GIULIANO di Amadeo (Amadei, Giuliano)
Non si conosce la data di nascita di questo monaco camaldolese, pittore e miniatore, probabilmente di origine fiorentina, come viene indicato nel Liberprofessionum di S. Maria degli Angeli (Pasqui).
Sotto il nome di Giuliano di Amadeo si identificano, a partire dallo studio della Levi D'Ancona (1962), due personalità considerate separatamente: Giuliano Amadei (Amedei, Amidei), miniatore e pittore, attivo a Roma per Paolo II e morto a Lucca nel 1496 (Thieme - Becker, I, p. 367) - in realtà sovrapponibile a Giuliano di Amadeo (Gnoli) - e fra Giuliano, monaco camaldolese che firmò un trittico nell'abbazia dei Ss. Martino e Bartolomeo di Tifi presso Caprese, oggi Caprese Michelangelo (Thieme - Becker, XIV, p. 207).
Il percorso di G., legato principalmente a una produzione di codici miniati per l'ambiente ecclesiastico romano, e la ricostruzione del relativo catalogo sono il risultato degli studi più recenti di De Marchi (1995), che ha proposto la restituzione a questo artista di opere ascritte in passato alle anonime personalità del Maestro del Messale di Innocenzo VIII e dello Pseudo Michele da Carrara, peraltro già accostate tra loro per assonanze stilistiche da Alexander (1980) e Avril (1984).
Il primo riferimento certo nella biografia di G. è la data del 12 marzo 1446, allorché entrò nel monastero fiorentino di S. Benedetto alla porta di Borgo Pinti, dove ricevette probabilmente una prima educazione artistica, a contatto con il Beato Angelico o con uno dei suoi allievi e collaboratori, Zanobi Strozzi, entrambi attivi per lo scriptorium di S. Maria degli Angeli, di cui S. Benedetto era suffraganeo.
Nel 1453 G. ricevette gli ordini sacerdotali dall'arcivescovo di Firenze, il domenicano Antonino Pierozzi.
Intorno a questo periodo dovrebbe ricondursi l'inizio della sua attività pittorica. Di fatto fra le prime opere riferibili a G. sono stati compresi le scene della predella e i santi dei pilastrini del polittico di Piero Della Francesca della compagnia di S. Maria della Misericordia a Sansepolcro, oggi nella Pinacoteca civica.
L'intuizione di Salmi (1942), che per primo attribuì a G. queste parti del polittico sulla base dei confronti stilistici con la sua unica opera firmata, il trittico di Tifi, ha trovato un valido sostegno nei documenti pubblicati da Banker (1995), che attestano la presenza dell'artista nel capitolo dei monaci camaldolesi di Borgo Sansepolcro in un arco di tempo scalato tra l'8 nov. 1458 e il 9 sett. 1460. G. intervenne quasi certamente a completare la pala secondo un programma iconografico generale stabilito da Piero, partito alla volta di Roma lasciando interrotta l'opera; e forse fu proprio il maestro, impegnato a lavorare per Pio II negli appartamenti vaticani nell'aprile del 1459, a facilitare il successivo, fortunato inserimento del monaco all'interno della corte pontificia. Le direttive di Piero possono riconoscersi nella rigorosa impostazione dei santi dei pilastrini, nelle simmetrie iconografiche e di atteggiamento fra le figure, nell'accurata scelta luministica e nell'attenzione per la resa dei particolari realistici; mentre le scene della predella, raffiguranti l'Orazione nell'0rto, la Flagellazione, la Deposizionenel sepolcro, il Noli me tangere e le Marie al sepolcro, tradiscono un'esecuzione più frettolosa e imprecisa, dovuta quasi certamente all'assenza di disegni preparatori del maestro; qui lo stile ancora insicuro di G. è il risultato della combinazione di motivi linguistici diversi: alla ripresa di formule paesistiche care all'Angelico, quali il terreno segnato da striature parallele, con rocce a gradoni in secondo piano e clivi tondeggianti che si stagliano sull'orizzonte di un cielo limpido, si coniuga l'influenza di Piero, visibile nel trattamento dei panneggi, pure non del tutto immune da alcuni effetti grafici ancora di ascendenza gotica.
