CONTARINI, Giulio
Nacque probabilmente a Venezia nel 1519, figlio naturale di Federico di Alvise, uno dei fratelli del cardinale Gasparo, dei Contarini della Madonna dell'Orto.
Federico sposò nel 1518 Caterina di Giovanni Priuli, ma non ne ebbe figli. Rimasto alla morte del padre a sovrintendere da Venezia agli interessi commerciali della famiglia, ebbe così modo di condividere, benché forse solo marginalmente, le esperienze religiose che al tempo della crisi cambraica venivano maturando il fratello ed il gruppo dei suoi amici: scrivendo a Paolo Giustiniani, Gasparo lo pregava infatti a suo nome di inviargli l'operetta promessagli De contemptu mundi et de excelentia amoris divini. Federico mori a Perugia nel 1535, mentre accompagnava il fratello a Roma dopo la nomina cardinalizia: un episodio che contribuisce a spiegare la sollecitudine di Gasparo per procurare una dignitosa sistemazione ecclesiastica al nipote, cui per difetto di nascita era negato l'accesso alla carriera politica in patria. Tanto direttamente che per il tramite del Bembo, del Pole e del Farnese, il cardinale ìnsisté ripetutamente presso Paolo III perché gli fosse assegnata una pensione di 200 scudi od un equivalente beneficio non curato. Ottenuta nel marzo 1542 la prepositura di Lomello, nel ducato di Milano, egli intervenne anche presso il marchese del Vasto perché ne agevolasse l'effettivo possesso; quando poi il C. vi si recò nel giugno successivo trovandola alquanto "rovinata et mal aviata et con poca speranza di haverne ad haver frutto secondo ch'era estimata", il Contarini non esitò a premere nuovamente presso il cardinale Farnese perché alla prepositura fosse aggiunto o sostituito un beneficio più pingue od un canonicato.
Tanto affannarsi per il nipote, con il disinvolto traffico di prebende e pensioni che ne faceva seguito (dopo che già l'accettazione dei vescovado di Belluno da parte del cardinale non era passata senza suscitare disappunto tra gli "spirituali"), non dovette trovare buona accoglienza tra i familiari del Contarini; certo non la trovò nel Beccadelli, che scrivendone a Carlo Gualteruzzi lasciava trapelare una decisa insofferenza per le pretese del giovane, e si rallegrava anzi della delusione che questi aveva patito a Lomello, considerandola salutare "per reprimere il suo fasto".
Alla morte del cardinale, seguita di lì a poco, fu poi la volta della famiglia ad intervenire pressantemente perché il C. potesse succedere allo zio nel vescovado di Belluno; Gasparo era anzi ancora agonizzante che già i suoi parenti, lamentando le gravi spese sostenute per il cardinalato e le legazioni, ottenevano che il Senato veneziano formulasse al papa il suo appoggio ufficiale al C. - giovane "di boni costumi et di bone lettere ben conosciuto da Sua Santità" - per la sede prossima a restare vacante. Paolo III non ebbe difficoltà ad accettare la richiesta, e l'11 sett. 1542 gli concesse la nomina, con la relativa dispensa dai requisiti di età e di nascita.
Di quale natura poi fossero, negli anni decisivi della sua formazione, i rapporti del C. con i familiari dello zio e più in generale nell'ambito dell'evangelismo italiano, è difficile poter dire con certezza, mancando testimOnianze che non siano di sporadici contatti personali. L'asserzione dei Senato che il C. fosse "ben conosciuto" da Paolo III fa pensare ad una sua presenza, forse prolungata, nella residenza romana del cardinale; e rievocava probabilmente un comune soggiorno romano anche il Beccadelli, in una lettera inviata al C. da Trento l'8 giugno 1562, dove l'antico segretario del cardinale, avvisandolo dell'arrivo al concilio di Pierre Danès, "vostro amorevole al solito", e di quello imminente di Filippo Gheri, auspicava anche la presenza sua e di Galeazzo Florimonte, per formare cosi "una bella banca di vescovi contariniani, ad honore di quella santa et felice memoria".
