Medici, Giuliano di Piero de’
Nacque a Firenze il 25 ottobre 1453, ultimo figlio di Piero di Cosimo e di Lucrezia Tornabuoni; era quindi fratello minore di Lorenzo il Magnifico. Ebbe come precettore il dotto ecclesiastico Gentile Becchi. Era appena sedicenne quando, morto il padre (2 dicembre 1469), l’eredità politica della famiglia fu confermata, al ventenne Lorenzo e a lui, dal sostegno di un largo numero dei principali cittadini, favorevoli al mantenimento dello «stato» dei Medici. Sia nell’ambito politico sia negli affari economici il ruolo da protagonista spettò a Lorenzo, mentre Giuliano rimase in una posizione secondaria, che contrastava con le sue ambizioni. Lorenzo volle proporlo al papa Sisto IV per la tanto desiderata nomina di un cardinale fiorentino, ma le trattative non ebbero esito. Nel gennaio del 1475 fu il vincitore della giostra che si tenne a Firenze per festeggiare la recente alleanza con Venezia e Milano. L’evento fu celebrato dalla raffinata poesia di Angelo Poliziano nelle Stanze per la giostra, rimasta incompiuta dopo la morte del protagonista.
La mattina del 26 aprile 1478, Giuliano fu ucciso da Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini nella cattedrale di Firenze, durante la messa celebrata alla presenza del cardinale Raffaello Riario; Lorenzo, solo leggermente ferito, riuscì a salvarsi. Questa circostanza, unitamente al fallimento del tentativo di impadronirsi del Palazzo della Signoria da parte di Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa, e di altri complici, e alla mancata sollevazione del popolo, che anzi si unì ai fautori dei Medici pronti alla riscossa, decretò la sconfitta dei congiurati e la loro violenta repressione. I funerali di Giuliano si svolsero il 30 aprile, e il 26 maggio nacque, da una sua relazione, il figlio Giulio, che, accolto nella famiglia Medici, sarebbe divenuto cardinale e poi papa, con il nome di Clemente VII.
Se la repressione all’interno di Firenze fu efficace e risolutiva, e portò anzi a un rafforzamento del potere di Lorenzo, molto più difficile risultò la situazione all’esterno, con lo stato di guerra che si determinò – protraendosi poi per alcuni anni – con i ben più pericolosi nemici che avevano concorso alla congiura: il papa Sisto IV e suo nipote, conte Girolamo Riario, il re di Napoli Ferdinando I e il duca di Urbino Federico da Montefeltro. La congiura era infatti maturata negli anni precedenti, in uno scenario di contrasti – nell’ambito delle due diverse leghe: da una parte Milano, Firenze, Venezia, dall’altra il papa e il re di Napoli – per il dominio o l’influenza su aree cruciali per ragioni territoriali (come, per es., Imola e Faenza), in una complessa contrapposizione di interessi di cui Lorenzo fu direttamente partecipe, venendo a rappresentare uno dei maggiori ostacoli per la politica nepotistica di Sisto e le conseguenti ambizioni del conte Riario. La partita con i Pazzi si giocava infatti anche sullo scacchiere romano, dove questi ultimi avevano stabilito rapporti privilegiati con il papa e Girolamo, appoggiando finanziariamente i loro progetti, al contrario dei Medici, al cui banco fu per questo tolta la Depositeria pontificia. Si aggiungeva inoltre la questione delle ambizioni di Lorenzo al cardinalato per un fiorentino (prima per il fratello, poi, vistane l’impossibilità, per Becchi), cui aspirava anche Francesco Salviati, legato ai Pazzi, e nominato arcivescovo di Pisa contro la volontà di Lorenzo e senza il preventivo, consueto avallo della Signoria. Lorenzo aveva tenuto a lungo in sospeso l’accordo sull’insediamento, suscitando le ire del papa e il risentimento dell’arcivescovo. I motivi esterni – rafforzati dalla scomparsa del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, a sua volta assassinato a Milano nel dicembre 1476 a causa di una congiura – si saldarono con il malcontento per il crescente prepotere dei Medici in Firenze, divenuto insopportabile per i Pazzi dopo i provvedimenti presi a loro danno, soprattutto nel 1477 con la legge De testamentis, che veniva a privarli della ricca eredità dei Borromei. Nell’estate di quell’anno la congiura antimedicea passò quindi, dal progetto, alla fase organizzativa, fino alla messa in atto (sul quadro storico cfr. Fubini 1993).