Si deve forse collocare anteriormente a questa prima esperienza l'affresco raffigurante, in alto, Giuditta e, in basso, l'Uccisione di Oloferne, con iscrizione recante la data, mutila, e il nome della committente, Francesca di Meo di Miglioruccio, nell'abside di S. Chiara a Sansepolcro, già chiesa del convento di S. Agostino (destinato alle clarisse nell'aprile del 1555), per la quale Piero compì lavori ad affresco intorno al 1451, oltre al polittico per l'altare maggiore commissionatogli il 4 ott. 1454 (De Marchi, pp. 137 s.).
Tra il sesto e il settimo decennio è collocabile anche la serie di tavole facenti parte di una Tebaide, soggetto tradizionalmente legato agli ordini la cui regola imponeva una vita ritirata, forse eseguita da G. proprio per il suo monastero di S. Benedetto.
I venti pannelli, smembrati prima dell'Ottocento e attualmente divisi tra Edimburgo (National Gallery of Scotland), New Haven, CT (Yale University Art Gallery), Oxford (Christ Church) e Zurigo (Kunsthaus), furono idealmente ricomposti nell'unità originaria da Callmann (1957), che li attribuì a un anonimo artista fiorentino influenzato dalla scuola senese e attivo poco dopo la metà del XV secolo; vennero per la prima volta assegnati allo stesso aiuto di Piero a Sansepolcro da Shaw (1967), e quindi a G. da Freuler (1991). Ritornano qui la resa del paesaggio derivata dall'Angelico, che costituisce lo sfondo comune delle scene, la stessa rigida e grafica risoluzione dei panneggi, i medesimi tipi umani dai profili affilati, ma tutto in una maniera poco fluida, da lasciar supporre un largo intervento di bottega. Accanto alle incertezze linguistiche che attestano una scarsa propensione alla produzione pittorica, emerge tuttavia la dichiarazione di un'ampia cultura, denunciata da G. nelle soluzioni di volta in volta attuate: l'analisi di uno dei pannelli conservato a Oxford, raffigurante la Meditazione di s. Antonio e la Visione della scala celeste, dimostra come l'autore abbia combinato elementi di una tradizione testuale che ha origine nell'episodio veterotestamentario della scala di Giacobbe, con quelli di un'iconografia sviluppatasi a partire dall'XI secolo per illustrare la visione di s. Romualdo e la leggendaria fondazione di Camaldoli (Heck).
Nella prima metà del settimo decennio si pone una prima serie di miniature, già attribuite allo Pseudo Michele da Carrara (Alexander; Avril; Dillon Bussi). Il nucleo più omogeneo è riconducibile alla committenza di Sozino Benzi, originario di Siena, chiamato a Roma come archiatra di Pio II forse già dal 1458. Tra i manoscritti della sua preziosa raccolta figurano quelli attribuiti a G., conservati a Firenze, quasi tutti alla Biblioteca Medicea Laurenziana: il Canon medicinae di Avicenna (1460-64 circa, Gaddi 24); il De evangelica preparatione di Eusebio (1460-64 circa, Ashb. 985); e tre codici del 1463, la prima deca di Livio (Plut. 63.1), dove il ritratto virile nel frontespizio (c. 1r), dai tratti ingenui e schematizzati, ricorda i volti dei santi nel polittico pierfrancescano, la terza deca (Plut. 63.3) e l'Historia ecclesiastica di Eusebio (Firenze, Biblioteca nazionale, B.R. 40), già ricondotti ad ambito ferrarese da Muzzioli.
Tra il 1461 e il 1464 De Marchi collocava anche l'intervento su altri due codici: il Missalis secundum consuetudinem Romanae Curiae (New York, Pierpont Morgan Library, M. 95) per il cardinale Iacopo Ammannati, dove, nel riquadro con la Crocifissione (c. 134v), i grafismi fluenti delle pieghe del manto della Vergine e la resa del paesaggio ricordano analoghi effetti raggiunti nella Deposizione della predella del polittico della Misericordia; e le Vitae virorum illustrium di Plutarco (Bologna, Biblioteca universitaria, ms. 2325) per il vescovo di Torcello e di Brescia Domenico Dominici, legato apostolico sotto Pio II e poi vicario di Roma nel 1464. Al 1465-70 circa apparterrebbe invece il Teofrasto (De plantis e De causis plantarum di Teofrasto: Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat. 265) per il cardinale Bessarione.
