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Becelli, Giulio Cesare

di Aurelia Accame Bobbio - Enciclopedia Dantesca (1970)
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Becelli, Giulio Cesare

Aurelia Accame Bobbio

Lo scrittore veronese (1686 - 1750) nel trattato Della novella poesia (1732), esaminando gli aspetti per cui la poesia moderna si differenzia da quelle classiche, rileva, sulla scorta del Gravina cui esplicitamente si richiama, la novità di D. come poeta teologo dei tempi cristiani, sostenendo e accentuando più del Gravina il maggiore pregio che viene dal concetto vero della divinità al genere moderno dei " poemi divini " in confronto a quello dei pagani.

Altre idee accoglie dal Gravina sull'interpretazione e sullo stile, e aggiunge che la grandezza tipica di D. come poeta del divino cristiano consiste nel riuscire a rappresentare, specialmente nel Paradiso, " ciò di cui nelle menti umane alcuna idea (sensibile) non alberga ": D. dunque poeta dell'ineffabile. Perciò, se concorda col Gravina nell'affermare che la Commedia non era poema destinato al popolo, se ne discosta ritenendolo col Pigna rivolto non agli studiosi, ma ai " contemplativi ", e con ciò pensa di giustificarlo, contro il Castelvetro e altri, del carattere dotto nei concetti e nel linguaggio. Dissente poi dal Gravina e da quanti ritengono il titolo di ‛ commedia ' dovuto alla forma drammatica più che epica o alla rappresentazione degli uomini di ogni condizione, e affaccia l'idea che esso sia in relazione con lo stile (e menziona il sottotitolo di ‛ commedia ' dato dal Boccaccio all'Ameto). Inclina a ritenerlo tuttavia arbitrario " sendo che se si mira lo stile del poema stesso, egli ha tutte le forme, ora tragico, ora comico, sovente satirico, anzi ancora lirico nella lode, ed elegiaco nel dolore ". Oltre al pluristilismo, nota anche il plurilinguismo, riferito, con argomento non nuovo (v. p. es. Iacopo Mazzoni), alla caratterizzazione dei personaggi secondo la loro origine, oltre che al desiderio di testimoniare il suo peregrinare di esule per l'Italia. Lo considera, secondo la tradizione bembesca, col Petrarca e col Boccaccio creatore della lingua letteraria italiana; opinione ribadita nel dialogo Se oggidì scrivendo si debba usare la lingua italiana del buon secolo (1737). Ma ai cinquecentisti e loro seguaci che prepongono il Petrarca a D. per la " gentilezza ", obietta che nella Commedia bene ha usato D. espressioni " laide " per le " laide cose ", e quanto a " gentilezza ", Si paragoni Francesca alla Sofonisba dei Trionfi e si vedrà chi sia più gentile; ché neppure nella lirica Petrarca è il solo modello: da lui si prenda " la gentilezza... ma da D. il forte e nerboruto parlare ". E sembra talora intuire la sconvenienza di tali paragoni, avendo ogni poeta il suo carattere e il suo stile.

Nell'Esame della Retorica antica ed uso della moderna (1735) il B. rileva l'importanza del De vulgari Eloquentia come prima Retorica italiana, ch'egli poteva agevolmente leggere, anche nel testo latino, nella ristampa curata da S. Maffei a Verona nel 1729, dell'edizione cinquecentesca di I. Corbinelli, con la versione del Trissino. Ne sostiene l'autenticità, loda che abbia " divinamente parlato della canzone ", ma dissente da D. che il volgare illustre, cioè la lingua, sia il principale ornamento del verso, essendovene altri come la " favola " e la " sentenza " che D., secondo lui, trascura; né condivide la definizione della poesia come " finzione retorica e posta in musica " (sic), non bastando le figure retoriche né il verso a far poesia, ma, dice come fedele alla poetica dei " generi ", occorrendo altresì finzione poetica (cioè, forse, favola), o inserimento in una delle " poetiche specie "; e si meraviglia che proprio D. tra i grandi argomenti non includa le " divine cose ". Si accosta in parte al vero intento del trattato quando lo definisce ‛ Retorica ', ma appunto per questo (pur concedendo di passaggio che non è finito), poiché intende " eloquenza " nel senso ristretto di oratoria, lo rimprovera di non mantenere ciò che promette, in quanto di poesia e non di eloquenza vi si discorre, e della retorica tratta solo la " elocuzione ", restringendola per giunta alla sola poesia, come del resto annuncia il titolo Del Volgare Eloquio. Esprime tuttavia una qualche perplessità sulla discordanza tra il presunto titolo e la precisa indicazione, che cita, del testo latino, doctrinam de vulgari eloquentia tradere " (I XIX 3), e conclude che il trattato dantesco non offre " il ricercato da noi, e da lui proposto e dovuto fine ". Altrove concede che le " popolaresche " lingue, oggi più levigate, potevano apparire a D. rozze e refrattarie alla poesia, sì da indurlo a elaborarne quel suo volgare " illustre e cortigiano ".

In complesso il B. si colloca nella rinascita del culto dantesco promossa dal Gravina, ammira nella Commedia il primo altissimo esemplare dell'originalità che la poesia moderna assume di fronte all'antica, formula qualche rilievo degno di nota sullo stile e sulla lingua del poema, e avverte nel De vulgari Eloquentia, contro la tendenza generale a considerarlo un trattato linguistico, per lo meno un intento, se pur non attuato che in parte, di dare una dottrina sul linguaggio d'arte.

Bibl. - G.C.B., Della novella poesia, Verona 1732 (Il 1 e passim); Id., Esame della Retorica antica ed uso della moderna, Verona 1735, 89, 267 ss. e passim. Per una bibliografia generale cfr. A. Asor Rosa, in Diz. biogr. degli Ital. VII (1965) 502-505. Circa il suo pensiero su D., v. N. Tommaseo, Studi critici, Venezia 1843, 160; E. Bertana, Un precursore del romanticismo, in " Giorn. stor. " XXVI (1895) 135-136; L. Martinelli, D., Palermo 1966, 121-122.

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