannati son più che i salvati (ms. Fonds Ital. 1543 della Bibl. nationale di Parigi, c. 122v e ms. Magliab. II.II.75 della Bibl. nazionale di Firenze, c. 90r).
A una predicazione milanese di incerta data, nella quale G. aveva esortato, savonarolianamente, a un abbruciamento delle maschere carnevalesche, si riferiscono sia il sonetto Cener siamo de le Veneree spoglie (scritto da Giovanni Filippo Gambaloyta "havendo mandato certe cose da stravestire così abruciate a Frate Juliano da Histrya": ms. Sessoriano 413 della Bibl. nazionale di Roma, c. 175r), sia il sonetto Mascare, gale, capigliare e veli di G. Visconti (cfr. G. Visconti, I canzonieri per Beatrice d'Este e per Bianca Maria Sforza, a cura di P. Bongrani, Milano 1979, pp. 85 s.).
In lode di G. sono anche un sonetto del Taccone (B. Taccone, L'Atteone. Favola e le rime, a cura di F. Bariola, Firenze 1884, p. 22) e un epigramma latino di Domenico Macaneo, contenuto nel ms. Fonds Ital. 1543 della Bibl. nationale di Parigi, c. 219r.
Nel 1505 G. era a Bologna a predicarvi la quaresima in S. Petronio. Qui, come vicedecano del Collegio teologico, assistette, tra il marzo 1505 e il giugno 1506, alla celebrazione di parecchie lauree in teologia, tra le quali quella del famoso scotista Giovanni Montesdoca. Alla fine del 1506 il generale Rinaldo Graziani lo inviò in Spagna presso Ferdinando il Cattolico per dirimere le controversie sorte tra francescani conventuali e osservanti.
L'ultima notizia relativa a G. attesta la predicazione quaresimale del 1509 in S. Marco a Venezia. Non si conoscono luogo e data della sua morte.
Di G. rimangono alcuni componimenti poetici: tre sestine Invidia in cor gentil non trova possa, Dedalo in carcer chiuso l'alto ascende, Sempre magior thesor die magior pena (ms. Fonds Ital. 1543 della Bibl. nationale di Parigi, cc. 197v-199r e ms. Magliab. II.II75 della Bibl. nazionale di Firenze, cc. 190v-191r) composte nel carcere del castello di Vigevano, di cui la prima dedicata al poeta G. Visconti, che aveva interceduto per lui presso il Moro, e la seconda allo stesso Ludovico. Un frammento di un capitolo in terzine in lode di Bologna (Fratris Iuliani de Istria liberalium artium ac Sacre Theologie bacalarii b. m. in Urbis Bononiensis laudes maternum carmen), composto probabilmente prima del 1491 si legge in C. De Franceschi, Ancora di fra G. da M., in Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria, XLIX (1937), pp. 229-231. Sono andate invece perdute le Conciones quadragesimales ricordate dallo Sbaraglia e un Tractatus de Immaculata Conceptione Beatae Virginis citato da Bernardino Busti nel Mariale (presso U. Schinzenzeler, Mediolani 1492, pars I, sermo 9, 4).
Fonti e Bibl.: M. Ficino, Opera, I, Basileae 1576, pp. 950 s.; Bartholomaeus de Pisis, Quadragesimale de contemptu mundi, Mediolani 1498 (prefaz. di G. Mapelli); M. Sanuto, Diarii, VIII, Venezia 1882, col. 63; P. Ghinzoni, Un prodromo della Riforma in Milano (1492), in Arch. stor. lombardo, XIII (1886), pp. 59-90; R. Renier, Gaspare Visconti, ibid., pp. 818 s.; G. Sbaraglia, Supplementum et castigatio ad Scriptores trium Ordinum S. Francisci, Romae 1921, II, p. 155; B. Pergamo, I francescani alla facoltà teologica di Bologna (1364-1500), in Archivum Franciscanum historicum, XXVII (1934), p. 53; C. De Franceschi, Due istriani poco noti, in Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria, XLVIII (1936), pp. 248-251; C. Piana, Lettera inedita di s. Bernardino da Siena ed altra corrispondenza per la storia del pulpito di S. Petronio a Bologna nel '400, in Archivum Franciscanum historicum, XLVII (1954), pp. 86 s.; C. Dionisotti, Umanisti dimenticati?, in Italia medievale e umanistica, IV (1961), pp. 309 s.; C. Piana, Ricerche su le Università di Bologna e di Parma nel sec. XV, I, Quaracchi 1963, pp. 188-190, 241-247, 272; Id., Chartularium Studii Bononiensis S. Francisci (saec. XIII-XVI), in Analecta Franciscana, XI, Quaracchi 1970, pp. 100*, 105*, 329, 336; G. Mazzatinti, Inventario dei manoscritti italiani delle biblioteche di Francia. Manoscritti italiani della Biblioteca nazionale di Parigi, Roma 1886, II, pp. 524, 532 s.