È questa l'epoca che attesta il pieno inserimento dell'artista all'interno della corte pontificia.
Il 12 genn. 1467 G. venne nominato priore dell'abbazia camaldolese di S. Giorgio presso Camerino; ma il 6 maggio dello stesso anno inizia una documentazione relativa ai pagamenti, saldati il 18 luglio 1468, per le decorazioni delle pareti, non più conservate, e per la doratura del soffitto a cassettoni, realizzato sotto la direzione del fiorentino Domenico di Francesco, con lavori di intaglio eseguiti da Giovanni e Marco Dolci, pure fiorentini, nella chiesa romana di S. Marco. Contemporaneamente, la Camera apostolica provvide al compenso per le 243 lettere di bronzo dorato dell'iscrizione del soffitto, ora scomparsa, realizzata dall'orefice Meo de Flammis, e dorata da G., pagato il 7 apr. 1468 (Weiss). A partire dal 19 ag. 1468, si unirono a questi lavori quelli della ornamentazione pittorica delle volte del secondo ordine del loggiato che circondava il giardino del palazzetto, distrutto nel 1911.
Accanto ai lavori perduti realizzati da G. per la fabbrica Barbo, solo Petrocchi, riprendendo un'antica attribuzione di Gnoli, assegnava all'artista il ciclo, conservato, delle Fatiche di Ercole nella sala dei Paramenti.
Sul registro superiore di ognuna delle quattro pareti in una salda inquadratura spaziale si snodano due scene allusive a imprese dell'eroe divise da una fontana con amorini; mentre ai lati il motivo delle paraste con racemi denuncia la volontà di attingere al repertorio antiquario, e gli stemmi alternati di Paolo II e del nipote, il cardinale Marco Barbo, che proseguì i lavori della fabbrica dopo la morte del pontefice, suggerirebbero una datazione agli inizi degli anni Settanta.
G. svolse queste imprese senza tralasciare l'adempimento di incarichi decorativi di più ampio genere destinati a stendardi, alcuni sgabelli, una cattedra e un baldacchino per il pontefice (Müntz, 1879, pp. 107-109), probabilmente affiancato da una serie di collaboratori in grado di ultimare le commesse entro i termini ristretti indicati dai saldi di pagamento.
La parallela produzione miniata di questo periodo, che rimase il momento di maggior fortuna nel percorso dell'artista, comprende alcuni manoscritti, già attribuiti allo Pseudo Michele da Carrara (Ruysschaert, 1969; Dillon Bussi), destinati a personaggi influenti della Curia: per Teodoro De Lellis, vescovo di Feltre e poi di Treviso, le Divinae institutiones di Lattanzio e le Vitae Caesarum di Svetonio (1466 circa: Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat. 216 e 1905), entrambi caratterizzati dall'elemento del fregio a bianchi girari; per Iacopo Zeno, vescovo di Padova dal 1460, e a Roma tra il 1464 e il 1469, le Orationes di Cicerone (ante 1469: Firenze, Biblioteca nazionale, Landau-Finaly 21), con una ricca decorazione composta da doppi fregi e iniziali con lotte di animali e mostri, un centauro, e l'allegoria della Fortuna, già assegnato a scuola ferrarese (Muzzioli, p. 360, cat. 566); per Angelo Fasolo, successore del De Lellis a Feltre e intimo del cardinale Marco Barbo, la Historia ecclesiastica di Eusebio (1479: Torino, Biblioteca nazionale universitaria, ms. E.II.22); per Niccolò Forteguerri, cardinale dal 1460, le Epistolae di Girolamo (1469: Parigi, Bibliothèque nationale, Lat. 8910), in cui i riquadri con S. Girolamo penitente, S. Girolamo che ammansisce il leone e l'iniziale D con S. Girolamo nello studio (c. 5r), che rivelano nelle figure uno studio di Filippo Lippi, si accompagnano a un'esuberante ornamentazione, composta da una candelabra all'antica contornata da putti, e da un ricco decoro vegetale dipinto a colori su un fondo nero picchiettato d'oro.
