CLARO, Giulio
Nacque ad Alessandria il 6 genn. 1525 da Giovanni Luigi e da Ippolita Gambaruti, entrambi patrizi, che del loro ceto portavano tutti i segni non solamente nella mentalità e nelle ambizioni, nell'intreccio di parentele, amicizie, alleanze consortili, ma anche nel modo col quale si adoperavano a rinverdire le proprie fortune, adattando le posizioni di potere acquisite ai nuovi modelli di vita imposti dalle profonde trasformazioni politiche che investivano gli Stati italiani fin dal principio del Cinquecento.
Per un patriziato cittadino come quello di Alessandria, senza radici feudali né vocazioni marziali, di minor peso nel ducato milanese rispetto alle aristocrazie della capitale o lombarde, le possibilità di conservare uno spazio proprio nell'oligarchia dominante e di svolgervi un ruolo apparivano, già agli inizi del secolo XVI, sempre più dipendenti dalla capacità di entrare nei ranghi di una burocrazia in prepotente ascesa, utilizzando il prestigio accumulato in patria per attraversare con attiva determinazione tutte le tappe di un cursus honorum che dal Collegio giuridico della città d'origine conducesse via via fino alle magistrature centrali.
Simili orientamenti, destinati a diffondersi nei casati dei centri minori e a diventare definitivi anche a Milano all'epoca del governo spagnolo, erano ben presenti nella famiglia del Claro. Essi dominarono in modo vistoso la sua formazione e le sue scelte, impressero un tono particolare alla sua attività e alle sue opere, conferirono alla sua stessa cultura giuridica un carattere di organicità con gli ideali, le aspirazioni, gli interessi, in una parola con le ideologie nelle quali per secoli si riconobbe una parte cospicua dei gruppi dirigenti dei vari Stati, non solo italiani, ma in larga misura europei.
Il quadro familiare in cui il C. trascorse la fanciullezza non suggerisce pertanto solo generiche connotazioni ambientali. Al contrario, esso mostra con chiarezza le coordinate entro le quali si mosse, approfondendole, la sua successiva esperienza e al tempo stesso le strade per le quali si veniva fissando una stretta connessione tra potere sociale e potere burocratico, i protagonisti di una tale vicenda, le tecniche e gli strumenti di cui si servivano.
Il padre Giovanni Luigi vantava tra i propri antenati un consigliere degli Aragonesi in Sicilia e numerosi giuristi. Dottore e membro del Collegio di Alessandria, pretore in un periodo imprecisato, aveva ottenuto nel 1515, da Massimiliano Sforza, l'ambitissima nomina a senatore. La caduta del duca e il succedersi di diversi regimi lo costrinsero a ripercorrere la trafila delle cariche pubbliche, prima ad Alessandria, poi di nuovo a Milano, dove fu avvocato fiscale nel 1531 e senatore per la seconda volta nel 1534. Morì, probabilmente a Milano, il 20 genn. 1537, lasciando in eredità, oltre ai beni, una rete di amicizie influenti che non dovettero venir meno al figlio. La madre Ippolita Gambaruti, figlia di un noto giurista, fu donna fine e coltissima; tradusse - pare - l'Eneide in stanze e compose comunque svariate poesie, custodite gelosamente dal figlio, dedicandole a personaggi di spicco, tra i quali il Bembo e l'Alciato, dei numerosi fratelli (sembra ventiquattro), scomparsi quasi tutti assai presto, almeno Camillo, uno dei primi, raggiunse una certa notorietà tra i giuristi collegiati di Alessandria e risulta governatore e podestà di Tortona nel 1529.
I primi anni del C. trascorsero dunque tra Alessandria e Milano, in un ambiente sociale ricco di relazioni e coltivato intellettualmente, soprattutto già indirizzato ad assicurarsi un posto di rilievo nella vita dello Stato in virtù del possesso di strumenti tecnici e di attitudini - il sapere giuridico, l'arte di "servire" il principe - assorbiti con naturalezza sin dall'infanzia. Al C. non mancarono infatti né il costante incitamento del padre, che lo avviava a seguire il suo esempio di funzionario ed a sentire l'orgoglio delle professioni forensi, né le cure della madre, che ne sorvegliava gli studi e non tralasciava occasione per raccomandarlo al duca ed a personaggi altolocati, né un buon precettore, come si conveniva a un patrizio, che - nella persona di tal messer Marco Antonio - lo addestrava ad una perfetta padronanza della lingua latina.