Di certo, recatosi presso lo zio nella primavera del '42, il C. ebbe modo di prender parte - in quei giorni per tanti versi cruciali - ad un rapido e forse anche fortuito susseguirsi di incontri tra gli esponenti di maggior rilievo degli "spirituali". Giunse infatti a Bologna il 22 maggio, con un gruppo di parenti (lo zio Tommaso e i cugini Alovisetto e Lauro), con Girolamo Negri e con altri veneziani. Negli stessi giorni arrivarono anche Morone e Florimonte; poiché questi si stava recando a Milano, chiamatovi dal marchese dei Vasto, Gasparo ne approfittò per affidargli il nipote, che si recava a prender possesso della prepositura. Assieme a Tommaso, i due partirono ai primi di giugno passando per San Benedetto Po a render visita al Cortese; mentre Tommaso tornava poi a Bologna, Florimonte, certamente assieme al C., sostava nel monastero in attesa di incontrarvi anche il cardinale Gonzaga e Gian Matteo Giberti. Già agli inizi di luglio il C. era comunque di nuovo a Bologna, negli stessi giorni, dunque, in cui vi facevano sosta il nipote benedettino del legato, don Placido, in compagnia del confratello don Benedetto da Ferrara, anch'egli intimamente legato al gruppo degli "spirituali".
Sembra infatti che il C. si fermasse a Bologna fino alla morte dello zio, avvenuta il 24 agosto, dato che nella polemica poi insorta sull'incontro tra il prelato morente e l'Ochino in fuga, egli fu indicato - implicitamente dal Muzio ed esplicitamente dal Della Casa che si rifaceva Beccadelli - come uno dei testimoni m grado di negare che i due si fossero scambiati qualcosa di più che un rapido commiato. Infine, da una lettera del 5 nov. 1543 di Scipione Bianchini al Beccadelli, allora vicario del Cervini a Reggio Emilia, si ha notizia del passaggio del C. per Bologna, in compagnia di due anonimi dottori: si recavano tutti a Salerno, costoro per "leggere" in quello Studio, il C. per cambiare aria e per studiare.
Meritava segnalare questo viaggio, anche se al momento è del tutto gratuito congetturare su sue possibili frequentazioni - in questa occasione - di ambienti valdesiani o comunque eterodossi, a Napoli o altrove. È invece assai più fondata l'ipotesi che alla familiarità, con la "corte" dello zio e ai contatti con gli "spirituali" abbia fatto seguito non solo un'effettiva partecipazione del giovane C. a quel clima religioso, ma anche una sua più definita adesione alla tematica teologica che, nell'ambito dell'evangelismo, proprio in quel volger d'anni veniva subendo un processo di intensificata e per taluni definitiva chiarificazione e maturazione.
Fino a qual punto ne fosse rimasto segnato. il C. lo avrebbe presto dimostrato con il contegno assunto al concilio. Giunto a Trento verso metà giugno del 1546, intervenne brevemente alla quinta sessione, il 17 giugno, per associarsi alla posizione della maggioranza relativamente al decreto sul peccato originale, e a quella del Florimonte sul problema della predicazione dei regolari, volta ad acquisire ai vescovi un diritto di veto sui predicatori indesiderati. Nella congregazione generale del 10 luglio il C. pronunciò il suo voto sul primo stato della giustificazione.
Premettendo di fondarsi sull'esclusiva autorità della Scrittura - ma intessendo poi tutto il suo argomentare di richiami evangelici e paolini - e di riferirsi non alla fede "storica" ma a quella "viva e vera", "quae caritatem et dilectionem habet annexam", egli descrive dapprima il processo spirituale per cui l'uomo si dispone alla giustificazione, attribuendone totalmente il merito alla bontà e pietà divina, che piega l'animo altrimenti votato al nude e lo rende capace di accogliere il messaggio della salvezza e della remissione dei peccati. Pur lasciando sostanzialmente irrisolto il contrasto tra la necessità dell'intervento della grazia e la libertà dell'assenso del Puomo, il C. sostiene comunque in modo assai netto che la redenzione si attua esclusivamente per la fede, dono divino per il cui tramite si applicano all'uomo i meriti di Cristo, senza alcun intervento delle opere: "nullis consideratis operibus legis". La seconda parte del voto è tutta articolata sul nesso fedeopere, allo scopo di dimostrare che queste ultime, mentre sono inefficaci alla giustificazione, non sono però affatto escluse, ma costituiscono la manifestazione necessaria della fede stessa; a rendere più efficacemente il suo concetto, il C. ricorre all'analogia fede-opere = sole (o fuoco)-luce, per cui la secondo rivela necessariamente la presenza del primo ma non è causa dei suoi frutti: un'agine che Lutero aveva rielaborato dalla patristica (Dionigi l'Areopagita) e dai mistici, frequentemente utilizzata poi in questo contesto in ambito eterodosso, da Valdés come nel Beneficio di Cristo, e che un decennio più tardi verrà ripresa tale e quale, dal Brucioli nella sua difesa dinnanzi all'Inquisizione veneziana.
