VACCHERO, Giulio Cesare
VACCHERO (Vachero), Giulio Cesare. – Nacque a Genova, verosimilmente nell’ultimo decennio del XVI secolo, da Bartolomeo, di umilissima famiglia, originario di Sospello (borgo del contado di Nizza) e da Bianca di Raffaele da Novi, appartenente invece alla nobiltà cittadina.
Trasferitosi a Genova in età adulta, Bartolomeo era stato prima domestico di un prete di S. Maria delle Vigne, quindi alle dipendenze di Rocco di Crollalanza, mercante dei Grigioni, che lo aveva posto anche «al scagno» (Genova, Archivio storico del Comune, ms. 356, c. 138r). Aveva frattanto cumulato una ragguardevole fortuna, grazie al gioco d’azzardo e fors’anche ai commerci. Attorno al 1600, era ormai un agiato possidente: vantava poderi in Val Polcevera e numerose proprietà urbane, fra cui la grande casa di Prè, ove risiedeva con la moglie, quattro figli maschi e almeno due figlie. A questi ultimi Bartolomeo garantì un’educazione ben migliore della propria, nonché buoni matrimoni.
Giulio Cesare sposò Ippolita Rela (1608 circa), figlia del capitano Niccolò, luogotenente della squadra di galee di Carlo Doria, duca di Tursi. Negli anni a seguire, quelli in cui egli si sarebbe macchiato dei più turpi delitti, anche oltre i confini del Genovesato, l’intercessione dei Rela (Niccolò e i suoi figli) risultò spesso determinante: funzionale a trarlo d’impaccio, a facilitarne il ritorno in patria e a tentarne la riabilitazione. Dichiarato «bandito capitale» (Archivio di Stato di Genova, Fondo Gavazzo, 1, 31) in ragione degli assassini commessi «nelle pubbliche strade, fin nelli primi anni della sua gioventù» (Della Torre, 1846, p. 566), Vacchero riparò prima a Nizza (1610 circa), ove avrebbe nuovamente ucciso (un cavaliere di S. Giovanni), quindi a Firenze, ove sarebbe stato complice di Cosimo di Pietro de’ Medici nell’omicidio del conte Giorgio Bentivoglio (1611). Uscì dalle carceri delle Stinche forse grazie all’intercessione di Pietro de’ Medici e del connazionale Antonio Di Negro. Visse quindi ulteriori anni a Firenze, fra le scelleratezze cui era aduso e le «sensualità più vietate» (p. 567). Terminato il bando, tornò a Genova e poco dopo ripartì, per scontare il residuo di pena: il confino in Corsica.
Sebbene incapace di ravvedimento (macchiatosi anche a Bastia di omicidio e stupro), venne riammesso in patria e tornò in libertà, per giunta con licenza di portare armi. A partire dal 1624 fu implicato in nuove vicende delittuose, subendo ancora il carcere e la tortura, a opera della rota criminale genovese. In due deposizioni (databili fra la primavera del 1625 e l’aprile del 1626) si dichiarò «publico negotiator» e sostenne di avere di recente soggiornato in Spagna, in ragione delle sue attività (Archivio di Stato di Genova, Fondo Gavazzo, 1, 28-29). In base alla medesima documentazione processuale, è possibile far risalire quantomeno al 1624 la sua amicizia con Nicolò Zignago, «il più reputato chirurgo della città», originario di Nizza e in precedenza barbiere, il quale, «adottrinato in Medicina, spacciava con molti l’un e l’altro mestiere» (Genova, Archivio storico del Comune, ms. 132, c. 61r). Questi si adoperò anzitutto per ottenere la scarcerazione di Giulio Cesare, in sinergia con i Rela (ne attestò il precario stato di salute, incompatibile, a suo giudizio, con il regime detentivo), quindi rimase suo sodale, come mostra già la successiva inchiesta giudiziaria, relativa alla morte per avvelenamento della cognata di Vacchero.
Sul finire del 1627, Giulio Cesare fornì protezione e ospitalità a Giovanni Antonio Ansaldi, nemico giurato della Repubblica: genovese di umili origini, quindi divenuto conte di Scarnafigi, suddito ed emissario di Carlo Emanuele I di Savoia (le cui mire sulla Liguria erano state per l’ennesima volta vanificate dalla disfatta militare del 1625). Ebbe così inizio l’ultima impresa criminale di Vacchero, destinata a maturare in uno dei più gravi episodi di lesa maestà dell’antico regime genovese (la ‘congiura di Vacchero’, per invalsa consuetudine).