Sappiamo invece ben poco degli studi universitari. Lo stesso C., in alcune questioni discusse nel terzo libro delle Sententiae receptae (§ Testamentum, q. 37, n. 2; q. 46, n. 2; q. 63, nn. 1-2; q. 66, n. 5), nominava come suoi maestri, oltre all'Alciato, due noti professori pavesi: Niccolò Belloni e lacopo Alba, e accennava pure a un periodo trascorso presso l'università di Bologna. Nell'epistoladedicatoria della medesima parte sui testamenti, indirizzata nel 1559 al potente consigliere di Filippo II Antoine Perrenot de Granvelle, uno dei più autorevoli tra i suoi protettori ed amici, egli ricordava il tempo trascorso insieme seguendo i corsi di diritto a Pavia, dove avevano ricevuto anche una visita, memorabile per calore umano, dal padre Giovanni Luigi.
Stando a questo cenno autobiografico, l'inizio degli studi universitari del C. va posto non oltre la fine del 1536: ad un'età certo acerba, e da considerarsi tale anche in quel secolo XVI, che vide non di rado carriere molto precoci. Furono comunque studi intensissimi, a giudicare dal dominio d'ogni sorta di testi giuridici che si dispiegò fin dai primi lavori, iniziati mentre stava per concludersi l'iter scolastico, o poco dopo. L'insegnamento dell'Alciato non poté essere senza peso: troppo energico era il suo esempio di accortezza critica nell'utilizzare le fonti, d'indipendenza rispetto agli interpreti anche più famosi, d'inclinazione a tradurre le ragioni della filologia e dell'erudizione in una severa attenzione per l'elaborazione dogmatica dei concetti, perché l'allievo non dovesse restarne influenzato. Soprattutto, l'insegnamento dell'Alciato dovette svolgere un ruolo essenziale nell'indirizzare il C. verso un umanesimo largo ed aperto, scevro da punte polemiche, ch'egli seppe vivere come un abito ormai naturale d'ogni buon giurista. La considerazione positiva della tradizione tardomedievale, e la capacità del maestro di mostrarsene rispettoso, innestandola però sul tronco robusto di una nuova cultura, trovò in lui ulteriori sviluppi e conferì una dignità scientifica al suo indirizzo praticistico, consentendogli di sollevarsi di molto al di sopra dei meri pratici.
Sul principio del 1550 il C. conseguì il dottorato a Pavia. Subito dopo fece ritomo ad Alessandria, dedicandosi ad un'intensa attività consulente che lo impegnò per sei anni, senza peraltro impedirgli di porre mano ad un imponente lavoro giuridico, col quale si riprometteva di raggiungere la "gloria" e così realizzare un suo radicato ideale umanistico (Sent. recept. lib. IV,epist. dedic.).
Grazie alle ricerche del Moeller, i lavori preparati dal C. tra il 1550 e il 1556, quasi tutti inediti, sono oggi accessibili agli studiosi e ne è noto e ripercorribile lo sviluppo. Infatti, se si esclude uno scritto incompiuto, comprendente la storia universale "a Carolo Magno usque ad hodierna tempora, una cum genealogia omnium fere Principum Christianorum" del quale lo stesso C. dà notizia nel Liber V (§ Finalis, q. 35, n. 9), tutti gli altri sono stati reperiti dal suo biografo in biblioteche ed archivi milanesi o spagnoli. Oltre ai consigli dipendenti dall'attività professionale, solo in minima parte conservati nella biblioteca dell'Escorial, le opere del C. mostrano, sin da questo periodo, di collegarsi da un lato con ambizioni letterarie, inserendosi senza particolare spicco entro generi che la cultura umanistica aveva portato a rinnovata fortuna; dall'altro con ampie ricerche giuridiche nelle quali si faceva strada la più matura vocazione dell'autore.
Alla prima categoria appartengono il volumen storico già menzionato, imbastito avanti la nomina a senatore ("aliis gravioribus implicitus negotiis, illa studia iritermittere sum coactus": Lib. V, loc. cit.), e un inedito Raggionamento della possanza d'Amore (Madrid, Bibl. nac., ms. 613), dedicato a Diana di Cardona e Gonzaga, databile tra il 1549 e il 1560, più probabilmente nell'autunno-inverno del 1555-56, quando il C. trascorse a Mantova diversi mesi.