Nel voto del C., generalmente associato a quello dei Sanfelice, si sono potute vedere rispecchiate le posizioni più diverse: da un esasperato tomismo (Seeberg, Rückert, Stakemeier) alla sostanziale coincidenza con la dottrina riformata (Ranke), dalla spiritualità valdesiana filtrata attraverso il Beneficio di Cristo (Domingo de Santa Teresa) al radicalismo agostiniano (Logan), dall'affinità con le concezioni di Gasparo Contarini (Hefncr, Rivière) e, parzialmente, di Reginald Pole (Fenlon), fino all'estraneità ad ogni precisa tradizione, tanto scolastica (Jedin) che agostiniana, espressione piuttosto di ansie ed esigenze spirituali non sorrette da un adeguato approfondimento teologico (Alberigo). In realtà, senza per questo attribuirvi - come il Prumbs - un esplicito intento irenico, sul piano teologico la formulazione del C. sembra ricercare una soluzione compromissofia: anche se apparentemente assai vicino alla dottrina della sola fide, il C. concepisce infatti la fede come fede di conoscenza infusa e non come fede di fiducia, il Vertrauensglaube luterano, pur distaccandosi nettamente dalla tradizione tomista nell'indicare nella fede in quanto tale il fattore decisivo del processo giustificativo.
Le sue idee suscitarono comunque, in un uditorio sospettoso e intollerante di ogni linguaggio che non suonasse apertamente antiriformato, uno scandalo inaggiore di quanto forse meritassero, e una ripulsa pressoché generale: rievocando - benché in parte indebitamente - la figura dello zio e i suoi tentativi di conciliazione, esse parvero ai più "non satis orthodoxa" quando non francamente eretiche; lo Zanettini (cfr. Buschbell, pp. 2579 264), per parte sua, lo bollò come "lutheranissimo", riservandogli un posto di primo piano negli elenchi dei padri "conformi a Lutherani" che egli veniva inviando ai cardinali Farnese e Sforza. Il C. intervenne comunque ancora coraggiosamente il 19 luglio, in favore del Sanfelice sotto accusa per il suo scontro col Grechetto; il giorno successivo cercò di difendersi a sua volta dalle accuse di eresia, specificando di aver parlato della fede "caritate formata" e rimettendosi comunque alle decisioni del sinodo. L'isolamento e l'ostilità che verosimilmente lo circondarono dovettero però spingerlo ad abbandonare presto l'assise: da una lettera dei legati al Farnese sappiamo che in settembre si trovava a Padova col Pole e il vescovo di Siena, tutti "molto mal redutti" in salute (cfr. Concilium Tridentinum, V, p. 364).
