Giulio Cesare Vanini
Spirito inquieto, che si sente investito del compito civile di un profondo rinnovamento politico-culturale dell’uomo e della società, Giulio Cesare Vanini conduce agli albori dell’età moderna una sistematica demolizione del sapere teologico medievale e rinascimentale nell’ottica di un razionalismo radicale, quasi preilluministico, e apre la strada a una rifondazione del sapere sulla base dell’autonomia della ragione e della natura, con esiti spesso eversivi dei valori etici e culturali della tradizione cristiana.
Nato a Taurisano (Lecce) tra il 19 e il 20 gennaio 1585 da Giovan Battista e da Beatrice López de Noguera, nel 1603 Giulio Cesare Vanini prese i voti con il nome di fra Gabriele nel convento napoletano del Carmine Maggiore e, qualche anno più tardi, il 1° giugno 1606, conseguì la laurea in utroque iure presso il Collegio dei dottori, annesso allo Studio partenopeo. Dopo il febbraio del 1610 si trasferì a Padova nell’intento di seguire i corsi accademici in teologia o forse in artibus, ma il 28 gennaio 1612 le sue aspettative furono bruscamente interrotte da un grave provvedimento disciplinare del generale dell’ordine carmelitano, Enrico Silvio, che mirava a relegarlo in un oscuro convento del Cilento. Associatosi al confratello Giovanni Maria Ginocchio, Vanini preferì tentare la fuga in Inghilterra, dove forse sperava di affermarsi come filosofo-teologo, critico dei principi del Concilio tridentino. La via della fuga fu accuratamente preparata dall’ambasciatore inglese a Venezia, Dudley Carleton, che lo affidò alle cure dell’amico John Chamberlain e lo pose sotto la protezione del potente primate d’Inghilterra, George Abbot, arcivescovo di Canterbury, il quale lo ospitò a Lambeth Palace fin dall’arrivo a Londra, il 20 giugno 1612. L’8 luglio dello stesso anno Vanini pronunciò nella Mercers’ Chapel l’abiura del cattolicesimo.
Il difficile rapporto con Abbot indusse Vanini a riprendere i contatti con il mondo cattolico attraverso l’ambasciatore spagnolo a Londra, Diego Sarmiento de Acuña, e il nunzio di Francia, Roberto Ubaldini. Nel marzo del 1613 egli fece pervenire a Paolo V un memoriale, purtroppo andato perduto, il cui contenuto ci è reso noto da un verbale della Congregazione del Sant’Uffizio (Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, S. O., Decreta 1613, ff. 166 e 168). Sappiamo così che, insieme al confratello Ginocchio, chiese al papa l’assoluzione in foro fori, la liberazione dai voti della religione del Carmelo e la possibilità di vivere in abito secolare o sacerdotale. Le sue proposte furono esaminate dal Sant’Uffizio nelle sedute dell’11 aprile e del 22 agosto 1613 (Decreta 1613, ff. 413-14), in cui il pontefice concesse il perdono previa comparizione spontanea e formale abiura della religione anglicana.
Venuto a conoscenza del suo tentativo di lasciare l’Inghilterra, il 2 febbraio 1614 Abbot pose Vanini agli arresti, dapprima in Lambeth Palace e in seguito (dal 14 febbraio) nella Gatehouse. Il 15 febbraio 1614 lo fece processare davanti alla High commission. Dal verbale della second examination (Archives of the Archdiocese of Westminster, Series A, XII, n. 23, ff. 49-52) sappiamo che egli fu sospettato di aver avuto contatti con i cattolici imprigionati a Newgate, di aver tacciato di antitrinitarismo e di arianesimo il calvinismo e il puritanesimo britannico e di essere miscredente per aver lasciato nella sua cella i libri di Niccolò Machiavelli e di Pietro Aretino «super institutiones» (con evidente riferimento al Principe del primo e al Ragionamento delle corti del secondo).
Fuggito dalla Gatehouse con l’appoggio dell’ambasciatore spagnolo e con il sotterraneo consenso dello stesso Giacomo I d’Inghilterra, Vanini si recò da Ubaldini, chiedendo di pubblicare con licenza della Congregazione del Sant’Uffizio un’Apologia pro Concilio Tridentino, in 18 libri, purtroppo perduta. Ma le autorità ecclesiastiche si dimostrarono interessate, più che a esaminare il testo, a riportare a Roma l’ex transfuga per processarlo nel tribunale del Sant’Uffizio. Tale fu, infatti, il suggerimento del nunzio apostolico (lettera del 31 luglio 1614 all’inquisitore romano, Giovanni Garzia Millini) e tale fu anche la proposta del pontefice (decreto del Sant’Uffizio, datato 28 agosto 1614, Archivio della Congregazione per la dottrina della fede, S. O., Decreta 1614, ff. 420-21). Ma Vanini si guardò bene dal raggiungere Roma e si fermò a Genova, dove strinse amicizia con Scipione Doria che gli affidò l’incarico di insegnare la filosofia al figlio Giacomo. Il 19 gennaio 1615, a seguito dell’arresto di Ginocchio per ordine dell’inquisitore genovese, intuì di essere nel mirino del Sant’Uffizio. Si affrettò a lasciare la Repubblica e si recò a Lione, dove diede alle stampe l’Amphitheatrum.