È un trattatello in forma dialogica, ambientato a Genova sul finire del 1548, al tempo della visita in Italia di don Felipe, figlio ed crede di Carlo V, e rappresenta, non senza vivacità, una "conversazione" tra gentiluomini e dame di una società dotta ed elegante, tuttavia inclinando verso una generica e troppo debole filosofia, verso una disposizione moralistica, che lo rende assai meno incisivo di altri più noti modelli umanistici.
Di maggiore impegno è una monografia sul duello, composta verosimilmente nel giugno 1550 in una versione latina perduta, ma poi ripresa più volte in tre successive redazioni in volgare del 1551 e del 1559-63, tuttora conservate manoscritte presso la Biblioteca dell'Escorial (ms. g. II. 10).
Il tratto più significativo dell'opera, che si proponeva, con la sua vasta dottrina giuridica, di porre ordine in una materia confusa per la moltitudine delle opinioni, risiede nell'insistenza sulla consuetudine, sulla necessità di seguire gli usi osservati, e nella rinuncia a indugiare come aveva fatto al contrario l'Alciato sugli esempi e le digressioni classicheggianti.
Classicheggiante invece è il titolo scelto dal C. per il più importante dei suoi lavori, le Sententiae receptae, la cui prima stesura fu compiuta tra gli inizi del 1550 ed il luglio 1555.
Conservata in forma quasi completa in un apografo della Bibl. Ambrosiana (ms. C. S. VIII, 2), consente di valutare sia il piano e l'impostazione dell'opera, rispecchiati nelle prime parti mandate alle stampe, sia l'evolversi di una posizione scientifica e intellettuale, destinata a trovare compimento nel famosissimo Liber V. Sotto il titolo, che richiamava intenzionalmente l'esempio dell'opera celebre dell'antico giurista classico Paolo, si raccoglieva un repertorio vastissimo di opinioni giurisprudenziali sulle materie più controverse del diritto civile. Il modello classico, tuttavia, era poco più di un prestigioso blasone, di un ossequio tributato alla giurisprudenza umanistica, utilizzata del resto con molta larghezza. Presente e vivissima era l'intera tradizione enciclopedica e lessicografica medievale, riorganizzata però in funzione di un'ispirazione diversa, che aveva altrove i suoi punti di riferimento e che esprimeva in modo assai chiaro il profondo mutare della giurisprudenza a metà Cinquecento, il suo passare dall'ambiziosa progettualità del periodo umanistico alla più dimessa, ma efficace strumentalità dei secoli dell'ancien régime.
Riunire programmaticamente le opinioni prevalenti in materia civilistica, ed al tempo stesso insistere sul valore pratico dello sforzo compiuto, sul carattere d'uso che il lavoro intendeva rivestire, significava infatti dar corpo, tra i primi, ad orientamenti che andavano maturando con forza tra gli studiosi e i pratici del diritto, proponendo una mediazione efficace tra le varie tendenze, una strada percorribile per uscire dalle contraddizioni in cui si era dibattuta una giurisprudenza intimamente contesa tra l'esigenza di ripristinare, con le fonti antiche, una dogmatica rigorosa, più rispondente all'impianto delle fonti, e l'esempio di un'elaborazione medievale, spesso "imbarbarita", ma pure capace di aderire con duttilità ai fatti nuovi affioranti negli ordinamenti. La necessità di una nuova sintesi di fronte a una tradizione divenuta ormai incontrollabile per il sovrapporsi continuo delle interpretazioni, di predisporre una nuova carta geografica per navigare nel mare delle opinioni, si era espressa in molti modi nella giurisprudenza umanistica: coi dibattiti metodologici, i tentativi sistematici, l'analisi critica delle fonti. Il C. intraprendeva un cammino diverso: come altri facevano in quello stesso torno di tempo, egli, guardando alle soluzioni "quae quotidie contingunt in practica", fissava nell'opiniocommunis, riordinata e raccolta organicamente, e comunque corretta da un robusto senso della realtà, scevro da ogni ossequio eccessivo per le auctoritates, la bussola per orientarsi nei confronti del diritto controverso, che costituiva il problema emergente di un ordinamento sostanzialmente giurisprudenziale. Come è chiaro, un simile indirizzo dipendeva anche dal prevalere sempre più visibile, nel corso del Cinquecento, della letteratura consiliare sulla lecturae e dall'esigenza di assicurare una gestione stabile degli ordinamenti, risolvendo questioni concrete di giurisdizione, piuttosto che progettando città nuove col proprio rinnovato sapere. Non a caso, nelle edizioni tarde le Sententiae furono spesso presentate col titolo di Practica civilis, e Practica criminalis fu detto il Liber V.