L'esperienza dovette comunque convincere il C. a limitare al minimo la propria presenza ai lavori conciliari. Tornò infatti a Trento solo nel marzo-aprile del 1552, e di nuovo ai primi di novembre del 1562, cedendo ai richiami ufficiali del governo veneto e alle pressioni amichevoli del Beccadelli, dopo aver ripetutamente richiesto un esonero per motivi di salute. Il 5 novembre, scusandosi per l'assenza cui lo avevano costretto le malattie, sostenne la necessità non di nuove leggi, ma della rigorosa osservanza di quelle esistenti; riprese questi concetti nella discussione del 15 dicembre sulla residenza, il cui obbligo riteneva di diritto divino, richiamando le proposte già formulate durante il papato di Paolo III, auspicando la rimozione di impedimenti ed abusi, particolarmente in materie di benefici e di esenzioni degli ordini regolari e dei capitoli delle cattedrali; quanto ai vescovi, li esortò vigorosamente ad intraprendere un'autoriforma senza la quale ogni altro provvedimento sarebbe risultato vano. Tuttavia già all'inizio di febbraio il C. chiedeva ai legati di potersi nuovamente allontanare dal concilio, né vi avrebbe fatto poi ritorno in seguito. È difficile dire se su questo suo trarsi in disparte pesasse maggiormente l'intenzione di non esporsi ulteriormente e di evitare nuovi sospetti, od una sorta di disaffezione verso una Chiesa dai tratti ormai apertamente controriformistici. Se infatti il rammarico che espresse al Morone nel gennaio del '66 per la sua mancata elezione al soglio pontificio può far supporre una persistente adesione agli antichi ideali dell'evangelismo, un altro fatto lascia intendere come la figura del vescovo di Belluno potesse ancora apparire sospetta agli occhi dei cattolici tridentini, ed è la sua completa esclusione dall'operazione tenacemente quanto prudentemente avviata dalla sua famiglia (in particolare Tommaso e Alvise Contarini e Matteo Dandolo) assieme a Ludovico Beccadelli, per riproporre la figura del cardinale, pur attenuata negli aspetti meno graditi al nuovo clima religioso, e culminata nell'edizione parigina delle opere contariniane del 1571: esclusione questa altrimenti difficile da comprendere, quando si pensi che era stato invece il C., in quello stesso giro d'anni, ad occuparsi direttamente della tumulazione dello zio nella cappella di famiglia alla Madonna dell'Orto.
Per quanto attiene alla sua azione pastorale, purtroppo la chiusura dell'archivio curiale impedisce di coglierne appieno le linee direttrici. Il C. non fu particolarmente sollecito a ricevere l'ordinazione sacerdotale e la consacrazione, di cui si ignora la data. Dopo una prima proroga, il 12 maggio 1549 venne espressamente sollecitato da Roma, e fu appunto solo in quest'anno che celebrò solennemente la sua prima messa. Neppure il suo ingresso in diocesi fu immediato, giacché avvenne a quattro anni dalla nomina, il 18 apr. 1546. Sin dall'ottobre del '42, può, a garantire la continuità della sua gestione con quella dello zio, il C. aveva provveduto a confermare nella carica di vicario generale Girolarno Negri, che già l'11 novembre aveva emanato delle severe ed articolate costituzioni disciplinari per il clero diocesano, ispirate ad un rigore di chiaro stampo gibertiano. Meriterebbe un riscontro sugli atti capitolari la notizia riportata da L. Doglioni (Notae historicae..., c. 139) dell'improvvisa destituzione del Negri il 12 gennaio successivo, in seguito ad un diverbio col vescovo. Altri vicari generali furono negli anni seguenti G. A. de Egregis, N. Barzetti, G. B. Valier.
Nel suo lungo episcopato, il C. diede ripetutamente prova di una non comune attenzione ai problemi sociali. Giunto in una città dilaniata dai contrasti che dividevano nobili e popolari, sul finire del luglio 1547 con un tempestivo intervento pacificatore - fedele interprete del ruolo anche politico e civile di cui la Repubblica investiva i suoi vescovi - riusciva ad evitare che le fazioni opposte, approfittando del vuoto di potere determinato dallo avvicendamento dei rettori, arrivassero a scontrarsi armi alla mano in campo aperto, guadagnandosi così gli elogi del Consiglio dei dieci. È certo nelle persistenti lacerazioni che turbavano la vita civile, piuttosto che nel tentativo del C. di riabilitarsi chiamando proprio uno dei più tenaci oppositori alle sue idee in concilio, che vanno ricercate le ragioni della missione di Alfonso Salmeron a Belluno nel 1549. Con la mediazione di Andrea Lippomano, sin dal dicembre 1548 il C. aveva ottenuto da Ignazio di Loyola l'impegno ad inviargli il contesissimo predicatore per la quaresima ventura, anche se poi evitò di presenziare ai commenti paolini del gesuita, preferendo rimanere a Padova. Il successo di Salmeron fu comunque straordinario, sia sul piano della reviviscenza delle pratiche di devozione, sia soprattutto su quello della pacificazione sociale: il che spiega l'entusiasmo del Consiglio nobile della città e la sua pressante insistenza presso il vescovo ed il gesuita stesso per una sua più prolungata permanenza a Belluno. Salmeron vi tornò appunto in giugno, predicando stavolta alla presenza del C.; alla fine del mese i due si recarono assieme ad Agordo per inquisire sulle infiltrazioni eterodosse che erano state denunciate nel centro minerario.