Alla congiura dei Pazzi M. dedica una serie di considerazioni nel capitolo relativo alle congiure in Discorsi III vi, e a essa poi riserva un’ampia sezione in Istorie fiorentine VIII (ii-ix). Nei Discorsi l’analisi si inquadra nel tema generale della pericolosità delle congiure, sia per i principi sia per i privati. Lo scopo enunciato è dunque quello di darne dimostrazione, sul piano teorico e tramite l’insegnamento fornito da ogni «caso notabile» (vi 5), perché i principi si guardino da questi pericoli e i privati vi si mettano con maggior cautela o, meglio, se ne astengano. L’esempio della congiura dei Pazzi è dunque scomposto secondo gli elementi dell’indagine, a partire dalle cause delle congiure, le «ingiurie» operate «nella roba, nel sangue o nell’onore» (§ 14): quella dei Pazzi viene ricondotta qui per la maggior parte alla «roba», per la questione dell’eredità dei Borromei. La congiura è poi più oltre brevemente ricordata per l’eccezionalità del segreto mantenuto nonostante i molti consapevoli, mentre un maggiore spazio viene dato nella parte relativa ai pericoli che si corrono nell’esecuzione. M. attribuisce il fallimento alla variazione dell’ordine prestabilito, che prevedeva il duplice assassinio durante il banchetto che sarebbe stato dato in casa Medici in onore del cardinale Riario dopo la messa; ma essendo corsa voce che Giuliano non ci sarebbe stato, si decise di anticipare l’azione in chiesa e si sostituì in fretta con «nuovi ministri» (che non ebbero tempo di «fermare l’animo») uno dei previsti esecutori, il condottiere Giovambattista di Montesecco, il quale si era rifiutato di agire in chiesa (§ 108). Tra gli errori commessi da tali improvvisati sicari M. riporta lo sconsiderato grido («Ah traditore», § 127) di Antonio da Volterra, incaricato di uccidere Lorenzo. Questo particolare (contraddetto dal racconto del cronista Piero Parenti, che lo attribuisce a Bandini, nell’uccisione di Giuliano) non è più riportato nelle Istorie. La congiura dei Pazzi infine dimostra che le congiure dirette contro più «capi» sono ancor più rischiose di quelle dirette contro un singolo, perché, se il colpo riesce solo parzialmente, «quelli che rimangono diventono più insopportabili e più acerbi» (§ 135).
Il capitolo dei Discorsi è richiamato all’inizio di Istorie VIII, a conferma della trattazione generale sulle congiure, mentre nel prosieguo viene approfondito e in parte mutato l’esame delle cause della congiura. Innanzitutto M. individua nell’accentramento del potere (dopo la sconfitta, nel 1466, degli oppositori di Piero) l’esclusione di ogni altra via che la violenza, per chi volesse contrastare l’autorità dei Medici. Vengono poi delineate le premesse, esterne e interne, della congiura: all’esterno, nell’ambito della divisione d’Italia nelle due leghe sopra citate, sono da M. rilevate le azioni ostili del papa, la nomina di Salviati, in quanto nemico dei Medici, e i grandissimi favori concessi ai Pazzi a Roma; all’interno, è sottolineata ora con incisività la ricchezza della famiglia Pazzi e il suo rilievo sociale, motivi di timore per i Medici. Nascono da qui la volontà di Lorenzo, con l’ausilio dei magistrati, di deprimere continuamente i rivali e lo «sdegno» crescente dei Pazzi, in una pericolosa spirale di odio, alla quale fa da decisivo detonatore la questione dell’eredità dei Borromei. M. inoltre, attribuendo a Giuliano una maggiore moderazione e saggezza, distingue ora da quella di Lorenzo la posizione del fratello minore (padre del dedicatario, come viene più oltre ricordato in questo stesso libro, e soprattutto nella dedica dell’opera: qui, nell’excusatio per non aver potuto parlare molto di Giuliano a causa della breve vita, se ne esalta il ruolo di genitore di tanto figlio). Lo spunto è tratto dai Libri de temporibus suis di Giovanni di Carlo (→), tra le principali fonti di questa parte delle Istorie insieme con la confessione di Montesecco – uno dei più importanti documenti diffusi pubblicamente in quelle circostanze a difesa di Lorenzo –, cui sono da aggiungere il Pactianae coniurationis commentarium di Poliziano e la Laurentii Medici vita di Niccolò Valori; proficuo è anche il confronto – sia per le consonanze (come per tratti della figura di Renato de’ Pazzi, accusato invece di complicità con i congiurati da altre fonti) sia per le differenze (tra cui, rilevante, l’assenza in M. del ruolo del duca di Urbino, per altro cassato dai verbali della confessione di Montesecco) – con le Storie fiorentine di Francesco Guicciardini, di cui non è da escludere anche altrove la presenza in M. (sui testi citati cfr. Anselmi 1979).