Secondo il piano originario, ricostruito nei suoi vari stadi dal Moeller, l'opera avrebbe dovuto dividersi in sette libri, dei quali furono scritti solo i primi quattro, con un'ampiezza però che travalicava le intenzioni iniziali, spezzando frequentemente l'ordine alfabetico degli argomenti, che il C. aveva prescelto seguendo una tipica tradizione dei repertori tardomedievali. Nel 1558 la parte relativa ai feudi, tratta dal libro quarto, fu pubblicata a Milano (exc. Franc. Moschenus); nel 1559, con una dedica al Granvelle, al quale si riconosceva il merito di avere appoggiato in vari modi l'autore e di averlo incitato a pubblicare i suoi lavori, apparve a Cremona la parte sui testamenti del libro terzo (exc. Vinc. Comes). Infine, sempre nel 1559, con una dedica a Ferdinando di Cordova, duca di Sessa e governatore di Milano, le parti del libro quarto sulle donazioni, sull'enfiteusi, e di nuovo quella sui feudi (Cremonae, exc. Vinc. Comes). Riunite insieme sotto il titolo di Tractatus quatuor..., con un ordine non sempre immutato e con modifiche di sostanza che esprimevano una maggiore autonomia di giudizio rispetto alle autorità tradizionali, furono ristampate nel 1565 (Mediolani, apud Val. et Hier. Metios fratres), e poi in seguito, da sole o col Liber V, sotto diverse indicazioni nel titolo, numerosissime volte sino alla prima metà del Settecento.
Nel frattempo il C. aveva percorso molti gradi nelle magistrature. Nel 1556 era entrato a far parte del Senato di Milano. La nomina gli giunse a Mantova, dove si era recato per sfuggire ai pericoli della guerra franco-spagnola: da quella città il 7 febbraio indirizzava una lettera ai presidenti e agli Anziani di Alessandria, ringraziandoli per l'appoggio prestato alla sua candidatura.
Il C. scriveva: "Da molte parti mi è venuto aviso che è piaciuto a Sua Maestà farmi gratia del luogo del Senato che hora è vacante, di che sapendo io che la maggior parte, anzi quasi tutto è proceduto dal favore di quella Magnifica Città et che ho da riconoscere il tutto dalla intercessione sua, mi sarei parso troppo negligente, anzi ingrato a non rendere quelle gratie ch'io debbo et posso maggiori"; e aggiungeva: "io non ho già anchora lettere di Corte, però ne ho havuto aviso da molte parti et credo però che sia così" (Una lettera di G.C.). Le ricevette infatti assai presto, sicché la nomina può porsi con certezza nel 1556 (non nel 1557, come viene indicato talvolta).
In questo altissimo incarico il C. ebbe modo di compiere un'esperienza forense, minutamente documentata sul piano archivistico (Arch. di Stato di Milano, Senato. Delegazioni del Sig. Sen. G. C., 1556-1564), che costituì il punto di riferimento centrale della sua opera successiva. Esso gli consentì di rafforzare quell'intreccio di rapporti familiari e di consorteria in cui era vissuto, che rappresentavano la chiave di volta dell'amministrazione milanese e nei quali non a torto il visitatore generale Andrés de la Cueva riconosceva, nel 1560, un "grande inconveniente para el bien de la justicia y buena administración" (Chabod, pp. 158 ss.).
In qualità di senatore, nel gennaio 1558 il C. partecipò al giudizio di sindacato sul podestà di Cremona. Nella stessa città, come membro giovane del Collegio senatoriale, fu poi pretore nel biennio 1560-61, svolgendo non solo compiti giudiziari, ma fronteggiando afiche i rovesci di una durissima carestia, i tumulti interni, i contrasti politici con i territori confinanti, e perciò meritandosi la cittadinanza onoraria e addirittura una statua dai Cremonesi riconoscenti.