Dopo un ulteriore incontro con l’Ubaldini nel luglio del 1615, ruppe definitivamente il legame con il nunzio e cercò protezione e successo negli ambienti di corte e nei circoli libertini che proliferavano nella capitale francese. Parigi gli aprì le porte dell’agognato successo e gli offrì la protezione di personalità di primo piano, quali Arthur d’Épinay de Saint-Luc, François de Bassompierre, Nicolas Brûlart, Adrien de Monluc conte di Cramail e, infine, Henri II duca di Montmorency. All’interno di tale milieu culturale Vanini poté respirare quel clima di libertà intellettuale che lo indusse a dare alle stampe il De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis, stampato da Adrien Perier il 1° settembre 1616. Il libro ebbe un immediato succès de scandale ma, ad appena un mese di distanza dalla pubblicazione, la facoltà teologica della Sorbonne intervenne con una sentenza di condanna (Archives Nationales de France, Reg. MM 251, 1608-1633, f. 68). Costretto a cercare un rifugio più sicuro, Vanini si trasferì nella cattolicissima Tolosa sotto la protezione del Cramail.
Quando ormai la politica di normalizzazione di Luigi XIII non poteva più tollerare le punte estreme del radicalismo di Vanini, Tolosa gli riservò la tragica fine del rogo. Arrestato dai capitouls Paul Virazel e Jean d’Olivier il 2 agosto 1618 e deferito alla Cour de Parlement, il 9 febbraio 1619 fu condannato sotto le vesti di Pomponio Usciglio, forse perché la corte si convinse che il nome Giulio Cesare fosse stato adottato dal filosofo per erigersi a novello Cesare, conquistatore delle Gallie al verbo dell’ateismo. In quello stesso giorno nella Place du Salin il boia eseguì scrupolosamente la sentenza: strappò al condannato la lingua con le tenaglie, lo appese alla forca, lo gettò sul rogo e, infine, sparse al vento le sue ceneri mortali.
Le pagine introduttive dell’Amphitheatrum e del De admirandis ci fanno intuire che il filosofo maturò il proprio pensiero in stretta correlazione con il proprio tempo storico. L’esperienza del soggiorno londinese, a contatto con l’intransigenza e il rigorismo dell’ala più estrema del puritanesimo inglese, e quella del soggiorno parigino, caduto negli anni più tragici della reggenza della regina madre Maria de’ Medici, che non esitò a scatenare un sanguinoso conflitto civile, pongono il Salentino di fronte alla grave crisi morale, politica e religiosa che attanaglia l’Europa del primo Seicento.
Egli individua le radici di tale crisi europea nella tradizione culturale cristiano-teologica medievale e rinascimentale, la quale, sottoposta a un’indagine critica, gli appare intessuta di menzogne e falsità, di frodi e di inganni, di imposture e di superstizioni. A differenza di altri spiriti del tempo che aderiscono a generiche formule deistiche (per es., i libertini) o irenistiche, che restavano comunque all’interno di quella tradizione, Vanini approda a un ateismo teorico, inteso come filosofia liberatoria ed emancipatrice capace di chiudere un processo storico e di inaugurare una nuova tavola di valori per l’età moderna. Perciò egli si presenta come un innovatore, portatore di una nuova filosofia che segna una discontinuità e una netta frattura rispetto al passato.
Egli è convinto che la battaglia per la liberazione e per l’emancipazione dell’uomo non può non assumere la funzione antistorica di demolizione del patrimonio ideologico-culturale dell’Occidente cristiano. In tale atteggiamento, che si potrebbe definire preilluministico, trova la sua più profonda motivazione quella dimensione critica, distruttiva, demolitrice del suo pensiero, spesso segnalata dai suoi interpreti. L’eredità medievale e umanistico-rinascimentale ne esce a pezzi: egli demolisce il mito dell’antropocentrismo, scardina i principi del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare i pilastri dell’aristotelismo concordistico, smantella la costruzione di un universo compatto, finito, armonizzato, avente al suo vertice Dio e la schiera delle Intelligenze angeliche, stronca ogni forma di teleologismo, sfata il mito del primato dell’uomo nella scala degli esseri viventi, manda in frantumi i più consolidati principi dell’etica cristiana, smaschera le illusioni della magia e dell’astrologia.
La messa fuori gioco dei cardini del cristianesimo si accompagna a un ritorno all’antico per almeno due ragioni fondamentali. La prima è che Vanini sente il bisogno di riallacciare l’ateismo moderno a quello antico («veteres philosophi [...] ut qui illorum praesidio innituntur moderni athei», Amphitheatrum, 1615, p. non numerata 17). Non a caso egli registra nell’album atheorum soprattutto pensatori come Cicerone, Protagora, Diagora, Diodoro Siculo, Luciano, Plinio e, tra i moderni, Machiavelli e Girolamo Cardano. La seconda è che la filosofia antica è il terreno su cui è possibile operare un recupero della ragione naturale, che Vanini identifica con la ratio aristotelica precristiana, non ancora imbrigliata entro le pastoie delle categorie religiose. Ne consegue che il suo pensiero assume una curvatura razionalistica e radicale perché non sottrae al vaglio critico della ragione naturale alcun dominio o oggetto privilegiato. Esclusa ogni dimensione sovrannaturale o metafisica, l’ateismo moderno coincide per Vanini con la costruzione di un nuovo sapere, fondato sui due pilastri dell’autonomia della ragione e dell’autonomia della natura. In tale prospettiva egli assegna a sé e al nuovo secolo emergente una funzione eversiva di emancipazione civile e intellettuale.