L'azione del C. non si esaurì comunque in unopera di imparziale mediazione e di attenuazione dei contrasti sociali, che allo stato delle cose non avrebbe potuto che risultare filonobiliare. Nel 1571, per esempio, egli non esitò ad intervenire su di una questione centrale e delicatissima nei rapporti sociali - quale quella del prestito ad interesse - stigmatizzando dal pergamo l'attività usuraia e illegale, consistente probabilmente nella stipulazione di livelli a grano, esercitata da un nobile bellunese. Nel 1568 aveva anche istituito un'opera pia a suffragio dei poveri miserabili della diocesi, che nel testamento del 17 sett. 1572 volle erede universale della sua facoltà - circa 16.000 ducati investiti in Zecca e in censi e livelli "secondo l'ordine et forma date dalle Legge" - affidandone l'amministrazione al Collegio dei giuristi di Belluno, vale a dire a quello che era stato il centro della resistenza antinobiliare.
La gestione della mensa vescovile fu caratterizzata da un costante sforzo del C. di ricostituirne e salvaguardarne le entrate, che nel 1553-54 e nel 1560 lo portò a sostenere davanti al Senato i suoi diritti daziari contro le pretese di alcuni mercanti veneziani e della stessa città di Belluno. Esente da decime nei primi anni dell'episcopato, grazie anche alle pressioni dei legati pontifici al concilio, quando nel 1551 era stato chiamato a pagarle si lamentò della quota assegnatagli, che gli pareva eccessiva rispetto alle altre diocesi. La questione dovette rinfocolare i vecchi dissapori col Beccadelli, il quale, coinvolto in quanto nunzio a Venezia, ne avvisava Bernardino Maffei e, pur dichiarandosi desideroso - "se potessi" - di aiutare il vescovo, "et Dio sa quanto volentieri... essendo obbligato come sono a quelle benedette ossa del suo rev.mo zio", metteva però in chiaro - prima "che altri facesse querela di me a torto" - che l'imposta non superava gli 80 ducati, mentre il vescovado era affittato per 1.200 (Nunziature di Venezia, V, p. 277): una malignità che forse il C. non meritava, apprestandosi, come stava allora per fare, a partecipare del proprio alle spese per l'ingrandimento della cattedrale ed il restauro del palazzo espicopale.
Difficoltà e contrasti di carattere economico segnarono anche l'istituzione del seminario. Particolarmente sensibile al problema della formazione del clero - nel suo testamento lasciò al seminario la prebenda canonicale di cui aveva la collazione, istituì un legato per il mantenimento di due chierici ed un altro per permettere ai più meritevoli di completare gli studi a Padova - il C. assegnò 50 ducati annui dalla mensa vescovile per i precettori, oltre alle entrate di due benefici semplici vacanti, ma dovette poi insistere lungamente presso il papa per ottenere la devoluzione di una prebenda canonicale per il maestro, e ricorrere nuovamente a Roma per piegare la tenace resistenza dei canonici ad un'imposta del 5% su tutti i benefici della diocesi: cosicché, se fin dal 1568 il seminario poté considerarsi fondato - il terzo nella Terraferma veneta -, fu solo sul finire dell'anno successivo che la vertenza sul suo finanziamento trovò una definizione.