Agli inizi del 1561, in occasione di un riordino delle magistrature milanesi che Filippo II aveva intrapreso nel quadro di uno dei ricorrenti tentativi di riforma che si fecero strada nel periodo che passa tra l'ampio progetto, non realizzato, del duca d'Alba (1556) e gli ordini di Tomar (1581), a Madrid si fece il nome del C. per il posto di reggente nel Consiglio d'Italia tenuto da G. Casati, ove questi fosse rientrato a Milano. Il Casati restò invece a Madrid e il C. fu nominato presidente del magistrato straordinario delle Entrate, istituito in aprile sdoppiando di nuovo il magistrato dei Redditi.
Seconda solo al Senato per autorità e per prestigio, la magistratura aveva il controllo esclusivo delle rendite ordinarie dello Stato e di quelle patrimoniali del principe, con una larga competenza sulle materie finanziarie, limitata solo parzialmente dalla giurisdizione concorrente del Senato, e partecipava con diritto di voto al Consiglio del governatore. Una vasta riflessione sulle prerogative, la struttura, i riti di questo organismo, appartenente alla seconda metà del Cinquecento (l'indicazione cronologica più tarda che vi compaia si riferisce al 1571), fu pubblicata sotto il nome del C. da G. Benaglio nel 1711, ma, come avvertiva lo stesso editore, è ascrivibile a lui solo in parte.
Il C. comunque ricoprì l'ufficio con molta energia. Collocato in un posto altissimo dell'amministrazione milanese e spagnola, interpretò fino in fondo il suo ruolo di grand commis, intrattenendo rapporti con le maggiori autorità dello Stato, affrontando conflitti di competenza col governatore e il Senato, stabilendo un diretto dialogo con Filippo II. Forte di questa rilevante esperienza politica, giudiziaria e amministrativa, egli rivedeva frattanto la sua opera scientifica. Nel 1565 pubblicò - come si è visto - l'edizione ampiamente rimaneggiata delle parti già edite del terzo e del quarto libro delle Sententiae. Alla stessa data, aveva già preparato per le stampe il Liber V.
La pubblicazione però fu impedita dalla nomina a reggente nel Consiglio d'Italia, ottenuta nel settembre 1565. In novembre egli era già presso la corte spagnola, dove rimase per circa dieci anni, se si escludono i viaggi in Italia compiuti per motivi familiari e più spesso di ufficio. Nel suo incarico, ebbe modo di scrivere numerosi pareri su controversie giuridiche di scottante rilievo politico, che il Moeller ha rintracciato in gran parte nell'archivio di Simancas e a Madrid. Tra essi si segnalano quelli sul possesso di Finale, sulla possibilità di perseguire penalmente i figli di Guglielmo d'Orange, sulle pretese e sui diritti avanzati da don Giovanni di Austria.
Tra il 1572 e il 1575 il C. fu consultato ancora frequentemente su questioni d'interesse giuridico-politico, per esempio da don Giovanni, da Filippo II, dal duca di Savoia. La morte lo colse improvvisamente a Cartagena il 13 apr. 1575, mentre si recava a Genova per, incarico del re di Spagna.
La sua ricchissima biblioteca e molte carte pervennero in seguito all'Escorial. Dalle opere inedite, nel 1582, per i tipi di G. Marescotti a Firenze e la traduzione dallo spagnolo di P. Buonfanti, furono pubblicati gli Ammaestramenti sopra il ben vivere e il ben morire, che esprimono una religiosità già pienamente controriformistica.
Nel 1568, con una dedica a Filippo II, il C. aveva pubblicato il Liber V Sententiarum (Venetiis, apud Io. Gryphium): un'opera tra le più famose della giurisprudenza d'ancien régime, destinata a ottenere numerose ristampe e ad accrescersi con svariate addizioni di altri giuristi, la quale fondò per secoli l'altissima autorità del C. in tutta Europa tra i pratici e gli studiosi di diritto criminale.
Dopo un paragrafo iniziale, che costituiva uno dei primi tentativi di preporre una sorta di Parte generale alla trattazione dei vari istituti penalistici, ne seguivano altri venti, dedicati a vari delitti e disposti in ordine alfabetico. Infine il paragrafo XXII, molto esteso ed intitolato Finalis. Practica criminalis, affrontava prevalentemente la materia processualistica. I contenuti tecnici e dogmatici dell'opera sono stati illustrati già dal Moeller ed ora. diligentemente, da G.P. Massetto, che ha studiato anche il rapporto intercorrente tra le diverse fonti alle quali il giurista attingeva, né in questa sede è possibile riproporne l'analisi. Occorre però soffermarsi su alcuni aspetti, che ne chiariscono la rappresentatività nell'ambito della giurisprudenza d'età moderna ed al tempo stesso i motivi della straordinaria fortuna. In tal senso, va sottolineato come il Liber V esprimesse una delle posizioni culturali più significative della criminalistica europea, impersonando con grande efficacia atteggiamenti scientifici e schemi espositivi propri della penalistica italiana, molto legata ai metodi del tardo commento, che le consentirono di esercitare un lungo predominio in Europa nei secoli dal XVI al XVIII.
