CORRADI, Giulio Cesare
Nacque a Parma, in un anno da porre presumibilmente tra il 1640 e il 1650. Del tutto ignoti sono gli itinerari della sua formazione letteraria nonché gli avvenimenti esterni, tranne il lungo soggiorno veneziano (almeno trent'anni), sino alla morte avvenuta nel 1702.
A Venezia lavorò come librettista per alcuni dei più eminenti compositori allora attivi e la sua posizione nell'ambiente teatrale fu di un certo spicco: suoi lavori furono accolti nei maggiori teatri della città (in particolare il teatro Grimani) e anche a Dresda, Mantova e Modena, e per essi poté valersi di collaboratori tra i più reputati, come lo scenografo Tommaso Bezzi detto lo Stucchino. Nei libretti vengono pure rammentati gli scenografi G. B. Lambranzi, Ippolito Mazzarini, Giuseppe Sartini, e il costumista Gasparo Pellizzari.
Del C. sono noti ventitré melodrammi, alcuni più volte ristampati e tutti con una buona presenza ai cataloghi delle biblioteche, ciò che, per altra via, conferma un successo già certificato dalla notorietà stessa dei compositori che si valsero di lui. L'esordio avvenne nel 1674 con La schiava fortunata stampata a Venezia ed a Modena (quando si omette l'indicazione del luogo di stampa il libretto si intende stampato a Venezia); libretto che rifaceva quello della Semiramide di A. Moniglia già musicato nel 1667 da M. A. Cesti. Il melodramma rappresentò anche l'esordio veneziano del compositore, Marcantonio Ziani, uno dei maggiori del tempo, attivissimo poi a Venezia fino a quando, nel 1700, passò a Vienna. Lo Ziani fu anche l'operista con il quale, in un arco venticinquennale, il C. collaborò più regolarmente e frequentemente (cinque melodrammi), ma negli anni subito successivi, tra il '75 e l'87, egli diede quattro testi a Giovanni Legrenzi, un musicista del quale non molto è rimasto ma tra i più eminenti del tempo (La divisione del mondo, 1675; Germanico sul Reno, 1676, Reggio 1677, Bologna 1680; Il Creso, 1681; I due Cesari, 1683), e quattro a Carlo Pallavicino, assai legato, oltre che a Venezia, al teatro di Dresda (Il Vespesiano, 1678, 1680, Modena s. d. [ma 1685], Ferrara 1687, Bologna 1695; Il Nerone, 1679, con una nuova ediz. accresciuta l'anno stesso; L'Amazzone corsara, 1688, Bologna 1688, Vicenza 1690; La Gierusalemme liberata, 1687).
La divisione del mondo è di argomento mitologico: crude guerre sorgono tra i Celesti per opera di Venere; Giove ripristina la pace dando a Nettuno lo scettro del mare, a Plutone l'impero di Dite. Il dramma si affida, più che all'invenzione narrativa, alle risorse di una visione parodistica e allo spettacolo scenografico, di cui anche le didascalie, oltre che le attestazioni del tempo, fanno intravvedere il carattere mirabolante. Con questo libretto si chiudeva la fase mitologica delle opere del Legrenzi; con il Germanico sul Reno si apriva la successiva fase del melodramma storico, al quale, nel caso specifico, èaffidato un messaggio di solenne moralità, ché il vincitore di Arminio soffre sì pene d'amore e di guerra, ma, in fine, mostrando che l'eroe vero non soggiace alla cieca passione e alle bramosie dell'ambizione. Il Vespesiano (col quale si inaugurò il teatro S. Giovanni Crisostomo) tocca il tema sentimentale della decadenza parlando della monarchia latina giunta all'"estremo Occaso delle sue Glorie"; il Nerone, che èdramma di singolare tumefazione barocca, coinvolge il tiranno in una esotica storia orientale; l'Amazzone corsara è la storia di una bisbetica domata, ché Alvilda, figlia del re dei Goti, si dà alla pirateria per sottrarsi a un amante importuno, al quale peraltro si concede quando è ferita dall'apparente disprezzo dell'uomo.
La Gierusalemme liberata, preparata per il teatro di Dresda, èforse il più singolare dei libretti del C., testimonianza, sia pur minima, della fortuna del "più nobile di tutti i Poemi". L'esercizio di distorsione che il C. compì sul testo tassiano èinteressante e neppur tanto spregevole: il taglio melodrammatico dà spicco a Eros fin dal prim'atto, dove il rilievo maggiore tocca alla lussuriosa prigionia di Rinaldo. Tancredi e Arideno, qui condotti prigionieri, sono accolti da Rinaldo con un affetto che diviene asprezza quando Tancredi dice empia Armida; la quale giuoca con grazia patetica sul presentimento dell'infelicità, cogliendo così l'essenza popolare e spettacolare del melodramma. Anche nel secondo atto spicca il labirintico giardino d'Armida, con un mirabolante momento metamorfico quando i cavalieri imprigionati vengono tramutati in animali, piante e marmi, poi venendo riportati alla forma primitiva. Rinaldo si vede nello specchio e Armida si ritrova sola, abbandonata dall'"empio fellon". Il terzo atto è in prevalenza guerresco, ma con vistosi effetti patetici.