Un profilo biografico che è pertanto arduo disgiungere dal ritratto tramandatoci dalla storiografia ligure (quello del Catilina per antonomasia) e da Raffaele Della Torre in specie. Questi rappresenta una fonte d’altra parte autorevole, in ragione delle sue doti intellettuali e del suo ruolo di consultore nell’ambito del processo Vacchero. Sulla scorta del suo lavoro, cui largamente attinsero i posteri, è possibile ricostruire particolari anche minuti di questo disegno sedizioso e dei suoi molti retroscena, a cominciare dall’incognito soggiorno genovese di Ansaldi: un indubbio successo per la corte torinese. Oltre a Vacchero, ulteriori adepti vennero guadagnati all’‘impresa di Genova’: Giuliano Fornari e Francesco Martignone, già intimi di Giulio Cesare, inoltre Giovanni Antonio e Annibale Bianchi, Giovanni Tommaso Maggiolo, Giovanni Battista Benigassi e Giovanni Giacomo Ruffo, che invece erano da tempo in contatto con Ansaldi; in prevalenza possidenti e mercanti (con la notevole eccezione di Martignone, ‘dottor di leggi’), più in generale esponenti del ceto popolare cittadino o rivierasco, di quella componente della borghesia non ascritta (esclusa dai maggiori incarichi di governo), entro la quale Giulio Cesare era da tempo impegnato a fare proseliti.
L’acredine nei confronti della nobiltà è appunto un altro tratto tipico della biografia vaccheriana, o meglio della rappresentazione iconica di questo personaggio, elaborata anzitutto da Della Torre: quella del ribaldo di torvo aspetto (pallido, dai mustacchi rabbuffati, il cui sguardo s’intravedeva appena sotto le falde del cappello), avvezzo a girare armato e contornato da scherani, sempre intento a provocare i nobili (specie in fatto di saluti e precedenze), come pure a fomentarne le liti e a tenere discorsi presso i circoli dei giovani popolari, al fine di persuaderli che «essi non eran sudditi» bensì «concittadini» (Della Torre, 1846, p. 569). E chissà che anche la notte destinata a consacrarlo regista della macchinazione ordita a Torino (per il piano pratico-operativo), non sia davvero iniziata con la propiziatoria lettura ai suoi più stretti seguaci (Fornari e Martignone) del «Macchiavello», «là dove tratta delle congiure» (p. 580).
Per certo altro carattere di questa sedizione fu la diffusione larga (a stampa e oltre i confini dello Stato ligure) di sferzanti libelli (1627-28) di cui Ansaldi fu, con ogni probabilità, ideatore e autore. Scritture di scarsa qualità letteraria, che però denotano un repertorio aggiornato di riferimenti e modelli (Traiano Boccalini, oltre a Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Uberto Foglietta, classico del repubblicanesimo genovese di matrice popolare).
Il disegno cui Vacchero e sodali aderirono era quello di rovesciare l’assetto politico raggiunto dalla Superba nel corso dell’ultimo secolo, attuando il passaggio da una repubblica aristocratica a uno Stato popolare, posto sotto l’egida sabauda. Sempre in base alla ricostruzione offerta da Della Torre, fu a tal fine necessario che Vacchero stesso si recasse a Torino, per incontrare segretamente Ansaldi, il duca di Savoia e il principe Vittorio. Salutato da questi ultimi come l’uomo della sorte, avrebbe risposto millantando le sue forze: ritenendo necessari allo scopo solo altri duecento armati, da introdurre di nascosto in città. Sciolte le precedenti riserve, tornò a Genova e si diede con grande entusiasmo a reclutare la suddetta fanteria (fra quei molti che avevano militato per il duca nella guerra del 1625, confluendo quindi nel banditismo), ponendola sotto il comando di Bartolomeo Consigliero (noto capo-bandito della Val Bisagno). Guadagnò quindi ulteriori complici: il chirurgo Zignago, Bartolomeo Grandino (scrivano delle galee del duca di Tursi, ovvero uomo di fiducia dei Rela, suoi parenti) e Giulio Compiano, cognato di quest’ultimo («ambedue di qualche seguito nella gente volgare»; Della Torre, 1846, pp. 586 s.), inoltre molti uomini della Val Polcevera (ove erano ubicate le proprietà suburbane dei Vacchero), fra cui i fratelli Savignone (Gottardo e Stefano). Si trattò in massima parte di ex militari, tenuti all’oscuro della specifica natura dell’impresa criminale che li si chiamava ora a compiere e incaricati a loro volta di reclutare sgherri. Frattanto Vacchero coordinava anche l’approvvigionamento di armi, mentre Fornari guadagnava alla congiura il parente Gerolamo Fornari e il ‘dottor di leggi’ Accino Silvano.