Le pagine introduttive dell’Amphitheatrum e del De admirandis insistono su un netto capovolgimento di valori: l’età dei conflitti ideologici conseguenti alla proliferazione dei settarismi e delle eresie sortite dal crogiolo della Riforma è definitivamente chiusa. Il nuovo che avanza è una secretior philosophia, che coincide con l’ateismo, rappresentato con la metafora di una lussureggiante vegetazione che si espande e invade tutto l’orbe europeo. Il termine secretior non deve trarre in inganno: esso non ha nulla a che fare con il misticismo teosofico platonizzante o neoplatonizzante. La terminologia di matrice platonica ha nei testi vaniniani una mera funzione di copertura. L’ateismo è per Vanini l’antidoto al misticismo. Esso è secretior perché, per sottrarsi all’occhiuta censura degli inquisitori, si maschera nel chiaroscuro di una tecnica compositiva del testo in cui l’ambiguità e l’ironia si alternano al gioco mimetico della simulazione e della dissimulazione. In ogni caso, la chiave di lettura che Vanini ha del mondo moderno è abbastanza trasparente: all’età del predominio ideologico della religione, egli vede susseguirsi un radicale processo di laicizzazione dei valori politico-sociali. È significativo che nella nuncupatoria al Bassompierre egli presenti il suo ingegno come un arboscello che, cresciuto nel terreno sterile della filosofia tradizionale, rischiava di non dar frutti significativi, ma, rinvigorito sotto l’azione del seme turgido e vigoroso («protuberante, turgenteque semine») dell’ateismo, gli ha permesso di oltrepassare le mete degli antichi filosofi e di superare le difficoltà dei moderni («veterum philosophorum metas transiliens et recentiorum obstacula superans», De admirandis, 1616, p. non numerata 4).
Ma ancor più pregnanti sono le pagine del Dialogo I, ove la nuova filosofia (l’ateismo) è presentata come una luce improvvisa che ferisce la vista di chi a lungo è vissuto nelle tenebre («fit laesio repentina, illata luce ijs, qui diu in tenebris commorati sunt», De admirandis, cit., pp. 2-3). Anche qui la terminologia risente di reminiscenze platoniche, ma ha in Vanini connotazioni di segno opposto, perché fuor di metafora le tenebre sono il sapere tradizionale e il tema dell’illuminazione improvvisa suggerisce l’idea di una svolta filosofica destinata a modificare profondamente la sensibilità dell’uomo moderno. La metafora della luce allude cioè a una renovatio che però non ha più coloriture di carattere religioso ma coincide con la liberazione dalle menzogne e dalle frodi della tradizione cristiana («fraudes detegere», «figmenta patefacere», De admirandis, cit., pp. 369, 392, 442, 474). E il compito storico, morale e civile del filosofo è quello di trasmettere almeno una goccia («gutta») del proprio rinnovato sapere alle giovani generazioni (p. 3).
L’ateismo vaniniano si delinea così sulla base di una nuova concezione dell’uomo e del mondo. L’universo vaniniano è autonomo nella sua composizione materiale e nei suoi principi costitutivi di moto e di quiete. Vanini ha in mente un modello meccanicistico; il mondo è lucrezianamente inteso come una machina, che ha al suo interno e nella struttura dei suoi ingranaggi, non dissimili da quelli di un orologio prodotto dagli artigiani tedeschi, leggi certe e stabili che rinviano a un interno principio di movimento. Altrettanto meccanicistico e materialistico è il modello che serve a spiegare il funzionamento degli organismi viventi, compreso l’uomo. La vita fisica e psichica dell’uomo è in un rapporto simbiotico con l’ambiente naturale e umano. I caratteri psichici dipendono dal cibo, dalle abitudini, dai costumi sociali, dalla trasmissione del seme. La vita fisica e psichica dell’uomo è tutta interna alla natura e alla società non solo nel senso che ne è un prodotto, ma anche nel senso più radicale che la natura e la società sono l’unico orizzonte entro cui si sviluppa e si dissolve la vita umana con esclusione di ogni altra dimensione extranaturale. Le ragioni che concludono a favore della mortalità dell’anima sono più consistenti e più forti di quelle a sostegno dell’immortalità. La vita dello spirito ha le sue radici nella materialità del corpo e nel moto meccanicistico degli spiriti vitali e naturali. L’anima stessa non è che uno spiritus che coincide con l’aër perché spiritus deriva da spirare che è l’atto materiale del respirare (De admirandis, cit., p. 345).
L’autonomia della ragione e della natura non è veramente tale se non è autonomia dal soprannaturale. Vanini recide alla radice il rapporto tra Dio e la natura: non solo egli nega l’atto creativo, ma esclude altresì l’attività assistenziale, provvidenzialistica e finalistica di un’intelligenza sovraceleste. Dio non è il fine ultimo dell’ordine universale. In quanto autonomo, il cosmo è eterno, non ha né inizio né fine; non è perfetto, ma è, secondo il celebre paradosso empedocleo, perfettibile proprio in forza della sua imperfezione. L’Amphitheatrum è il testo in cui è condotta la più radicale confutazione dell’idea di provvidenza: in esso ogni sorta di teleologismo è respinto; non ci sono interventi straordinari della divinità nel mondo; la distribuzione del bene e del male è del tutto casuale; i miracoli o sono riconducibili alle causae naturales o risultano essere frodi di sacerdoti e di politici; nell’ordine naturale non v’è traccia di un’intelligenza o di una volontà organizzatrice, come provano le deformità studiate dalla teratologia. Tutto si riduce a materia vivente e vivificatrice, senza gerarchizzazioni e gradi di realtà, poiché unica è la materia di cui sono composti i corpi celesti e quelli terreni fino ai più umili come lo scarabeo. La vita è l’effetto casuale della generazione spontanea. L’uomo non fa eccezione; rigorosamente radicato nel regno animale, è anch’esso una produzione casuale e spontanea della materia: il suo passato è a quattro zampe e nella sua anima non v’è traccia di un’impronta divina.