M. riorganizza con magistrale efficacia il dettato delle fonti e ne modula gli spunti componendo un organico quadro di alta densità drammatica. In esso la parte più ampia è data dalla rappresentazione della progressiva messa in moto del meccanismo cospirativo, da Roma a Firenze e viceversa, e poi di nuovo a Firenze con l’entrata in scena – secondo una studiata scansione che mette efficacemente a frutto la confessione di Montesecco (in larga misura fonte, con riprese anche letterali e significativi tagli, nei capp. iii e iv) – dei protagonisti (colui che prese l’iniziativa, Francesco de’ Pazzi, con Girolamo Riario, e poi Salviati), dei chiamati in causa (lo stesso Montesecco, che manifestò difficoltà e pericoli, e Iacopo de’ Pazzi, in un primo momento restio: su entrambi ebbe peso determinante il fatto che il papa si fosse dichiarato in tutto favorevole all’impresa, come poi fece Ferdinando I), di coloro che furono associati all’interno di Firenze (membri delle due famiglie Pazzi e Salviati e uomini a loro legati) e all’esterno, cioè le forze forestiere che dovevano dare il supporto militare. Soppesati i modi e individuata l’occasione nell’invio del cardinale Riario a Firenze, si giunse dunque a dare «ordine» all’azione. Il progetto di cogliere i Medici insieme a banchetto fu reso una prima volta vano dall’assenza di Giuliano; quando poi Francesco de’ Pazzi seppe che la stessa cosa sarebbe accaduta nel giorno ormai ultimativamente stabilito, per la necessità di non attendere oltre si decise di agire in chiesa, cambiando i piani: «principio della rovina della impresa loro» (v 13), come M. ribadisce, facendo seguito a quanto già osservato nei Discorsi. La deliberazione, che prevedeva la contemporanea presa del Palazzo della Signoria da parte di Salviati, segna il passaggio alla messa in atto del piano e all’acme tragica del racconto. Prima di narrare, con incisivi cambi di focalizzazione sui diversi attori in scena, l’omicidio di Giuliano, il ferimento di Lorenzo e la concitazione che ne seguì, M. si sofferma sull’odio e sulla simulazione dei due uccisori di Giuliano, Francesco de’ Pazzi e Bernardo Bandini: Giuliano appare qui quasi come una vittima sacrificale che i due vanno a prendere a casa (secondo uno spunto presente anche nella Vita di Valori) simulando amicizia e verificando «sotto colore di carezzarlo» se avesse corazza o altra difesa (vi 3).
Dai «tumultuosi accidenti» in chiesa il racconto passa al fallimento dell’azione dell’arcivescovo Salviati e dei suoi accompagnatori armati nel Palazzo della Signoria e all’immediata e feroce repressione, per tornare poi a focalizzarsi sugli uccisori di Giuliano e sull’intervento in armi in piazza di Iacopo de’ Pazzi, a ciò pregato da Francesco, che nella foga di colpire Giuliano si era ferito gravemente a una gamba. Al tradizionale appello dei congiurati al «popolo» in nome della «libertà», M. fa seguire un graffiante commento, rivelatore della sua interpretazione – per alcuni aspetti non priva di ambiguità (come nel rilievo dato a quanto Montesecco aveva riferito sull’amorevolezza e benevolenza di Lorenzo nei confronti del conte Riario) e lasciata alla decifrazione del lettore – del regime mediceo: «Ma perché l’uno [il popolo] era da la fortuna e liberalità de’ Medici fatto sordo, l’altra [la libertà] in Firenze non era cognosciuta, non gli fu risposto da alcuno» (viii 4). Lorenzo «campato», «vivo», in salvo a casa, acclamato, domina ormai la scena della città in tumulto, mentre «le membra de’ morti, o sopra le punte delle armi fitte, o per la città strascinate si vedevano » (ix 3). La cattura e la morte di Francesco, Renato e Iacopo (di cui è narrata ampiamente, come esemplare caso di fortuna, non solo la fine, ma lo scempio cui fu sottoposto il cadavere), di Montesecco, e le pene cui furono sottoposti altri membri della famiglia Pazzi scandiscono le fasi conclusive del tragico evento, luttuosamente segnate dalle esequie di Giuliano. L’autore non ne dà un ritratto, ma ne affida il giudizio al generale compianto («perché in quello era tanta liberalità e umanità quanto in alcuno altro in tale fortuna nato si potesse desiderare», ix 16) e soprattutto ne ricorda il figlio «naturale», Giulio – il dedicatario, appunto –, tessendone l’elogio e preannunciando che della sua virtù e fortuna avrebbe poi parlato a suo luogo: non trascurabile cenno dell’intenzione di M. di condurre la narrazione fino alla contemporaneità.
Bibliografia: G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; R. Fubini, La congiura dei Pazzi, in Lorenzo de’ Medici. New perspectives, Proceedings of the international conference held at Brooklyn college and the Graduate center of the City university of New York, April 30-May 2 1992, ed. B. Toscani, New York 1993, pp. 219-47; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; L. Martines, April blood. Florence and the plot against the Medici, London 2003 (con bibl. prec.; trad. it. La congiura dei Pazzi: intrighi politici, sangue e vendetta nella Firenze dei Medici, Milano 2004); M. Simonetta, introduzione ad A. Poliziano, G. Becchi, La congiura della verità, a cura di M. Simonetta, Napoli 2012, pp. 11-34.