COLAMARINO, Giulio
Nato a Torre de' Passeri in provincia di Pescara da Giovanni e da Chiara Tonnani il 12 nov. 1883, intraprese la carriera giornalistica come redattore del Messaggero negli anni in cui Roma era retta dall'aniministrazione Nathan, e il quotidiano timidamente affacciatosi a vita nel 1878 passava dalle mani di Luigi Cesana a quelle dell'industriale Giuseppe Pontremoli e del banchiere Luigi Della Torre, vicini alla Banca commerciale e al gruppo di elettrici lombardi proprietari del Secolo. Dopo una fugace comparsa nei salotti di una Roma ancora curiosamente provinciale, dove solo D'Annunzio recava una nota di moderna sensibilità per il "mercato" della cultura -, dal 1908 frequentò abbastanza assiduamente il giro della Rassegna contemporanea diretta da Vincenzo Picardi e Giovanni Antonio Colonna di Cesarò. Di quell'esperienza, oltre alla vena anticlericale, gli rimase incrostata addosso una spiccata simpatia per il radical-nazionalismo - sulla Rassegna scrivevano anche personaggi come Massimo Fovel, ai quali l'ostilità verso Giolitti permetteva una pacifica convivenza con intellettuali di estrema Destra - che spiega almeno in parte alcuni ondeggiamenti della sua vicenda successiva.
Accostatosi al "partito" nazionalista muovendo da posizioni analoghe a quelle laico-irredentistiche di uno Scipio Sighele, mantenne la sua adesione all'Associazione nazionalista italiana anche dopo il congresso del 1912 che segnò l'uscita dell'ala sinistra del movimento, ormai in rotta di collisione con gli orientamenti monarchici, reazionari e imperialisti del gruppo Corradini-Federzoni. Al congresso di Milano del maggio 1914, che spalancò le porte del movimento ad Alfredo Rocco e alla sua strategia imperniata sul protezionismo e sull'alleanza elettorale con i cattolici, il C. presentò pertanto un ordine del giorno di minoranza in cui si dichiarava convinto che "il partito clericale, per le sue origini, per la sua organizzazione, per il contenuto teorico e per il pratico svolgimento del suo programma è di natura confessionale", e che di conseguenza la sua "dipendenza da una gerarchia che è fuori dallo stato italiano" lo collocava in irriducibile "opposizione" al nazionalismo.
In seguito di tempo, soprattutto dopo la cessione del Messaggero ai fratelli Perrone, acquistò una grande dimestichezza professionale con i problemi dell'industria, della finanza e dell'economia di guerra. Motivo per cui non stupisce l'evoluzione del suo nazionalismo "democratico" in senso laburisteggiante - lungo un percorso che lo accomuna a Filippo Carli - culminata nella pubblicazione di un volume su Il controllo operaio delle industrie (Roma 1922) dove si commentava il progetto di "cogestione" Giolitti-Labriola con postille di sapore neocapitalistico e riformista, e dove si criticavano i limiti del partecipazionismo borghese che in sintonia con le proprie enunciazioni di principio non trovava il coraggio e l'elasticità indispensabili a un riconoscimento del ruolo istituzionale dei sindacati di classe.
L'avvento del fascismo - del fascismo di Alberto De Stefani, fautore di un "produttivismo" fortemente selettivo e comunque poco propenso a un'espansione indiscriminata degli investimenti - non poteva non incontrare nel C. uno spettatore sospettoso; lo stesso autoritarismo acefalo del primo ministero Mussolini, non giustificato né legittimato da un progetto di società "organica", lo induceva a diffidare di un governo che sembrava voler instaurare poco più di un ordinamento oligarchico e conservatore di stampo sonniniano. Il corporativista antemarcia divenne così antifascista: collaborò al Mondo di Giovanni Amendola, un giornale che se non altro gli dava l'impressione di non compromettersi con le miserie del liberalismo parlamentaristico e chiacchierone, e prestò la sua penna al foglio satirico Il Becco giallo, che gli consentiva almeno di scagliare qualche freccia avvelenata contro una politica intrisa di "pose" e di velleità piuttosto che di sostanza e di programmi.