Se non è fine ultimo, Dio non è neppure causa prima, né nel senso di una causalità libera e contingente, né nel senso di una causalità necessaria. Vanini esclude, da un lato, il volontarismo e il contingentismo scotiano e, dall’altro, il necessitarismo tomistico. Se fosse causa libera, ovvero se fosse volontà assoluta o potenza infinita che non ha limiti o ostacoli al proprio potere, Dio comprometterebbe l’ordine della natura, e, viceversa, se l’ordine della natura si conserva nella propria rigida regolarità, la potenza libera e assoluta di Dio resta, di fatto, inattiva e priva di effetti. D’altra parte la causalità libera coincide con l’agire in modo contingente. Ma se Dio può agire e non agire, se può determinarsi ora in un modo ora nell’altro, vuol dire che Egli è, di volta in volta, ora indeterminato ora determinato, e che in Lui c’è, come in noi, il passaggio dalla indeterminazione alla determinazione oppure il passaggio da una determinazione a un’altra. Ma tutto ciò implica imperfezione e non è compatibile con l’essenza immutabile di Dio. Né è possibile che Dio sia causalità necessaria, perché altrimenti il mondo sarebbe stato creato necessariamente fin dall’eternità e sarebbe coeterno a Dio, con l’ulteriore conseguenza che la causalità necessaria escluderebbe il libero arbitrio umano.
L’ulteriore passo di Vanini è lo smantellamento delle tradizionali prove dell’esistenza di Dio, da quelle cosmologico-a posteriori a quelle ontologico-a priori. La confutazione della prova ontologica non è diretta solo contro Anselmo, ma anche contro la scolastica suareziana che alla vecchia questione dell’an sit Deus? aveva sostituito quella del quid sit Deus? Vanini collega strettamente i due interrogativi del teologo, e mostra come la risposta al secondo costituisca implicitamente una risposta al primo: definire il quid dell’essenza divina significa evidenziarne l’intima contraddizione e quindi l’impossibilità dell’esistenza. Stessa sorte ovviamente tocca alle prove cosmologiche. Nulle sono le prove ex motu o e pulchritudine universi. Tutte si scontrano con l’impossibilità che l’ente eterno e immutabile sia compatibile con il moto o con la novità della creazione.
Naturalmente l’athéisme de théorie non manca di accompagnarsi a punte di carattere dissacratorio che fanno della filosofia vaniniana una filosofia dello smascheramento: portare allo scoperto le frodi e le menzogne è il suo tratto più eversivo. Il bersaglio privilegiato sono le religioni che, originatesi dal timore («primos in orbe deos fecit timor», De admirandis, cit., p. 366), appartengono al mondo della favola. E l’arma di Vanini è la derisione, fino ai limiti del sarcasmo, l’ironia sottile, il proposito di smitizzare e desacralizzare ogni cosa. Non si salva neppure il testo biblico, equiparato alle favole di Esopo; anzi, si fa notare, non senza un malizioso compiacimento, che non se ne è mai trovato l’originale. I versetti salomonici, lungi dall’essere rivelativi di una sapienza divina, sono lascivi, ineleganti, privi di qualsiasi valore razionale e zeppi solo di proverbiucoli popolari. Il racconto mosaico della creazione del mondo è degno di spugna e di carbone; le resurrezioni bibliche sono storielle abbellite fuco sanctitatis oppure sono riconducibili a fenomeni di morte apparente.
L’orizzonte filosofico vaniniano non è solo antiteologico, ma è altresì antimetafisico. Ciò significa che egli esclude non solo l’esistenza di un volere libero e intelligente, ma anche il complesso apparato delle essenze eterne e necessarie della metafisica classica. Il banco di prova della battaglia antimetafisica è quello della gnoseologia, o meglio della contrapposizione tra la conoscenza umana e quella divina. Gli strumenti della conoscenza umana sono la ratio e l’experimentum, ossia la ragione e il senso. La ragione è, come si è già detto, la ratio naturalis, che è autonoma, antidogmatica, critica, non ha origine divina, né è assoluta e astratta, ma è uno strumento flessibile e malleabile, capace di cogliere la multiforme varietà della natura nel suo stesso divenire. Calata interamente entro l’orizzonte umano e mondano, la ragione non è più contrapposta alla sensibilità e agli appetiti animali.
Nulla è più estraneo al pensiero vaniniano di un’attività speculativa e contemplativa, pura e impassibile. Se la mente umana fosse di origine divina – egli scrive – dovrebbe pensare sempre verità divine o quanto meno umane («si divina mens nostra est [...] divina semper vel humana saltem vera cogitaret», De admirandis, cit., p. 491). Per Vanini, al contrario, la razionalità umana è concreta; si risolve nelle stesse procedure e tecniche argomentative e raziocinative le quali richiedono a loro volta strumenti materiali («materialia instrumenta ad ratiocinandum requiruntur», p. 382). Per evitare fughe verso la metafisica Vanini precisa che la razionalità è insita nella materialità del corpo ed è in linea di continuità con l’istinto animale. Capovolgendo la filosofia stoica, che traccia una netta linea di demarcazione tra l’umano e l’animale, egli riconduce la ragione all’istinto. Ciò che in noi è chiamato ragione – scrive – coincide con ciò che negli animali definiamo istinto di natura («quod in nobis vocatur ratio, in brutis naturae instinctus a nobis dicitur», p. 343). Il che è quanto dire che la ratio appartiene all’ambito della realtà naturale e animale. Se l’istinto è la guida della vita animale, la ragione è la guida della vita umana. La sola differenza è che il primo determina nei bruti un comportamento univoco e ripetitivo e la seconda garantisce all’uomo una più ampia gamma di scelte. Ma in entrambi i casi si tratta di comportamenti che hanno come unico referente l’ambiente, puramente fisico per l’animale, fisico e culturale per l’uomo.