Il trattato, scritto quando si erano ormai assestate le profonde riforme dei sistemi repressivi, compiute sul piano legislativo in Germania, Francia e Inghilterra, "esprimeva un fenomeno che fu centrale nell'organizzazionedello Stato e della società d'antico regime in gran parte d'Europa: l'autorità dei grandi tribunali e la loro sempre maggiore importanza nella funzione dimediazione dei contrasti d'interesse, la loro capacità di attribuirsi e di esplicare in nome proprio, nelle pieghe degli ordinamenti giuridici, una parte assai rilevante dei poteri formalmente attribuiti al principe" (G. Alessi Palazzolo). L'opera del C. fornisce uno specchio fedele del reale funzionamento della macchina giudiziaria, della dinamica che investiva i rapporti Stato-società, della dialettica intercorrente fra dibattiti dottrinali e tradizione romanistica da un lato, rimedi della pratica dall'altro. In questa luce acquista rilievo la sua insistenza sulla pratica e sulla consuetudine ("practica est optima legum interpres": Lib. V, § Fin., q. 54, n. 1), che sono la trama stessa di cui è intessuto il suo pensiero; il riferimento costante all'"arbitrio" del giudice (in verità limitato ai tribunali maggiori); il tentativo di fissare una consuetudine del ducato milanese su cui appoggiare la stabilità dei suoi ordinamenti; infine la diffidenza per le definizioni e le classificazioni puramente teoriche: "Mihi (ut saepius dixi) disputatio super diffinitionibus in practica visa est semper inutilis" (Lib. V, § Fin., q. 12 n. 1). Era la pratica dunque ad essere chiamata in causa per risolvere, con la forza decisiva dei fatti, questioni che non potevano più trovare soluzione sul piano meramente logico-giuridico.
Simili posizioni illustrano ampiamente i motivi della enorme fortuna del C. sia fra i teorici del diritto sia nella pratica giudiziaria dell'ancien régime. Per secoli nella sua opera si apprezzò non soltanto l'autorità del giurista dottore e consulente, capace di dominare con sicura maestria l'intera tradizione giuridica medievale e al tempo stesso i risultati migliori della giurisprudenza umanistica, ma anche e particolarmente l'esperienza del giurista grande burocrate e grande funzionario, interprete rappresentativo di quel ceto forense che incominciava a profilarsi nelle società europee coordinando la propria forza e la propria capacità d'indirizzo intorno ai tribunali supremi - organismi giudiziari e politici insieme - dei vari Stati; che incominciava a porsi come spina dorsale dei regimi accentrati, come punto di raccordo tra i gruppi sociali e come strumento indispensabile per organizzare il potere e la società. In tal senso, l'unità scientifica del mondo occidentale, la coerenza delle ideologie giuridiche, la sostanziale identità delle gerarchie sociali in gran parte dei paesi europei tra i secoli XVI e XVIII, non potevano costituire che lo sfondo più adatto per offrire largo accoglimento, adesione e risalto all'opera di un giurista come il C. ed al modello che questi rappresentava di una giurisprudenza capace di esercitare, al di là di ogni distinzione di ruoli, una funzione unitaria teorico-pratica, scientifica, giurisdizionale, politica. Per l'immediato, nella seconda parte del sec. XVI, le stesse caratteristiche culturali del suo lavoro si proponevano come un'indicazione suggestiva ed efficace. Se da un lato esso continuava a testimoniare un perdurante legame logico-formale coi principi della scienza giuridica dell'antichità e del Medioevo, condizione indispensabile della propria dignità scientifica, dimostrava dall'altro la possibilità di conciliare questa eredità con le nuove regole del sapere umanistico, risolvendo al tempo stesso tutte le aporie teoriche in un'opera quotidiana rivolta alla pratica, di grande rilievo politico e prestigio sociale. Esso pertanto poneva il problema di un'alternativa percorribile a quegli intellettuali delusi dal fallimento delle aspirazioni umanistiche, che si proponevano di rinnovare la società rinnovando le scienze e fissando i termini di una nuova civiltà letteraria, e indicava in un tipo nuovo di giurista il raccordo possibile tra intellettuali e potere.