Nel 1926 il vento cambiò direzione e, in occasione dell'avvio delle leggi "costruttive", il C. si riconciliò con il regime lanciandosi in quell'avventura ferrarese che costituisce il capitolo centrale e più importante della sua attività: chiamato da Nello Quilici - ex direttore del Resto del carlino dopo l'allontanamento di Missiroli -, fu nominato caporedattore del Corriere padano, il quotidiano fondato da Italo Balbo nel 1925. Pur restando la creatura di uno squadrista rissoso e invadente, e pur condividendo in pieno gli obiettivi di purga della "seconda ondata", sotto la guida del Quilici e del C. il Corriere si trasformò presto in uno degli organi più seri, informati, riflessivi e intelligenti del fascismo ultra (nulla di simile, in altri termini, a La Conquista dello Stato di Curzio Malaparte o a L'Impero di Mario Carli ed Emilio Settimelli). S'intende, praticò anch'esso "la caccia allegra, in rumorosa brigata, contro le mezze fedi e le mezze coscienze"; scatenò anch'esso una lotta senza quartiere contro "le prudenziali cautele, le nostalgie pruriginose, le piccole miserie della gente di troppo senno e di nessun coraggio"; forò anch'esso "molti palloni con lo spillo"; irrise anch'esso al "catonismo di certi popolari", all'"intangibilità di certi conservatori", alla "banalità di certi democratici"; reclamò anch'esso una "legge del ferro e del fuoco" che vigesse "per gli ex-avversari" ma anche "per i filofascisti (o fascisti col filo, come furon definiti) e per gli stessi tesserati che adottavano mentalità e metodi dei boriosi tromboni sconfitti" (N. Quilici, Giornale 1925-1934, Ferrara 1934, pp. 383 s.). Intrattenendosi sul problema cruciale della formazione di una nuova élite, per esempio, e riecheggiando spunti che erano stati anche di un Camillo Pellizzi o di un Pietro Gorgolini, il C. polemizzava in maniera impietosa con i "fiancheggiatori" e ripeteva i preambula fidei sui compiti del partito come strumento-principe di educazione dell'aristocrazia di domani: tanto più se dalla stroncatura di un libro di Roberto Cantalupo (La classe dirigente, Milano 1926) poteva far emergere tutto il suo rancore postumo verso l'ex clericomoderato del Corriere d'Italia di Paolo Mattei Gentili e verso l'ex caporedattore dell'Ideanazionale, simbolo di quell'ecumenismo accomodante che secondo lui era quanto si sarebbe dovuto detestare di più (Corriere padano, 21 gennaio 1927). E tuttavia il giornale non si accontentò mai di una prosa genericamente sovversiva, anzi: le sue campagne più vibrate furono improntate in positivo dalla volontà di eliminare "quel hiatus fra attività politica ed economica che costituisce a detta di tutti gli studiosi di politica una delle più gravi anomalie e deficienze dei regimi liberali, parlamentari e suffragistici". "La vita dei popoli moderni, svolgentesi sempre più nelle ferree maglie dell'economia e della tecnica, e che soffre sempre più del divorzio attualmente esistente tra la politica dei curiali e degl'incompetenti che legiferano nei parlamenti e la produzione e la tecnica che subisce i capricci delle leggi fatte all'infuori e contro le sue esigenze, riacquisterà così per merito dello stato fascista il suo giusto e necessario equilibrio" (Corriere padano, 12 dic. 1926).
Anche tecnicamente parlando il Corriere padano esibì tratti di decoro abbastanza inconsueti: pochissimo incenso per il duce - e qui forse giocavano la loro parte, come nelle minuziose descrizioni dell'impresa del trasvolatore De Pinedo in America latina, le mire personali di Italo Balbo - e invece largo spazio all'analisi delle questioni internazionali, alla politica economica, alle inchieste sulla disoccupazione e sul mercato del lavoro. Del resto il C. possedeva una sua precisissima idea delle funzioni di un giornalismo di Stato: la superiorità di "coloro che sono idonei a servire in un esercito regolare e nazionale" rispetto ai "soldati di ventura" che si mostrano "sempre pronti a passare disinvoltamente da un campo all'altro" doveva essere attestata a suo giudizio dalla loro capacità di resistere all'uso e abuso degli articoli-circolare (Corriere padano, 10 marzo 1927).
Della circostanza che non fosse "facile impresa conquistarsi una personalità giornalistica in regime fascista" (ibid.), peraltro, il C. si sarebbe accorto abbastanza presto. Infatti nel 1927 una dura requisitoria contro l'incultura dei "dottrinari" di prima scelta gli procurò fastidi e lavate di capo che lo condussero a un passo dal licenziamento, dal quale fu salvato solo per un provvidenziale intervento di Italo Balbo.
Con singolare lucidità egli aveva osservato: "I fascisti ... ebbero il torto di rassegnarsi disinvoltamente alla condanna pronunciata contro di loro da presunti padreterni del pensiero, e arrivarono al punto di rinnegare la cultura come un impaccio: "La cultura? Ce ne infischiamo. Noi stiamo benissimo così come siamo". E allora non mancarono i teorizzatori fascisti di questo stato d'animo (i quali in quanto teorici erano anch'essi degli intellettuali), che finirono per definire il movimento fascista una insurrezione della sana barbarie italiana contro la bizantina, raffinata decadenza della società intellettuale del nostro tempo. Il bello si è che questi teorici della rivendicazione dei diritti della barbarie e dell'ignoranza, erano, consapevolmente o inconsapevolmente, prigionieri e tributari di quello stesso mondo culturale che pretendevano condannare. Parvero nuovi, ed in realtà erano vecchissimi. Infatti, per giustificare le loro teorie, furono obbligati a ricorrere alle vecchie formule dell'istinto e dell'intuizionismo bergsoniano, dell'attivismo del Blondel e del pragmatismo del James, senza trascurare un piccolo spolvero di Nietzsche" (Corriere padano, 19 marzo 1927).