In quanto naturale, la razionalità umana è nel tempo perché è nel divenire stesso della natura; a essa sono precluse le verità eterne e assolute. Vanini respinge la concezione aristotelica della duplicità dell’intelletto, attivo e passivo. La conoscenza umana non dipende da un intelletto che coglie intuitivamente gli intelligibili, ma dipende da un diretto contatto con l’ordine contingente della natura. L’intuizione intellettuale delle essenze eterne è respinta perché non ha alcuna ricaduta sul sapere scientifico. Le verità scientifiche sono per Vanini una faticosa conquista, perché le nostre facoltà teoretiche sono discorsive e sono scandite da componenti soggettive come l’assensus o il dissensus, la credulitas, la fides e le consuetudines. Ne consegue che è messa fuori gioco la scientia dei, la quale da un lato non può avere accesso alla varietas del mondo naturale e dall’altro non può essere causa delle cose, perché nell’uno e nell’altro caso essa è incompatibile con il divenire naturale. Se la mente divina conoscesse le cose singole, mutevoli e contingenti, sarebbe, come quella umana, soggetta al mutamento e all’errore; e viceversa, se non ne ha conoscenza, il sapere e il potere divino subiscono una limitazione incompatibile con la natura della divinità.
Il principio logico, di derivazione aristotelica, da cui muove Vanini è che la natura della scienza dipende da quella degli oggetti conosciuti. L’oggetto della scienza – egli osserva sulla scorta della posterioristica aristotelica – non può essere di natura diversa da quella della facoltà conoscitiva. Non è possibile che si dia una scienza certa di ciò che è di per sé incerto. Vanini utilizza tale principio per tracciare una sorta di linea di demarcazione tra la scienza divina e la scienza umana. La teologia non ha fatto altro che trasferire nella mente divina le essenze e gli intelligibili di matrice aristotelica. La scienza divina è certa perché ha a oggetto essenze necessarie e universali, ma ha come contropartita l’impossibilità di inglobare come propri oggetti gli enti singoli e particolari che sono sottoposti al divenire e al mutamento. Non a caso Aristotele aveva affermato che se Dio ne avesse conoscenza, ne sarebbe degradato. Con una punta di radicalismo Vanini ne deduce che Dio non ha conoscenza di tutte le cose; anzi, quanto ai singoli, non ha neppure la conoscenza che ne hanno i bruti (Amphitheatrum, cit., p. 243).
Con la teologia cade, dunque, anche l’ideale epistemico dell’aristotelismo che ha il suo fondamento nella scienza dell’universale. A che serve – osserva Vanini – sapere che Socrate, Platone e Aristotele sono ‘uomini’ se poi ignoriamo le specifiche individualità per le quali ciascuno si differenzia dall’altro? La metafisica essenzialistica è inadeguata a costruire un sapere scientifico. I parametri della scienza vanno ridefiniti a partire dalle reali condizioni entro cui si produce la conoscenza umana. Per Vanini la nostra facoltà intellettiva è operativa ed è in perenne movimento e in continuo divenire, come tutti gli altri enti naturali. Ciò significa che la sua gnoseologia assume una curvatura in senso soggettivistico: il nostro intelletto non ha a oggetto verità eterne che precedono l’esperienza: noi – scrive il filosofo – siamo circoscritti entro i limiti del tempo e dello spazio; la nostra conoscenza muta con il mutare delle cose, non ha la stabilità della conoscenza divina, ma passa dall’assenso al dissenso, dalla verità all’errore o viceversa.
Vanini non spinge la sua analisi fino a sconfinare nel fenomenismo o, peggio ancora, nello scetticismo. A differenza dei libertini, egli si mostra fiducioso nella scienza. L’intelletto umano è sì inchiodato entro le maglie del tempo, ma è altresì una facoltà congetturale e operativa che, agendo sul materiale fornito dai sensi, accresce indefinitamente il proprio sapere, proprio come accade nei processi di indottrinamento (Amphitheatrum, cit., pp. 138, 253), in cui si produce un’organica accumulazione delle conoscenze. Ma il problema di fondo è quello di stabilire quali sono i presupposti della certezza della conoscenza umana. E in proposito egli ha in mente un mutamento del modello epistemologico di scienza, non più ancorato alla necessità delle essenze universali, ma alla necessità intrinseca al rapporto causale. La dimensione della certezza non è preclusa alla conoscenza umana perché l’ordine naturale coincide con la serie causale che lega gli eventi e le cose. La stessa facoltà congetturale consiste nel prevedere possibili effetti a partire da cause presenti o da cause passate. In breve la necessità intrinseca al nesso causale è garanzia dell’ordine e della conoscibilità delle cose e perciò anche della certezza della scienza umana (p. 131). Alla luce di questo mutamento di prospettiva si spiega la continua insistenza del Salentino sulle cause naturali che tolgono alle cose o agli eventi lo smalto dell’arcanum e dell’admirandum. Sottratta alla natura divina, la causalità, come connessione necessaria e intrinseca alle cose, è calata nel mondo fisico, ne è anzi una sorta di legge interna o di regola su cui si fonda la certezza del sapere umano. Il mondo naturale non è più soggetto al capriccio o al volere o al potere di un agente esterno, ma è un ordinamento autosufficiente, governato da propri principi.
