FACCIOLI, Giulio
Nacque a Verona nel 1810 da Antonio e da Teresa Schiavoni. Poco si sa della sua famiglia, ma parecchi elementi inducono a ritenere che essa fosse molto in vista ed economicamente solida. Il F., infatti, poté compiere gli studi universitari nell'ateneo patavino dove si laureò in giurisprudenza, palesando, al contempo, quelle doti intellettuali che presto lo avrebbero segnalato, a Verona, come uno degli spiriti più acuti della sua generazione. Inizialmente questa predisposizione si orientò verso l'esercizio dell'avvocatura e verso la passione per gli studi classici, attestata, quest'ultima, anche dalla appartenenza alla cittadina Società letteraria; è ipotizzabile, altresì, una prima attenzione per l'attività politica, ma non è dato sapere, tuttavia, se fosse lui il F. "esaltato liberale" il quale intorno al 1831 veniva individuato dalla polizia come appartenente alla setta dei "masenini", un'organizzazione che aveva la sua principale ragion d'essere in qualche manifestazione di scherno e in isolati atti di violenza contro i militari austriaci.
Appartata rispetto allo stesso Lombardo-Veneto e dunque impenetrabile da ogni sforzo di radicamento delle aspirazioni indipendentiste, Verona, dopo che nel febbraio 1814 aveva salutato con gioia la partenza dei Francesi ed il ritorno degli Imperiali, si presentava negli anni Trenta come la culla del conformismo e della fedeltà a Vienna, cosa che ne farà fino al 1866 - e non solo dal punto di vista militare - il vero cuore del sistema di dominio austriaco in Italia. Posta perciò al riparo da ogni pericolo di contagio liberale, la popolazione restò praticamente inerte fino a quando, nel marzo del 1848, l'allentarsi del controllo sulla città come conseguenza del disorientamento seguito alla notizia dell'insurrezione viennese, non mise alcuni elementi della borghesia cittadina nella condizione di chiedere ed ottenere qualche riforma di facciata.
Il 19 marzo 1848 fu annunziata la concessione della guardia civica, istituzione composta di quattro compagnie - a capo di una delle quali fu posto il F. - che ebbe più il compito di calmare gli animi che di spingerli alla rivolta, così da preparare il terreno al rientro del generale Radetzky e alla riorganizzazione dell'apparato militare in vista della guerra con il Piemonte. Il 3 aprile, due settimane dopo la sua creazione, la guardia civica era invitata a deporre le armi e i distintivi.
Per quanto effimere, le vicende del '48 veronese avevano aperto una breccia nella rigida struttura poliziesca, consentendo ai pochi personaggi dediti alla politica di prendere contatto con i cospiratori lombardi. Se ne videro gli effetti all'indomani del '49, allorché anche a Verona, grazie agli sforzi di qualche fervente mazziniano (in particolare il comasco L. Dottesio), fu possibile dar vita ad un comitato rivoluzionario capace, pur nel sostanziale isolamento dalla cittadinanza, di dispiegare un'intensa attività di raccolta di fondi e diffusione di materiale propagandistico a stampa, in particolare della produzione della Tipografia Elvetica di Capolago.
Di tale comitato il F., che il cognato G. Camuzzoni, futuro sindaco di Verona, avrebbe ricordato, prendendone le distanze, come uno "fra i più in vista e i più maneggioni" (Camuzzoni, I, p. 61), fu effettivamente un po' l'anima, aprendo la sua casa di città e la bella villa di famiglia, a San Giacomo del Grigiano, alle riunioni clandestine in cui personaggi come il libraio D. Cesconi o il conte C. Montanari si incontravano coi democratici di altre città per studiare e mettere a punto i piani della lotta armata all'Austria. Era, la loro, un'azione che l'importanza strategica di Verona rendeva tanto più delicata e pericolosa, e il F. la portò avanti quasi con spavalda incoscienza, così da addentrarsi rapidamente in una spirale punteggiata di smercio di cartelle del prestito nazionale, ricognizione dei punti fortificati di città e provincia, acquisto di armi, collegamenti con gli altri comitati (quello mantovano, soprattutto), propaganda presso i soldati ungheresi, preparazione di attentati. In pochi mesi, insomma, il comitato veronese, costituitosi all'inizio del 1851 in seguito ad un primo contatto tra il mantovano don E. N. Tazzoli e C. Montanari, si era dato una fisionomia già ben definita sotto il profilo organizzativo e, in stridente contrasto con la passività degli anni precedenti, aveva fatto di Verona un punto di capitale importanza per un eventuale, prossimo sbocco insurrezionale.
Tutto l'edificio si sgretolò rovinosamente quando, dopo l'arresto dei cospiratori mantovani nella primavera del 1852, i giudici austriaci scoprirono i rapporti intercorrenti tra i veronesi e gente come don Tazzoli e L. Castellazzo. Le rivelazioni di Castellazio del 19 giugno 1852 erano seguite, il giorno dopo, dall'arresto del F. e, il 24, da quello del Cesconi e poi di A. Aleardi. Sottoposto a stringenti interrogatori, il F. non impiegò molto a parlare: in proposito qualche studioso ha chiamato in causa la "malefica abilità" degli inquirenti (Simeoni, p. 330); altri, per spiegare l'inarrestabile flusso delle rivelazioni aperto dalle prime ammissioni, hanno ipotizzato per il F. una sorta di crisi interiore ("Ora che mi sono riconciliato con Dio desidero farlo anche con gli uomini ...", avrebbe detto dopo un colloquio col cappellano del carcere). Sta di fatto che, nella speranza di alleggerire la propria posizione, il F. andò oltre le aspettative dei giudici, svelò particolari su particolari, fece varie chiamate di correo e sostenne senza batter ciglio drammatici confronti, compromettendo definitivamente tra gli altri l'amico C. Montanari e Tito Speri: don Tazzoli lo bollò perciò con l'epiteto di "calunniatore disonesto" (Martini, p. 48), lo Speri con quello di "delatore furibondo" (Giacomelli, pp. 305 s.), e un altro arrestato, L. Pastro, si sentì dire dal Montanari che il maggior dolore gli era venuto dal "tradimento d'un amico ... pel quale egli avrebbe tutto sacrificato, anche la vita, tanta era l'amicizia e la stima, e perché lo riteneva d'ingegno, leale, e di fortissimo carattere" (Pastro, p. 81).