Negli ultimi giorni del marzo del 1628, a preparativi ultimati, la corte torinese fece però mancare il segnale concordato, forse perché ormai intenta a ricostruire l’alleanza con la Spagna (tradizionale protettrice di Genova). Per ragioni che rimangono altrettanto oscure, Giulio Cesare decise invece di dare comunque avvio alla sedizione, attenendosi alle direttive di massima pattuite a Torino: convocò i capi (in piena notte, a casa sua) e assegnò i rispettivi compiti. Uno dei giorni a seguire, di buon mattino, un primo gruppo di congiurati, capitananti da Fornari e Consigliero, avrebbe dovuto dare l’assalto al palazzo ducale (uccidendo la guarnigione dei tedeschi, il doge e i senatori e incitando il popolo alla lotta). Vacchero stesso, alla guida dei polceveraschi, sarebbe frattanto corso alla loggia di Banchi, per colpire a morte quanti più nobili possibile («sino a’ bambini in fasce», ibid., p. 590). Lo stesso avrebbero fatto Zignago e i suoi uomini, in posizione di retroguardia, e gli scherani agli ordini di Maggiolo, appostati invece a porta S. Tommaso. Nella convinzione che «scorrere» le case della nobiltà avrebbe garantito un lauto bottino, Vacchero ordinava di tradurlo a palazzo ducale, serbandone «il fiore per il principe Vittorio» (che avrebbe dovuto giungere in soccorso con millecinquecento cavalieri e cinquecento fanti scelti, per il ponte de’ Prati, presso Varazze) e spartendo il resto fra i capi (ibid.). Nel mentre, i congiurati avrebbero aperto le carceri e offerto al popolo le vettovaglie dei fondachi pubblici.
Pervaso dalla più grande inquietudine, Vacchero avrebbe a questo punto commesso un fatale errore, rivelando i dettagli del piano anche al capitano Francesco Rodino (reclutato fra gli ultimi). Questi era verosimilmente uomo troppo scaltro e avveduto per preferire l’azzardata impresa ai sicuri benefici della delazione. Prese pertanto l’iniziativa di recarsi a palazzo, ove conferì con il doge Gian Luca Chiavari e con il fratello Tommaso (senatore). Nel primo pomeriggio del 31 marzo la dimora di Vacchero venne circondata dai birri. Al pari degli altri capi, egli aveva però avuto il tempo di fuggire: riparò prima a casa di Zignago, quindi a Recco. Risultando già presidiati i confini di terra e ritenuta altrettanto impraticabile, a causa del mare in burrasca, la fuga per nave (alla volta dello Stato mediceo), nonché temendo che il bando posto sulla sua testa (4000 scudi d’argento) inducesse anche i suoi ultimi fiancheggiatori a tradirlo, Giulio Cesare decise di tornare a Genova, sfruttando la grande confusione di quei giorni. Venne invece stanato a Bisagno, in un rifugio procuratogli da Ruffo (congiurato della prima ora), tradito cioè dal padre e dal fratello di quest’ultimo (i quali rinunciarono alla taglia, per avere salva la vita del loro congiunto).
Tradotto in carcere assieme a Zignago, ai due Fornari, a Silvano e a Martignone, rese infine una piena confessione e sperò invano, al pari dei suoi compagni, che la richiesta di grazia frattanto avanzata dal duca di Savoia e dall’ambasciatore spagnolo fosse accolta dal Minor Consiglio. Venne invece emessa per tutti, a eccezione di Martignone, sentenza di morte. A qualcosa valse almeno la personale strategia attuata da Giulio Cesare, nei pochi giorni che gli rimanevano da vivere: dopo «aver urlato come un lupo» (Della Torre, 1846, p. 625), minacciato il suicidio e osservato un ostinato digiuno, ottenne per sé (e conseguentemente per tutti) che il patibolo non fosse pubblico. La sua vita e quella dei suoi compagni terminò pertanto a Genova il 31 maggio 1628, alla mannaia, in carcere (i loro corpi furono quindi brevemente esposti, sul palco eretto davanti a palazzo ducale).
Particolari ulteriori su questa vicenda (come il coinvolgimento di Pietro de’ Medici, «senza la saputa del granduca», Genova, Bibioteca civica Berio, ms. V.2.10, c. 864) e sul suo epilogo (notazioni che non sempre collimano con il resoconto di Della Torre), emergono dalle due relazioni manoscritte del popolare genovese Giovanni Battista Conio: forse un confessore, certamente un assiduo frequentatore di quelle carceri. Egli rivelò per esempio che Zignago e Vacchero non mostrarono né pentimento, né rassegnazione. Nessun cedimento, del resto, anche da parte di Ippolita Rela, moglie di Vacchero, come pure di Angelo Attanagli, servitore di quest’ultimo (che morì ai tormenti).
Non meno inflessibile fu l’atteggiamento delle autorità genovesi che ordinarono la demolizione di casa Vacchero e fecero erigere, sul luogo medesimo, la colonna d’infamia tuttora esistente. La risposta di Giovanni Andrea, fratello di Giulio Cesare, non si fece attendere: egli fece imbrattare la lapide posta su quella colonna e continuò, fuggitivo a Napoli, a rinverdire variamente la fosca fama evocata ormai dal suo cognome.
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