Sfortunatamente Vanini compie un passo verso la fondazione della scienza moderna solo nell’ottica di una cornice meramente teorica, dalla quale è assente la matematica che ne è, invece, lo strumento principe. Men che mai egli è attrezzato sul piano della ricerca sperimentale, poiché il suo concetto di esperienza è per lo più equivalente alla semplice osservazione empirica. Ne consegue che l’individuazione delle cause prossime è da lui condotta con una buona dose di approssimazione. Ciò fa sì che la sua ricerca scientifica resti per molti versi di tipo congetturale; gran parte dei suoi risultati sono caduchi; spesso, in mancanza di una puntuale individuazione delle cause prossime, egli si perde in una farraginosa ridda di ipotesi talvolta infelici, talvolta persino elementari e semplicistiche, talvolta forse troppo condizionate da propositi dissacratori o eversivi. Si salvano talune sue brillanti intuizioni nel campo della biologia, che a qualche studioso sono apparse addirittura precorritrici del darwinismo e che forse meglio sarebbe ricondurre nell’alveo di un ingenuo o primordiale trasformismo biologico.
Il filo conduttore del pensiero politico di Vanini è dato da un machiavellismo ampiamente contaminato dalla teoria dell’impostura di origine lucianesca e da una forte contestazione del potere delle corti di matrice aretiniana. Di conseguenza, nelle mani del Salentino il machiavellismo si traduce in una sorta di strumento utile a smascherare il nesso tra potere religioso e potere politico. Il compito del filosofo è quello di denunciare l’assoluta arbitrarietà dell’uno e dell’altro; anzi, è più precisamente quello di svelarne l’intimo intreccio per cui il primo appare essere il supporto ideologico del secondo; entrambi si reggono su un sistema di menzogne che condizionano le libertà civili e intellettuali le quali sono vitali per la libera espressione dell’arte e della scienza.
Ciò spiega la natura eversiva del pensiero vaniniano, che non è evidentemente interessato alla salvaguardia o alla conservazione dell’ordine politico-sociale, ma alla sua demolizione attraverso la demolizione delle Leges. Se i libertins érudits sono allineati sulle posizioni ideologiche della borghesia conservatrice e se il libertinismo dei poeti che si muovono nell’entourage di Théophile de Viau si alimenta del ribellismo delle classi aristocratiche e sconfina in forme di empietà e miscredenza per lo più gratuite e prive di consistenza teoretica, Vanini teorizza una legge di natura che ha una duplice valenza, etica e politica, ed è alternativa alla religione e al diritto storico-positivo.
Tutto ciò che si allontana dalla legge di natura è arbitrio, è violenza perpetrata sugli uomini. Lo smascheramento del potere passa attraverso un serrato confronto tra governo divino e governo terreno che sono speculari l’uno all’altro ed entrambi arbitrari. L’accento cade spesso sul tema della vendetta. Tanto la giustizia divina quanto quella umana si configurano più come vendetta che come equità. Il Dio del sacro codice (si noti la sostituzione della terminologia giuridica a quella religiosa) è vendicatore dei delitti; i giudici terreni sono i suoi ministri. In quanto fa derivare il suo potere da un’origine divina, il sovrano legittima la propria potestà di amministrare la giustizia. Gli interventi punitivi del principe terreno hanno effetto immediato, quelli della giustizia divina rinviano i premi e i castighi a una favolosa vita futura, in modo che l’inganno politico-religioso non sia facilmente smascherabile («ne fraus detegi possit», De admirandis, cit., p. 366) e contribuisca a perpetuare lo stato di schiavitù e di soggezione psicologica del popolo (Amphitheatrum, cit., pp. 82-83, 85-86; De admirandis, cit., p. 366).
Togliere al potere del principe il fondamento materiale e spirituale significa per Vanini svelarne il carattere arbitrario. Qualunque potere, sia esso divino o terreno, non è che arbitrio, non vincolato da nessuna legge, poiché la legge non è altro che la stessa volontà di Dio o del principe terreno. Ciò significa che per il potere, divino o umano, tutto è lecito: se Dio ci rende tutti peccatori, non agisce in violazione di alcuna norma, semplicemente perché agisce in conformità del suo volere (Amphitheatrum, cit., p. 103). Lo stesso vale per il principe terreno. Ma se il potere è arbitrio, vuol dire che non è più di origine divina ed è di conseguenza contestabile. Ciò che trattiene il popolo dalla ribellione non è il timore della punizione divina, ma quello della reazione violenta e persecutoria del principe terreno. Gli stessi filosofi hanno dovuto piegare la testa e si sono rifugiati nel silenzio, incalzati dal timore del pubblico potere. L’esempio di Socrate è stato per tutti un ammonimento. Aristotele abbandonò Atene per evitare che si commettesse un nuovo delitto contro la filosofia. La libera espressione delle idee è sempre avversata dal potere religioso e i libri di Protagora furono bruciati nella pubblica piazza, in un clima di intolleranza non diverso da quello dell’età controriformistica (De admirandis, cit., p. 367; Amphitheatrum, cit., p. 90).
Tanto il potere politico quanto quello religioso si fondano sull’astuzia, sulla finzione e sull’inganno. Non ne è esente neppure il cristianesimo. La figura del Cristo è disegnata da Vanini secondo i parametri dell’astuzia volpina di stampo machiavelliano: fingendo di conservare o di portare a compimento la religione giudaica, Cristo la sovverte dalle fondamenta e istituisce al suo posto la religione cristiana. Poi, per preservarla dal rischio dell’inevitabile corruzione, mette in circolazione la profezia dell’anticristo. Il nuovo profeta cioè si comporta alla stessa stregua del principe novello: per consolidare il proprio potere, che nella fase iniziale è più debole, impiega l’astuzia o le armi. Cristo scelse di fondare la legge cristiana, immolandosi ed esponendosi a una morte ignominiosa, in modo che il suo esempio non fosse appetibile da parte di altri sedicenti messia; Mosè procedette sempre armato e seminò stragi e sangue sul suo cammino. Le religioni, mosaica e cristiana, ebbero vita lunga perché si sposarono con il potere dominante; Apollonio di Tiana fondò una religione di breve durata perché predicò la povertà ed entrò in conflitto con gli interessi costituiti (De admirandis, cit., pp. 357-59, 454).