L'attività di G. durante il pontificato di Paolo II si concluse con i lavori nel palazzo apostolico in Vaticano svolti in collaborazione con Cristoforo Cole della Villa, i cui pagamenti datano dal 30 maggio 1471 al 12 maggio del 1472, ormai sotto Sisto IV, per l'esecuzione di "parte di regholi e di listre e arme" e della doratura del globo crociato sul palazzo medesimo (De Marchi, p. 145).
Il 22 giugno 1470, grazie al favore di Paolo II, G. era stato nominato abate del cenobio di S. Maria di Agnano in Val d'Ambra nella diocesi di Arezzo, e detenne allo stesso tempo l'amministrazione del convento di Val di Castro, vicino a Fabriano.
Intorno a questi anni si colloca l'esecuzione del trittico di Tifi, da porsi certo dopo il 1460, come si evince da quanto risultava leggibile della data (Chinali, p. 8).
Destinato all'abbazia camaldolese dei Ss. Martino e Bartolomeo a Tifi, presso Caprese, riunita a partire dal 1439 sotto lo stesso titolo con quella di Dicciano, il trittico fu voluto dall'abate Michele da Volterra, nominato nell'iscrizione posta nella cornice inferiore del dipinto, e il cui emblema compare nel piliere a sinistra (in quello di destra l'emblema di Camaldoli); forse, l'esecuzione del trittico deve intendersi proprio come uno scambio di favori con il committente, che divenne abate di Tifi nel 1470, dopo aver ceduto a G. il cenobio di Val di Castro, presso Fabriano (De Marchi, p. 125). L'opera presenta un'esecuzione non particolarmente felice, a confronto con i lavori romani e con le stesse scene della predella della Misericordia, da imputare forse a un più largo intervento di collaboratori. La rappresentazione della Madonna in trono con Bambino, tra i Ss. Martino e Romualdo, e i Ss. Benedetto e Michele Arcangelo, riassume quella cultura di metà secolo nell'ambito della quale G. aveva compiuto la sua formazione: accanto agli echi della lezione pierfrancescana, ancora presente nelle scelte luministiche e nella volontà di regolarizzare le forme, i profili delle sue figure ricordano "la pittura incisiva e tagliente di Giovanni di Francesco", mentre il modellato rigido e spigoloso avvicina l'artista a Neri di Bicci (Damiani). Accanto a cadute stilistiche, quali le mani massicce delle figure o l'incerta resa del gruppo centrale, la vena più genuina di G. si riconosce nell'originalità di alcuni dettagli che tradiscono la vocazione alla miniatura: l'abilità nell'ottenere effetti di trasparenza nel velo della Vergine e nella veste del Bambino, la puntuale descrizione dell'armatura del s. Michele, i riflessi della luce nelle corone intrecciate con rose sulle teste dei due angeli ai lati del trono (simili ai medaglioni entro cui sono inscritti gli stemmi del committente nei codici De Lellis), il gusto illusionistico esperito negli oculi con l'Annunciazione al sommo delle due tavole laterali, o ancora la tipologia del Padre Eterno che si affaccia nella cuspide centrale, affine a quella dei profeti che compaiono nei fregi superiori di molte sue miniature.
Tra ottavo e nono decennio si collocherebbe l'esecuzione per Sisto IV della terza deca di Livio (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Lat. 37) e della quarta (Biblioteca apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 1851), già attribuita ad anonimo miniaturista formatosi a Ferrara e influenzato dall'arte fiamminga (Ruysschaert, 1973).
Fonti e documenti tacciono sul periodo conclusivo di attività di Giuliano di Amadeo.
L'ultima indicazione certa è la data 1491: con un breve di Innocenzo VIII, G. ottenne di lasciare il convento di Agnano per dedicarsi al minio, e rimediare ai debiti contratti a seguito di una cattiva amministrazione (Milanesi).