Nel 1688 e '89 tornò allo Ziani, rispettivamente con L'inganno regnante overo l'Atanagilda Regina di Gottia, dove la materia barbarica ha colore di commedia degli equivoci, e con Il Gran Tamerlano, che svolge anch'esso intrighi incrociati (Zelida moglie di Baiazette è desiderata da Emireno figlio di Tamerlano; Roselana figlia di Baiazette è desiderata da Tamerlano), in un racconto che ha un forte sostrato erotico. Nel '90 compose due libretti per un musicista minore, Paris Alghisi: L'amor di Curzio per la patria, dove è esaltato il sacrificio dell'eroe, che consente lo scioglimento felice della storia amorosa e procura la pace tra Romani e Sabini, e Il trionfo della continenza;e nel '91 cominciò l'operosa collaborazione con un allievo del Legrenzi, il bresciano Carlo Francesco Pollarolo: l'Alboino in Italia (musicato, in collaborazione col Pollarolo, anche da Giuseppe Felice Tosi), che narra, attraverso un intrigo privo di ogni coerenza psicologica, l'uccisione in Roma di Alboino per mano di Emichilde; la Iole regina di Napoli (1692), dove Federico II viene incognito alla corte napoletana, invaghito per fama della bellezza della regina; Gli avvenimenti d'Erminia e di Clorinda sopra il Tasso (1693), esplicitamente presentati come seguito del precedente e fortunato melodramma "tassiano"; l'Amage regina de' Sarmati (1694) e l'Aristeo (1700).
Riprese nel frattempo la collaborazione con lo Ziani per il Domizio (1696), su materia di storia romana, e per L'Egisto re di Cipro (1698), con acceso colorito di esotismo. Ovviamente degna di nota èla collaborazione col giovane Tommaso Albinoni, al quale il C. diede due libretti (Tigrane re d'Armenia, 1697; Primislao primo re di Boemia, 1697, rappresentato nel 1698, e, ancora pubblicato nel 1701 e 1704), per due opere accolte con molto favore, delle quali peraltro non restano gli spartiti. Il Tigrane narra trame di corte in Armenia; il Primislao è ambientato in Boemia e narra l'ascesa al trono di un contadino, prelevando da fonti come l'Historia bohemica di Enea Silvio Piccolomini un racconto leggendario di cui sono esaltati gli aspetti fiabeschi. Postumo infine fu pubblicato l'ultimo melodramma del C., La pastorella al soglio (1702, Roma 1712, Mantova 1717), storia del Medioevo inglese, musicata, dicono le fonti, da vari compositori.
La gamma così varia degli argomenti drammatici andrà correlata al gusto e alle predilezioni del pubblico piuttosto che a scelte consapevoli dell'autore, il quale era evidentemente indifferente. Nei libretti del C. il dramma, oltre che psicologicamente immotivato, è quasi sempre riducibile a uno schema assai semplice che propone una situazione di partenza sulla quale si innesta un imprevisto, ma ristabilisce poi l'ordine iniziale secondo una visione armonica dei sentimenti. Il C. non si discosta dal gusto medio del melodramma tardo-seicentesco neppure nella forte coloritura esotica che viene conferita ad ogni argomento e nella predilezione costante per gli apparati scenografici vistosi e talora stupefacenti. I suoi drammi non vivono dunque per valori autonomi, ma per l'accorta aderenza al gusto e alle convenzioni di una fervida vita teatrale: l'approssimazione è spesso evidente e talora persino dichiarata, come nell'Alboino, steso "frettolosamente in poche ore", e nel Creso, pure preparato in breve tempo per una rappresentazione che si direbbe imprevista o anticipata. Nella lunga fortuna del C. non si rifletteva certo una travagliata elaborazione del linguaggio melodrammatico, ma s'incarnava la capacità di aver chiare sempre le ragioni della produzione teatrale; come anche si vede bene nel gioco accorto delle dedicatorie, rivolte a personaggi sempre di grande autorità.
Fonti e Bibl.: F. S. Quadrio, Della storia edella ragione d'ogni poesia, V, Milano 1752, p. 476; I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma 1789-97, V, pp. 285-89; VI, p. 835 (contributo fond.); G.Tiraboschi, Storia dellalett. ital., VIII, Milano 1824, p. 744; G. B. Janelli, Diz. biografico dei parmigiani, Genova 1877, p. 129 (dipende in tutto dall'Affò); V. Malamani, A proposito di un "Nerone" goldoniano, in Giorn. stor. della lett. ital., V (1885), p. 206; A. Belloni, Il Seicento, Milano 1955, pp. 422, 425; C. E. Tanfani, C. G. C., in Encicl. dello spett., III, Roma 1956, col. 1514; Storia dell'opera, Torino 1977, ad Indicem.