Ma non basta denunciare che le religioni sono fondate fin dalle origini sull’inganno e sulla menzogna. L’obiettivo di Vanini è di evidenziare che esse esercitano anche una tirannia psicologica. L’inganno – egli osserva – per essere duraturo deve incidere sui bisogni fondamentali dell’uomo, deve far presa sulle sue speranze e sulle sue paure: solo queste esercitano sui credenti una tirannia psicologica, intellettuale e sociale. Si spiega perciò come l’azione del principe o del profeta sul popolo sia di seduzione e di plagio (De admirandis, cit., p. 453). Lo stratagemma cui comunemente essi fanno ricorso è quello di far credere al popolo di avere un rapporto diretto e privilegiato con la divinità, in modo tale che l’opposizione al loro potere sia immediatamente percepita come una violazione del volere divino. Tutti gli atti del profeta mirano a consolidare tale credenza. Il dominio politico e quello sacerdotale, per perpetuarsi nel tempo, si costituiscono in modo da non essere suscettibili di contestazione. Per perpetuare la religione da lui fondata, il novello profeta mira a esercitare un dominio culturale che si estenda oltre la sua morte. A ciò è funzionale lo stratagemma della resurrezione o dell’assunzione in cielo. Mosè si gettò in un abisso in modo che il popolo lo credesse risuscitato. Lo stesso fecero Empedocle e il profeta Elia. E il sottinteso, neppure tanto velato, è che lo stesso fece Cristo per consolidare la neonata ‘servitù cristiana’ (De admirandis, cit., pp. 390, 361).
Nessuna religione positiva, nessuna civiltà storica ha una durata infinita: Vanini ha un forte senso della storicità delle istituzioni civili e religiose: le città, i regni, le religioni sono soggetti alla ferrea legge del divenire naturale. Egli tende a porre un forte accento sulla legge naturale della generazione e della corruzione di tutte le cose: omnia orta occidunt – tutto ciò che nasce è destinato a perire. Nulla dura in eterno: i valori, i costumi, le tradizioni, i modi di pensare, le credenze, le norme etiche, le organizzazioni civili e religiose: tutto è travolto dalla legge del divenire. Cosa c’era di più santo e di più nobile del nome di Giove secondo la fede dei gentili? E cosa è più vile e più esecrando di esso nella fede cristiana. I regni e le religioni sono prodotti storici: nascono, crescono, raggiungono l’apice della loro vitalità, ma poi iniziano il loro inesorabile processo di senescenza e di esaurimento. Nella fase della nascita della nuova religione i miracoli sovrabbondano, perché il profeta vuole apparire come figlio di Dio o come un suo inviato; poi lentamente vanno scemando, fino a scomparire del tutto. Infine a una religione se ne sostituisce un’altra. E poiché il mondo è eterno, i riti ritornano periodicamente: quelli oggi in vigore sono stati attivati migliaia di volte e torneranno di nuovo in vigore, non però secondo l’individuo, ma secondo la specie, cioè non nella forma della loro individualità, ma in quella della loro essenza specifica (De admirandis, cit., pp. 386-89).
Radicale e deteologizzata è altresì l’etica vaniniana, che ha una forte vocazione naturalistica fin quasi ad appiattirsi in un’indagine medico-scientifica o fisiologica delle passioni e delle affezioni umane, ricondotte per lo più a un meccanicistico moto di spiriti vitali. Il dato più rilevante è che si tratta di un’etica autonoma sia da considerazioni metafisiche, sia da presupposti teologici o da valutazioni religiose. Come nel pensiero politico è assente il parametro di uno Stato ideale, così nel pensiero etico sono assenti le dimensioni dell’assoluto; la condotta morale è vista solo in chiave relativistica in rapporto alla struttura composita del soggetto agente. Naturalmente si tratta di un’etica spregiudicata, nel doppio senso che è priva di pregiudizi condizionanti ed estranei alla morale, e insieme è sforzo, tensione e lotta contro ogni gratuito pregiudizio che mortifichi la vita naturale dell’uomo. È dunque in primo luogo un’etica liberata ed emancipata dalla connotazione del peccato, ricca di venature epicuree, fortemente tesa alla rivalutazione del piacere.
Nella riflessione etica vaniniana il piacere sessuale occupa un ruolo centrale, se non altro perché è ciò che presiede e garantisce la perpetuazione della specie. La stessa vita sulla Terra correrebbe il rischio di andare in rovina se la natura non ci avesse dotati dell’istinto all’accoppiamento. Perciò la sessualità è liberata da ogni connotazione negativa: gli organi sessuali non meritano il nome di pudenda, perché sono gli artefici e i maestri della riproduzione («procreationis magistrae [...] et opifices», De admirandis, p. 311). Il Dialogo XLVIII è una piena e radicale rivalutazione del piacere sessuale, proposto come sesto senso e come cosa dolcissima (dulcissima res) per essere in funzione della riproduzione. L’edonismo etico vaniniano è ben lontano dall’assumere venature spiritualistiche: il piacere non è concepito come un’affezione dell’anima, ma del composto, cioè del sinolo, aristotelicamente inteso come unione di anima e di corpo. Il piacere perciò non può non avere una componente corporea e materiale.