La produzione conclusiva nel campo della miniatura è rappresentata essenzialmente da un gruppo di codici riconducibili a due opere commissionate da Innocenzo VIII, assegnate da M. Levi D'Ancona (Addenda a Bartolomeo della Gatta miniatore, in La Bibliofilia, XCVI [1994], pp. 313-333) a Pietro Dei, detto Bartolomeo della Gatta: un Messale che figurava in tre inventari della Sistina con la segnatura A.I.17 e un Benedizionale segnato A.I.18, entrambi smembrati. Il frammento dal Messale con l'iniziale P e David con salterio e profeta (Londra, British Library, Add. Mss. 21412, c. 4), e quello, forse proveniente dal Benedizionale, con Quattro Evangelisti, Dio Padre fra due angeli e altri busti (Parigi, Musée Marmottan, Coll. Wildenstein, n. 9) dimostrano, come nel Romuleon di Benvenuto da Imola (post 1482: Parigi, Bibliothèque de l'Arsenal, ms. 667), un tentativo di aggiornamento compiuto sui pittori attivi nella cappella Sistina (evidente per es. nel motivo dei cespugli punteggiati nel David, ricordo di quelli nell'affresco con il Testamento di Mosè), congiunto all'attenzione per l'ultimo Antoniazzo (Antonio Aquili), ma il tutto su una base che rimane "incredibilmente più arcaica" (De Marchi, p. 122), in cui permane il gusto per il paesaggio derivato dall'Angelico, denunciato nelle prime prove pittoriche.
Il catalogo definito da De Marchi si conclude con miniature che proverebbero una prosecuzione dell'attività ancora nell'ultimo decennio del secolo, tra cui: la Miscellanea dell'Ordine dei gesuati (1485-92: Parigi, Bibliothèque de l'Arsenal, ms. 8555), il Liber cerimoniarum (1487: Biblioteca apostolica Vaticana, Urb. lat. 470), commissionato da Celso Millini, vescovo di Montefeltro dal 1484, in cui ritornano i due cartigli illusionistici in alto e sulla destra (c. 5r), motivo tipico del miniatore usato anche nei frontespizi del De evangelica per Sozino Benzi e nello Svetonio per Teodoro De Lellis, e in cui l'intervento prevalente di G. nell'esecuzione del frontespizio interno si integra con quella del lombardo Giovanni Pietro Birago.
G. morì nel 1496 a Lucca, dove si recò in una data ancora imprecisata e dove avrebbe lasciato un segno della sua ultima attività in alcuni corali della cattedrale (Opera del duomo), assegnati a Bartolomeo della Gatta da Vasari, e in parte a G. da Milanesi.
Un rapporto diretto con il più giovane miniatore, che si risolve unicamente nell'assunzione di alcuni repertori di ornati nelle miniature più tarde, potrebbe d'altra parte essere stato determinato dalla presenza di Bartolomeo, a partire dal 1470, nel monastero aretino di S. Maria in Gradi, dipendente dalla badia di Agnano.
La personalità di G. si rivela così, al termine della sua attività, ancora sfuggente, caratterizzata da una volontà di aggiornarsi che si risolve in un arricchimento di motivi e di forme piuttosto che in un vero mutamento stilistico. Nelle sue miniature possono continuare a cogliersi le tracce delle diverse esperienze che avevano segnato gli anni della formazione: la cultura propria dell'Angelico, il rapporto con Piero, i contatti con gli artisti attivi fra Val Tiberina e Marche informano i caratteri delle parti figurative, mentre nel formulario decorativo G. tradisce la sua vena più ricca e fantasiosa combinando cornucopie, dischetti-scudo, tralci variopinti, uccelli, frutti, in una vivida gamma cromatica, stagliati su fondi neri o oro. Tali elementi tornano anche nella più tarda Periegesi di Pausania (1485: Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 56.11), con il motivo dei rocchetti esagonali nel bas-de-page (c. 1r) comuni a Neri di Bicci e tipici di Bartolomeo della Gatta, già adottati da G. nella pedana e nelle lesene del trono del trittico di Tifi.
Nel contesto della fase "ibrida e contraddittoria" (De Marchi, p. 138) della produzione miniatoria romana dello scorcio del Quattrocento, l'attività conclusiva di G. rimane, al di là di anacronistici tentativi di aggiornamento, coerente con se stessa, testimone di una comune identità linguistica esperita nella limitata produzione di opere su tavola e nella ricchissima, e tuttora discussa, produzione miniata.
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