Tutto l'episcopato del C. fu del resto percorso da continui contrasti col capitolo, che vedeva progressivamente ridursi le proprie prerogative ed esenzioni. Già nel 1544 il vescovo aveva dovuto intervenire da Padova per vincerne l'opposizione nei riguardi di un canonico soprannumerario che era stato nominato dallo zio. Vi erano stati poi contrasti sulla questione della precedenza del vicario sul decano, e della preminenza dell'arciprete (di nomina vescovile) sul capitolo in assenza del decano stesso; nel 1564 il vicario aveva cercato invano di opporsi all'elezione di Niccolò Memmo al decanato, adducendone l'illegittimità dei natali e l'ignoranza della lingua latina. Ma ciò che soprattutto fece insorgere il capitolo fu il tentativo dei vescovo di restringerne la libertà di elezione all'interno di una rosa di candidati da lui formulata; vana fu invece la protesta dei canonici quando il C. ottenne il diritto di elezione ad un canonicato cui aveva appoggiato l'ufficio della penitenzieria, e quando fece trasferire alla dateria la collazione dei benefici relativi alle sei cappelle con cura d'anime annesse alla cattedrale, in modo da riservarsene in pratica l'elezione; inoltre il vescovo ottenne un'importante vittoria riuscendo ad imporre nuove norme per le elezioni canonicali e ad organizzarne egli stesso i concorsi: in definitiva - constaterà un inacidito canonico settecentesco - il C., forte di appoggi veneziani e romani oltreché di una larga popolarità locale, aveva segnato col suo episcopato il momento di massima espansione della giurisdizione vescovile al danni di quella capitolare.
Nei suoi ultimi anni, il C. ebbe a subire alcuni richiami da Roma per il mancato rispetto della residenza. In realtà il nunzio Facchinetti poté sempre chiarire che le sue assenze dalla diocesi erano temporanee, e dovute a gravi motivi di salute o a questioni attinenti al suo ufficio. Scrivendo al Morone nel 1564, in seguito ad una formale ammonizione, lo stesso. C. lo assicurava di aver sempre osservato rigorosamente la residenza, anche prima che il concilio ne decretasse l'obbligo, e lo invitava a far verificare la bontà e l'efficacia dei suo operato.
Collettore ordinario delle decime del clero, collaborò nel 1570 alla raccolta della tassa straordinaria concessa dal pontefice a Venezia per finanziare la guerra coi Turchi. Nel 1574 nominò coadiutore con diritto di successione Giovan Battista Valier. Morì a Belluno la sera del 7 ag. 1575, e venne sepolto per suo desiderio nella cattedrale.
Fonti e Bibl.: È purtroppo tuttora inaccessibile l'arch. della curia vescovile di Belluno. Alcune notizie si possono trovare in Belluno, Bibl. com., ms. 411: L. Doglioni, Notae histor. passim collectae, cc. 139-147, 157-160, 167, 171-179; Ibid., ms. 412: Id., Notulae in libro Provisionum Magnificae Comais Civ.tis Belluni, cc. 106v-107; Ibid., ms. 537: F. Alpago, Diz. delle cose bellunesi, cc. 479v, 590v; Ibid., ms. 583: C. Papani, Descriptio originis Civitatis Belluni, con agg. di L. Doglioni, Quaderno III, cc. 9-12, 26-27; Ibid., Libri d. arti del Cons. Magg. di Belluno, Liber O, cc. 87, 152. Una lettera del C. al capitolo è in Belluno, Bibl. Lolliniana, ms. 58. La dispensa del C. dai requisiti di età e nascita è in Arch. Segr. Vaticano, Fondo Concist., Acta Camer., V, c. 64; vedi inoltre: Ibid., Schedario Garampi, Vescovi, XXXVII, c. 49rv. Due lettere del C. al Morone in Bibl. Apost. Vaticana, Lat. 6410, cc. 55rv, 261. Le notizie tratte dall'epist. del Beccadelli sono in Modena, Bibl. Estense, Mss. Ital. 1827-alfa.B.I.31, cc. n. n., lett. a C. Gualteruzzi del 6 aprile, 23 e 24 maggio, 10 giugno, 8, 18 e 31 luglio 1542; inoltre in Parma. Bibl. Palatina, Mss. Pal. 