Ciò significa che la felicitas non consiste né nella copulazione averroistica né in una visione-contemplazione della divinità trascendente, ma è una felicitas tutta terrena, che Vanini per prudenza proietta nella sfera rarefatta di una Respublica celeste in una sorta di utopia politico-sociale rovesciata, in cui i disvalori del modello sociale esistente sono capovolti: «Una repubblica in cui la partecipazione è senza invidia, […] tutti vogliono che agli altri sia partecipato quello che c’è […] poiché chi vuole vuole che gli altri vogliano le stesse cose e fa sì che noi pure vogliamo ciò che egli vuole» (Amphitheatrum, cit., p. 196; trad. it. Anfiteatro dell’eterna provvidenza, a cura di F.P. Raimondi, L. Crudo, 1981, p. 202).
Ed è proprio sul tema della felicità o beatitudine, intesa come fruizione del sommo bene, che franano le pretese di un’etica di matrice religiosa. Vanini, infatti, insiste sull’impossibilità di un’unificazione di finito e infinito. Solo Dio infinito può identificarsi con sé stesso come ente infinito. Dunque solo Dio può essere beato. Ancora più radicale è l’osservazione che l’agire può avere un fine a condizione che il fine non superi la facoltà dell’operatore. Detto in altri termini: la finalità in generale non può eccedere le condizioni materiali di colui che agisce. Come la carrozza, che è termine finale dell’operazione, non oltrepassa le potenzialità del carpentiere, così il fine della volontà non può trascenderne le potenzialità. La volontà umana non desidera immediatamente il bene sommo, perché è presa dal desiderio dell’essere. Perciò se il bene è l’ente, la nostra volontà desidera l’essere non in quanto ne è priva, ma in quanto lo possiede. Noi cioè non desideriamo l’essere che già siamo, ma desideriamo la sua conservazione. Imboccata questa strada, viene meno qualsiasi finalità soprannaturale. Noi, infatti, non desideriamo l’essere di Dio, perché coloro che desiderano, desiderano la propria perfezione. Se desiderassimo l’essere di Dio, desidereremmo la nostra corruzione e la nostra distruzione (Amphitheatrum, cit., pp. 189-96).
Amphitheatrum aeternae providentiae divino-magicum, christiano-physicum, nec non astrologo-catholicum. Adversus veteres philosophos, atheos, epicureos, peripateticos et stoicos, Lugduni, apud viduam Antonii de Harsy, 1615; rist. fotomeccanica Galatina 1979 (trad. it. Anfiteatro dell’eterna provvidenza, a cura di F.P. Raimondi, L. Crudo, Galatina 1981).
De admirandis naturae reginae deaeque mortalium arcanis libri quatuor, Lutetiae, apud Adrianum Perier, 1616; rist. fotomeccanica Galatina 1985 (trad. it. I meravigliosi segreti della natura, regina e dea dei mortali, a cura di F.P. Raimondi, Galatina 1990).
Opere, a cura di G. Papuli, F.P. Raimondi, Galatina 1990.
Tutte le opere, a cura di F.P. Raimondi, M. Carparelli, Milano 2010.
A. Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rinascimento, II, G.C. Vanini, «Giornale critico della filosofia italiana», 1958, 37, pp. 201-44.
É. Namer, L’æuvre de Jules-César Vanini (1585-1619): une anthropologie philosophique, in Studi in onore di Antonio Corsano, Manduria 1970, pp. 465-94 (trad. it. Un’antropologia filosofica, in Le interpretazioni di G.C. Vanini, a cura di G. Populi, Galatina 1975, pp. 121-51).
A. Nowicki, Centralne kategorie filozofii Vaniniego, Warszawa 1970 (trad. it. parziale Le categorie centrali della filosofia di Vanini, in Le interpretazioni di G.C. Vanini, a cura di G. Papuli, Galatina 1975, pp. 153-316).
G. Papuli, introduzione a G.C. Vanini, Opere, a cura di G. Papuli, F.P. Raimondi, Galatina 1990, pp. 11-156.
M.T. Marcialis, Natura e uomo in Giulio Cesare Vanini, «Giornale critico della filosofia italiana», 1992, 71, pp. 227-47.
Giulio Cesare Vanini e il libertinismo, Atti del Convegno di studi, Taurisano (28-30 ottobre 1999), a cura di F.P. Raimondi, Galatina 2000.
J.-P. Cavaillé, Jules-César Vanini: la langue arrachée, in Id., Dis/simulations: Jules-César Vanini, François La Mothe Le Vayer, Gabriel Naudé, Louis Machon et Torquato Accetto. Religion, morale et politique au XVIe siècle, Paris 2002, pp. 39-140.
Giulio Cesare Vanini: dal tardo Rinascimento al libertinisme érudit, Atti del Convegno di studi, Lecce-Taurisano (24-26 ott. 1985), a cura di F.P. Raimondi, Galatina 2003.
F.P. Raimondi, Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento: con una appendice documentaria, Pisa-Roma 2005.
F.P. Raimondi, Monografia introduttiva, in G.C. Vanini, Tutte le opere, a cura di F.P. Raimondi, M. Carpanelli, Milano 2010, pp. 7-313.
Si veda inoltre:
Istituto per il lessico intellettuale europeo e storia delle idee, Filosofi del Rinascimento, archivi storico-documentari: Giulio Cesare Vanini, htt://www.iliesi.cnr.it/Vanini/ (10 genn. 2012).