Tutto ciò ha indotto uno storico implacabile come il Luzio a scorgere, all'origine del comportamento del F., una totale mancanza di forza di carattere e il terrore provocato in lui, avvocato, dalla consapevolezza dei rischi cui lo avrebbero esposto i reati commessi. E in effetti lo stesso F., dando alle stampe nel 1862 a Verona una ricostruzione dei momenti più tormentati della propria esistenza (La scuola della sventura ossia inspirazioni e reminiscenze d'un carcere. Prose e versi), oltre a palesare doti non disprezzabili di scrittore e poeta e uno sforzo notevole di introspezione, avrebbe mirato ad insinuare sapientemente nel lettore il convincimento che le tante debolezze di cui si era reso colpevole erano scaturite da una incapacità, spirituale prima che fisica, di reggere all'irruzione della tragedia nel fluire sereno dell'esistenza: la tremenda solitudine del carcerato sarebbe così diventata ai suoi occhi prima la giustificazione del tradimento, poi addirittura l'atto di accusa contro quanti, al sicuro da ogni persecuzione poliziesca, avevano preteso di ergersi a giudici di chi non era stato tanto forte da spingere il proprio eroismo sino al martirio.
Al processo il F., accusato tra l'altro "di avere effettuata la relazione del Comitato centrale veneto con quello di Mantova" e "di avere intrapreso più viaggi nell'interesse del partito rivoluzionario", e dichiarato quindi reo del delitto di alto tradimento, fu condannato, con sentenza del 7 dic. 1852, a 12 anni di carcere, una pena che teneva conto del "grande pentimento" dimostrato (Luzio, p. 314) e che per metà gli sarebbe stata condonata in forza della risoluzione sovrana del 7 marzo 1853. Il 2 dic. 1856 il F. poté uscire, libero, dalla fortezza di Josefstadt in Boemia e tornare a Verona, dove lo attendeva un'altra solitudine, quella del delatore le cui denunzie erano costate la vita a più di un cospiratore.
Sembra che non sopravvivesse a lungo: un biografo data infatti la sua scomparsa al 1864, contraddicendo così il Luzio che, nella sua requisitoria contro il F., arriva ad accusarlo di non aver combattuto né nel '59 né nel '66.
Un figlio del F., Carlo, dovette sopportare per tutta la vita il peso del disonore paterno e si sforzò di reagirvi affermandosi come studioso e traduttore dei poeti romantici inglesi.
Bibl.: L'unica biografia del F. si legge in Diz. del Risorgimento nazionale, II, sub voce, dove e utilizzata in particolar modo la messe di notizie raccolta, desumendola dalle carte processuali e dalla ricca memorialistica sui processi di Mantova, da A. Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo..., Milano 1916, pp. 31, 42, 94 s., 108, 116 s., 140-145, 151 ss., 168, 178, 241, 313 s., 334, 460, 474, e in Id., I processi politici di Milano e Mantova 1851-53 restituiti dall'Austria, Milano 1919, pp. 22, 48, 68 s.; da tener presenti le testimonianze di A. Giacomelli, Reminiscenze della mia vita politica negli anni 1848-53, Firenze 1893, pp. 259, 287 s., 304-315, 343; G. Camuzzoni, Note autobiografiche, Verona 1896, I, p. 61; L. Pastro, Ricordi di prigione 1851-53, Milano 1915, pp. 81, 108, 149; L. Martini, Il Confortatorio di Mantova negli anni 1851-52-53-55, Mantova 1959, p. 205. Nella copiosa letteratura sulla cospirazione del 1852-53offrono qualche elemento di conoscenza, oltre ai lavori del Luzio, G. Segala, Verona e Mantova nella cospirazione contro l'Austria e neiprocessi politici del 1850-53, Verona 1892, pp. 57-66; G. De Castro, I processi di Mantova e il 6 febbr. 1853, Milano 1893, pp. 129, 156, 230, 253 s., 304, 306 ss., 333, 336, 443; R. Caddeo, La Tipografia Elvetica di Capolago, Milano 1931, ad Indicem; L. Simeoni, La congiura e il processo di C. Montanari 1851-53, in Studi storici veronesi, II (1948), pp. 325-357; R. Fasanari, A. Aleardi al processo dei martiri di Belfiore, in Vita veronese, VII (1954), p. 5; Id., Il secondo arresto di C. Montanari, ibid., pp. 98-102; B. Simonetta, L. Castellazzo e i processi di Mantova del 1852-53, in Rass. st. d. Risorgimento, XLIII (1956), pp. 89, 115, 118, 121. Altri momenti della vita del F. ricevono qualche lume in A. Scolari, C. Montanari e la Società letteraria, di Verona, in Atti dell'Accad. di agric., scienze e lettere di Verona, s. 6, IV (1952-53), p. 4dell'estratto, e soprattutto in R. Fasanari, IlRisorgimento a Verona 1797-1866, Verona 1958, ad Indicem.