Bibl.: L'ampia biografia di E. von Moeller, Julius Clarus aus Alessandria,der Kriminalist des 16. Jahrhunderts,der Rat Philipps II. 1525-1575, Breslau 1911 (rist. an., Aalen 1977), fondata su un'estesa indagine archivistica, su un recupero degli inediti e su un esame completo delle fonti a stampa, rende superflua la citazione dei documenti e della letteratura più antica. A questo studio occorre riferirsi anche per l'indicazione dei manoscritti, dei vari progetti e delle edizioni delle opere del Claro. Nulla aggiungono i brevi cenni contenuti nei manuali successivi di storia del diritto, né le voci sintetiche di enciclopedie e dizionari. Spunti critici di diverso valore si leggono invece a proposito di questioni specifiche in numerose opere di storia del diritto penale. Per tutti, si veda: A. Marongiu, Tiberio Deciani (1509-1582) lettore di diritto,consulente, criminalista, in Riv. di storia del diritto ital., VII (1934), p. 319; Id. La scienza del diritto penale nei secc. XVI-XVIII: in La formazione del diritto moderno in Europa, Atti del III congresso internaz. della Società ital. di storia del diritto, Firenze 1977, I, pp. 409, 420; C. Calisse, Principii di diritto penale nei giuristi del Rinascimento, in Studi in onore di A. Solmi, I, Milano 1940, p. 12; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, I, Milano 1953, p. 161; F. Schaffstein, Die europäische Strafrechtswissenschaft im Zeitalter des Humanismus, Göttingen 1954, p. 45; B. Schnapper, Les peines arbitraires du XIIIe au XVIIIe siècle(doctrines savantes et usages français), in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis, XLII (1974), pp. 82, 86; e da ultimo soprattutto G. Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno, Napoli 1979, pp. 99-109. Di recente ha illustrato in maniera estesa le dottrine del C. G. P. Massetto, La prassi giuridica lombarda nell'opera di G. C. (1525-1575), in Confluence des droits savants et des pratiques juridiques, in Actes du Colloque de Montpellier 1977, Milano 1979, pp. 491-546; Id., Ireati nell'opera di G. C., in Studia et docum. historiae et juris, XLV (1979), pp. 328-503. Il testo della lettera alla città di Alessandria si legge nella Rivista di storia, arte, archeol. della provincia di Alessandria, XI (1902), 7, pp. 120 s., Sotto l'indicazione: Una lettera di G. C. Il Titolo del Magistrato straordinario composto nella maggior parte dal presidente G. C. dopo l'anno 1563 apparve in append. a G. Benaglio, Relazione istorica del Magistrato delle ducali entrate straordinarie dello Stato di Milano, Milano 1711, pp. 201 ss.; esso andrebbe confrontato con la copia manoscritta conservata a Simancas, Archivo General, Visitas de Italia. Milan, leg. 265 (sconosciuta al Moeller). La datazione degli incarichi ricoperti nell'amministrazione milanese è fissata ora da F. Arese, Le supreme cariche del ducato di Milano, in Arch. stor. lomb., s. 9, IX (1970), pp. 71, 81, 86, 102, 128, ma dovrà correggersi quella indicata con la carica di senatore (cfr. anche il saggio di U. Petronio, Burocrazia cit., p. 485, n. 11). Per lo sfondo istituzionale e sociale su cui si mosse l'attività del C., cfr. soprattutto U. Petronio, Il Senato di Milano. Istituzioni giuridiche ed esercizio del potere nel Ducato di Milano da Carlo V a Giuseppe II, Milano 1972; e Id., Burocrazia e burocrati nel ducato di Milano dal 1561 al 1706, in Per F. Calasso. Studi degli allievi, Roma 1979, pp. 479-561, entrambi con riferimenti, passim, al Claro. Sullo stesso argomento è sempre fondamentale il saggio di F. Chabod, Usi e abusi nell'amministrazione dello Stato di Milano a mezzo il Cinquecento, in Studi stor. in onore di G. Volpe, Firenze 1958, I, pp. 193-194.