1010, cc. 117v, 393rv; 1013, c. 29; 1022, fasc. 11, cc. n. n., lettera di S. Bianchini a Beccadelli del 5 nov. 1543. Sull'intervento del C. negli incidenti del 1547 vedi Arch. di Stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci, Lettere dei Rettori, busta 153, n. 83; per la questione dei dazi, Ibid., Senato, Terra, reg. 39, cc. 45, 93v, 109v, 114v-115. Un lascito all'opera pia istituita dal C. nel testamento di Alvise Contarini q. Vincenzo, Ibid., Notarile, Testamenti, Cesare Ziliol, busta 1264, reg. XI, c. 15. Copia della lettera del Senato in favore del C. in Venezia, Bibl. del Civ. Museo Correr, Cod. Cicogna 1540 (= 2467): Memorie venete, cc. 113-114; vedi, inoltre, Ibid., Cod. Cicogna 3781: G. Priuli, I pretiosi frutti del Magg. Cons., I, c. 172v. Vedi ancora Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 205 (= 7463): R. Curti, Serie delle famiglie nobili venete, II, c. 107v; Ibid., Mss. It., cl. VII, 15 (= 8304): G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, c. 172v (attribuisce erroneamente la paternità a Vincenzo). Componimenti poetici e documenti sulla vertenza dei dazi, ad opera di Domenico Sacello, in Bergamo, Bibl. civica, Delta.3.28. Notizie sulla missione di Salmeron ed il testo delle costituzioni del Negri nella tesi di laurea di S. Canali, L'attività dei gesuiti in Belluno dalla Rif. trident. alla soppress. della Comp. (1546-1773). Univ. di Firenze, 1975-76, pp. 7-8, 32, 49, 52-94. Si veda, inoltre, la tesi Ph. D. di O. M. T. Logan, Studies in the Religious Life of Venice in the 16th and Early 17th Centuries: the Venetian Clergy and Religious Orders 1520-1630, Univ. of Cambridge, 1967, pp. 292, 294 s., 309, 488, 494 s., 514. Sulla figura e l'attività del C. vedi, in particolare, Monum. di varia letteratura tratti dai mss. di mons. L. Beccadelli..., I, 2, Bologna 1799, pp. 171, 181; Regesten und Briefe des Cardinals Gasparo Contarini (1483-1542), a cura di F. Dittrich, Braunsberg 1881, pp. 193. 204, 241; A. Casadei, Lettere del card. G. Contarini durante la sua legaz. di Bologna, in Arch. stor. ital., CXVIII (1960), pp. 88, 221, 236; A. Salmeron, Epistolae, I, Matriti 1906, pp. 72-73;Sancti Ignatii de Loyola... Epist. et instruct., in Monum. ignatiana ex autogr. vel ex antiquior. exemplis collecra, s. 1, II, Matriti 1904, pp. 277-8; III, ibid. 1905, p. 62; A. Polanco. Chronicon, I, Matriti 1894, p. 408; J. Hansen, Rheinische Akren z. Gesch. d. Jesuitenord. 1542-82, Bonn 1896, pp. 152 s.; Nunziature di Venezia, Roma 1963-72, V-VI, a cura di F. Gaeta; VIIIXIX, a cura di A. Stella, ad Indices; Relazioni dei Rettori ven. in Terraf., II, Podest. e capir. di Belluno. Podest. e capit. di Feltre, Milano 1974, ad Indicem; Concilium Tridentinum..., I-II, V, VIII-X, a cura di S. Merkle-St. Ehscs-A. Postina-G. Buschbell, Friburgi Brisgoviae 1901-16, ad Indices;G. Muzio, Le mentite ochiniano..., Vinegia 1551, f. 22v; G. Della Casa, Gasparis Contareni vita, in Latina Monimenta..., Florentiae 1564, p. 139; Petri Cordati adolescentis bellunensis praeludia, Florentiae 1553, pp. 3-6, 25-38, 129-130 (l'orazione per la prima messa dei C. con una dedica di Florio Maresio); è dedicato al C. anche O. Doglioni, A. D. B. Ex Templo Palladis, et Aesculapii varia theoremata..., Patavii 1570; G. Piloni, Historia..., a cura di L. Alpago Novello-A. da Borso-R. Protti, Belluno 1929, pp. 123, 562, 581, 593, 598, 600, 606, 627-629; S. Pallavicino, Istoria del Concilio di Trento, Roma 1656, p. 674; L. Corte, Il tripartito simbolo di divotione alla Ser.ma et Potentissima Rep. di Venetia..., Trevigi s. d. [ma 1669], p. 61; M. Giustiniani, Sacros. 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