Dopo l'incidente - che una volta di più aveva confermato come egli si fosse convertito all'iperfascismo non per calcolo o per rassegnazione, ma per coerenza con un programma integralista ed estremista di socialismo nazionale - il C. poté godere di un clima di relativa tranquillità. La Ferrara che aveva conosciuto le prime scorrerie sindacaliste di Edmondo Rossoni, e il primo magistero universitario di Carlo Costamagna, si presentava infatti come il luogo ideale per l'elaborazione di una teoria corporativa spregiudicata e rigorosa. Nacque così - e uscì dal 1930 al 1940sotto la direzione di Quilici e dello stesso C. - quella rivista Nuovi Problemi di politica,storia ed economia che "ebbe un posto di notevole rilievo nella cultura fascista del secondo decennio del regime" (Aquarone), e che anche per il contributo di Fovel propugnò una "concezione della corporazione come ... blocco industriale produttivo autonomo, destinato a risolvere in senso moderno e accentuatamente capitalistico il problema di un ulteriore sviluppo dell'apparato economico italiano contro gli elementi semifeudali della società che prelevano una troppo grossa taglia sul plusvalore, contro i così detti "produttori di risparmio"" (Gramsci).
I saggi pubblicati dal C. su Nuovi Problemi - frequenti fra il 1931e il 1933, e diradatisi successivamente a pro di recensioni sempre attente e misurate - si dispongono lungo due assi complementari e rivelano venature anticonformiste abbastanza inconsuete anche nell'ambiente della "fronda" fascista. L'autore, infatti, si preoccupa di contrastare per un verso quanti minacciano di far svanire il corporativismo nelle nebbie dell'ideologia (si veda, in Scienze sociali,filosofia e scienza economica del 1931, la polemica con Ugo Spirito, accusato di voler sopprimere insieme con la categoria di homo oeconomicus la possibilità stessa di una scienza economica razionalmente impostata), per l'altro quanti individuano in una legittimazione meramente "pragmatistica" i fondamenti dello Stato fascista (si veda, in Lo stato liberale fascista del 1932, la disputa con Mario Missiroli, reo fra l'altro di indulgenze filocattoliche per il suo tentativo di impiantare il regime sul "presupposto antiliberale" che lo accomunerebbe alla Chiesa e che lo avrebbe condotto a stipulare i Patti lateranensi). Per il C., che in ciò si mostra buon allievo del Quilici, l'ordinamento corporativo non può contenere altro che uno sforzo di promuovere la modernizzazione capitalistica fallita in Italia dalla borghesia; e contemporaneamente lo Stato fascista non può essere altro che la specifica "forma" italiana - adatta cioè a un paese anchilosato da ritardi e arretratezze - di quel liberalismo laico, mondano, secolarizzatore che ha posto dappertutto all'ordine del giorno il problema della "comunione tra governanti e governati" (a questo proposito non mancano frecciate nemmeno per G. Gentile, in La più recente filosofia di G. Gentile del 1931, colpevole suo malgrado di riaccreditare "dualismi" e "trascendenze"). Solo "una volta posto il principio dello stato liberale nel senso di stato umano, terreno, immanente nella coscienza dei cittadini" sorgono "tutti quei problemi particolari di rappresentanza e di plebiscito coi quali si tende a tradurre nella sfera giuridico-politica il principio dell'identificazione ideale fra stato e individuo" e che differenziano i regimi l'uno dall'altro (Lo stato liberale fascista, in Nuovi Problemi..., III [1932], p. 447).
Lasciata Ferrara nel 1940, fino all'8 sett. 1943 il C. fu redattore del Popolo di Roma, sulle cui colonne si occupò prevalentemente di politica estera e saltuariamente di cose storiche e filosofiche. Morì a Roma il 19 ag. 1944.
Fu pubblicata postuma una raccolta di scritti a cui attendeva da tempo e che vide la luce a Milano nel 1945, sotto il titolo Il fantasma liberale, con una prefazione di C. Alvaro: ennesimo atto di accusa contro i borghesi che avevano decretato la propria rovina per viltà, irresolutezza, eccesso di furberia, provocando il fallimento della "terza via" che sola avrebbe potuto farli scampare alle spire del "bolscevismo".
Bibl.: P. M. Arcari, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale fra l'Unità e l'intervento(1870-1914), III, Firenze 1939, p. 151; A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965, pp. 214 s.; A. Gramsci, Americanismo e fordismo, in Note sul Machiavelli,sulla politica e sullo Stato moderno, Torino 1966, pp. 320 s.; V. Castronovo, La stampa italianadall'Unità al fascismo, Bari 1970, pp. 313-324; G. Talamo, Il "Messaggero"…, I, Firenze 1979, passim; L. Ferraresi, Radicalismo antigiolittiano eimperialismo democratico. Profilo politico della "Rassegna contemporanea" (1908-1915), in Roma tra Ottocento e Novecento. Studi e ricerche, Roma 1981, pp. 237-290; Encicl. Ital., App. II, I, p. 637.